75 ANNI FA A MODENA L’ECCIDIO DI SEI OPERAI CHE CHIEDEVANO DI LAVORARE di Sergio Castelli
L’ECCIDIO DI SEI OPERAI CHE CHIEDEVANO DI LAVORARE
di Sergio Castelli
27-01-2025 - CRONACHE SOCIALISTE
La protesta per i licenziamenti alle Fonderie Riunite finisce in strage: sei morti, centinaia di feriti. Sul luogo accorrono Giuseppe Di Vittorio, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti. Le rappresentanze dei lavoratori provenienti da ogni parte del Paese partecipano ai funerali delle vittime insieme ai vertici nazionali di PCI, PSI e CGIL. Risarciti i familiari delle vittime.
Il 9 gennaio 1950, a Modena, si tengono proteste contro i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite, come testimoniano le immagini dell'epoca. Si tratta di una vertenza sindacale, una delle tante che hanno segnato la storia del nostro Paese. Quel giorno nella città emiliana i lavoratori del complesso siderurgico (nella foto 1) di proprietà di Adolfo Orsi, titolare anche dell’industria automobilistica Maserati, un fascista che, anche in quel periodo, si distinse per livore antioperaio e per la volontà di non riconoscere i diritti sindacali dei lavoratori e le richieste di miglioramento della loro vita in fabbrica e fuori, dopo il licenziamento di 200 operai su 800 e una serrata padronale di 40 giorni, si avvicinano ai cancelli nell’intento di riprendere il lavoro. Segue immediata una carica della polizia, mentre gli operai vengono mitragliati con fuoco incrociato da altri reparti appostati al di là dei cancelli dello stabilimento. Tuttavia, in questo frangente, il bilancio è tragico: sei scioperanti perdono la vita a causa dei colpi d’arma da fuoco esplosi dalle forze dell'ordine, intervenute per impedire l'occupazione della fabbrica. Le vittime sono Angelo Appiani, un meccanico ed ex partigiano di 30 anni; Renzo Bersani, un operaio metallurgico di 21 anni; Arturo Chiappelli, un spazzino disoccupato di 43 anni; Ennio Garagnani, un carrettiere di Gaggio di 21 anni; Roberto Rovatti, un fonditore di 36 anni; e Arturo Malagoli, un operaio ed ex partigiano di 21 anni.
Sei morti e circa 200 i feriti, ma il numero è incerto perché molti rinunciarono a farsi medicare in ospedale per paura di essere denunciati. La città è in stato di shock, ma nel pomeriggio i sindacati e i partiti di sinistra continuano a tenere il loro comizio. In Piazza Roma, circondata da forze dell’ordine, prendono la parola il senatore socialista Alcide Malagugini, Sergio Rossi della Camera del Lavoro e Attilio Trebbi rappresentante della Fiom.
In tutto il Paese si organizzano proteste e scioperi generali, e anche in Parlamento si solleva una voce di indignazione. Il 31 gennaio, la deputata modenese Gina Borellini - Medaglia d’Oro al Valor Militare, una delle 19 donne italiane decorate con la massima
onorificenza per il loro coraggio durante la Resistenza - manifesta il suo sdegno in modo plateale. Con grande fatica, a causa della sua amputazione (era priva della gamba sinistra amputata a seguito delle ferite riportate in combattimento contro la brigata nera Pappalardo. Ferita, per non intralciare la lotta dei compagni rifiuta i soccorsi e da sola riesce a frenare la copiosa emorragia e, traendo coraggio dal pensiero dei propri figli, si sottrae alle ricerche nemiche raggiungendo l’ospedale di Carpi), si alza dal suo scranno e, accusando «in quel banco siedono degli assassini», si dirige verso i banchi del governo, lanciando le foto degli operai morti in faccia al presidente del consiglio Alcide De Gasperi e al ministro dell’interno Mario Scelba (insieme nella foto 2).
A seguito della riunione straordinaria del suo esecutivo del 10 gennaio, la Cgil diffonde un comunicato di protesta vibrante. La rabbia popolare è in piena esplosione. L’Unità titolerà: «Tutta l’Italia si leva contro il nuovo eccidio! », catturando l'essenza delle tragiche vicende delle ore precedenti. «Il governo affoga nel sangue», commenta l’Avanti!. «Il mitra facile e la poltrona comoda» titola il Giornale della Sera, mentre Sandro Pertini scrive il fondo per l’Avanti! del 10 gennaio: «Ai vivi in nome dei morti. ...Cristo per opera di costoro è oggi nuovamente crocifisso, perché Cristo è nel lavoratore affamato che cade sotto il piombo del governo clericale». Non furono soltanto i giornali della sinistra a condannare, perché quella di Modena fu una visione inquietante. Sul quotidiano La Stampa prendono posizione contro l’eccidio Vittorio Gorresio e Luigi Salvatorelli. «Già sentiamo incalzanti - scrive Gorresio - le interpretazioni che ci parlano di piani di agitazioni nella provincia rossa modenese. Sono frusti argomenti che non esauriscono il problema». Anche altri giornali non si risparmiano nel condannare la situazione.
Il 9 gennaio 1950, a Modena, si tengono proteste contro i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite, come testimoniano le immagini dell'epoca. Si tratta di una vertenza sindacale, una delle tante che hanno segnato la storia del nostro Paese. Quel giorno nella città emiliana i lavoratori del complesso siderurgico (nella foto 1) di proprietà di Adolfo Orsi, titolare anche dell’industria automobilistica Maserati, un fascista che, anche in quel periodo, si distinse per livore antioperaio e per la volontà di non riconoscere i diritti sindacali dei lavoratori e le richieste di miglioramento della loro vita in fabbrica e fuori, dopo il licenziamento di 200 operai su 800 e una serrata padronale di 40 giorni, si avvicinano ai cancelli nell’intento di riprendere il lavoro. Segue immediata una carica della polizia, mentre gli operai vengono mitragliati con fuoco incrociato da altri reparti appostati al di là dei cancelli dello stabilimento. Tuttavia, in questo frangente, il bilancio è tragico: sei scioperanti perdono la vita a causa dei colpi d’arma da fuoco esplosi dalle forze dell'ordine, intervenute per impedire l'occupazione della fabbrica. Le vittime sono Angelo Appiani, un meccanico ed ex partigiano di 30 anni; Renzo Bersani, un operaio metallurgico di 21 anni; Arturo Chiappelli, un spazzino disoccupato di 43 anni; Ennio Garagnani, un carrettiere di Gaggio di 21 anni; Roberto Rovatti, un fonditore di 36 anni; e Arturo Malagoli, un operaio ed ex partigiano di 21 anni.
Sei morti e circa 200 i feriti, ma il numero è incerto perché molti rinunciarono a farsi medicare in ospedale per paura di essere denunciati. La città è in stato di shock, ma nel pomeriggio i sindacati e i partiti di sinistra continuano a tenere il loro comizio. In Piazza Roma, circondata da forze dell’ordine, prendono la parola il senatore socialista Alcide Malagugini, Sergio Rossi della Camera del Lavoro e Attilio Trebbi rappresentante della Fiom.
In tutto il Paese si organizzano proteste e scioperi generali, e anche in Parlamento si solleva una voce di indignazione. Il 31 gennaio, la deputata modenese Gina Borellini - Medaglia d’Oro al Valor Militare, una delle 19 donne italiane decorate con la massima
onorificenza per il loro coraggio durante la Resistenza - manifesta il suo sdegno in modo plateale. Con grande fatica, a causa della sua amputazione (era priva della gamba sinistra amputata a seguito delle ferite riportate in combattimento contro la brigata nera Pappalardo. Ferita, per non intralciare la lotta dei compagni rifiuta i soccorsi e da sola riesce a frenare la copiosa emorragia e, traendo coraggio dal pensiero dei propri figli, si sottrae alle ricerche nemiche raggiungendo l’ospedale di Carpi), si alza dal suo scranno e, accusando «in quel banco siedono degli assassini», si dirige verso i banchi del governo, lanciando le foto degli operai morti in faccia al presidente del consiglio Alcide De Gasperi e al ministro dell’interno Mario Scelba (insieme nella foto 2).
A seguito della riunione straordinaria del suo esecutivo del 10 gennaio, la Cgil diffonde un comunicato di protesta vibrante. La rabbia popolare è in piena esplosione. L’Unità titolerà: «Tutta l’Italia si leva contro il nuovo eccidio! », catturando l'essenza delle tragiche vicende delle ore precedenti. «Il governo affoga nel sangue», commenta l’Avanti!. «Il mitra facile e la poltrona comoda» titola il Giornale della Sera, mentre Sandro Pertini scrive il fondo per l’Avanti! del 10 gennaio: «Ai vivi in nome dei morti. ...Cristo per opera di costoro è oggi nuovamente crocifisso, perché Cristo è nel lavoratore affamato che cade sotto il piombo del governo clericale». Non furono soltanto i giornali della sinistra a condannare, perché quella di Modena fu una visione inquietante. Sul quotidiano La Stampa prendono posizione contro l’eccidio Vittorio Gorresio e Luigi Salvatorelli. «Già sentiamo incalzanti - scrive Gorresio - le interpretazioni che ci parlano di piani di agitazioni nella provincia rossa modenese. Sono frusti argomenti che non esauriscono il problema». Anche altri giornali non si risparmiano nel condannare la situazione.
A Modena, in occasione del funerale che si svolge l'11 gennaio, a cui presero parte più di 300.000 persone (nella foto 3, il corteo funebre per le strade della città), si radunano, insieme a Palmiro Togliatti e Giuseppe Di Vittorio, affiancati da un giovane Luciano Lama, i vertici nazionali del PCI, del PSI e della CGIL. La risposta della popolazione è ferma e la partecipazione è imponente, sebbene composta, guidata rigorosamente dalle organizzazioni politiche e sindacali.
Togliatti mostra un turbamento autentico, inusitato, tanto che molti che gli sono vicini notano la sua commozione (alcuni affermano di averlo visto piangere). Un cronista d’eccezione del L’Unità, Gianni Rodari, racconta: «Le bare - scrive - erano portate a spalla da operai, ferrovieri, tranvieri e braccianti. Su ognuna di esse si leggeva un modesto cartello con il nome e l’età del caduto. Nient’altro. Dai muri della città, le fotografie dei caduti rispondevano a quei cartelli».
Dal palco intervengono il sindaco di Modena, Alfeo Corassori, e il segretario della Camera del lavoro, Arturo Galavotti. Successivamente prendono la parola Giuseppe Di Vittorio, Pietro Nenni e, infine, Palmiro Togliatti (foto 4).
«L’eccidio di Modena pesa» – scrive il segretario della CGIL sulle colonne di Il Lavoro una settimana dopo – «e continuerà a gravare sulla vita italiana per un lungo periodo. Se De Gasperi e Scelba pensano che si tratti di un semplice “incidente”, di un fatto di cronaca destinato a essere presto dimenticato, si sbagliano. Il raccapriccio per questo atrocissimo massacro diventa sempre più intenso e inesorabile se si considera che non è un fatto isolato, accidentale. Negli ultimi due mesi, il numero dei lavoratori uccisi è salito a quattordici! È un triste primato. Non si tratta quindi di un incidente, ma di un sistema, di un metodo, di una politica.»
Un sistema, un metodo, una politica. È una pagina tragica della nostra storia, che però si chiude con una nota di speranza. Togliatti, insieme alla compagna Nilde Iotti, decide infatti di adottare – per motivi di studio – una bambina di sei anni e mezzo, Marisa Malagoli, sorella di Arturo.
«Ricordo che il giorno dell’omicidio tornavo a casa a piedi da scuola con mia sorella Renata» – racconta – «Era una giornata bella, ma fredda. Da lontano cominciammo a intuire che era successo qualcosa: c’era la polizia, e avvicinandoci alla nostra casa sentivamo le urla e il pianto di mia madre. Il giorno dopo, c'era una nebbia terribile. Fummo tutti portati in auto (e già questo era un evento, all’epoca le macchine erano una rarità) all'obitorio dell'ospedale di Modena. La scena mi è rimasta impressa: il corpo di mio fratello, il sangue ovunque, per terra e sul lenzuolo, insieme agli altri morti.»
Il processo, avviato solo contro alcuni operai che avevano preso parte alla manifestazione, dimostrerà in modo chiaro e inconfutabile l'uso affrettato delle armi da fuoco da parte della polizia, evidenziando l'assenza di giustificazioni per un intervento armato e le gravi responsabilità del prefetto e di altri funzionari di polizia. Un fatto senza precedenti in Italia vedrà la magistratura ordinare un risarcimento alle famiglie delle vittime.
«Io non c’ero - scriveva qualche tempo fa Arturo Ghinelli - semplicemente perché ero ancora nel grembo di mia madre. Sono nato sei mesi dopo, l'undici luglio. Tuttavia, ciò che accadde quella mattina di gennaio ha avuto un impatto notevole sulla mia vita. Il mio stesso nome deriva da quell’evento. Mi chiamo Arturo perché uno dei sei operai uccisi dalla polizia davanti alle Fonderie era mio zio, Arturo Malagoli, fratello di mia madre. Arturo aveva solo 21 anni, mentre mia madre ne aveva 23. Per molti anni, io sono stato identificato come “il figlio della Malagoli”. E non è finita qui. In seguito a questa tragedia familiare, Togliatti e la Iotti decisero di adottare mia zia Marisa. Così, fino a quando abitammo nella vecchia casa popolare di via Como, sul mio comodino non c’era la Madonna, ma un ritratto di mio zio, a cui aggiunsi la foto di Togliatti quando morì nel ’64. Riflettendo, credo di aver compreso perché mi sia sempre piaciuto studiare e insegnare storia. Tuttavia, non ho mai avuto il coraggio di raccontare ai miei studenti gli eventi del 9 gennaio 1950, poiché mi sento troppo coinvolto emotivamente. Una volta ho accennato: “Un mio zio è stato ucciso dalla polizia”. “Perché era un ladro? ”, mi hanno chiesto. No, mio zio non era un ladro. Era un lavoratore che lottava per il diritto al lavoro di tutti, come afferma l’articolo 1 della nostra Costituzione». Legge fondamentale di matrice repubblicana, democratica e antifascista, figlia della Resistenza e della Liberazione.
All’indomani dell’accaduto, la Prefettura di Modena emise un comunicato disgustoso in cui si attribuiva la responsabilità dei fatti ad azioni armate e aggressioni dei lavoratori alla polizia che sarebbe stata costretta a difendersi. Una versione che non poté reggere all’evidenza che, in realtà, si era trattato di un attacco premeditato e preparato dall’alto.
Al processo per i fatti di Modena fu infatti dimostrato che non c’era stata alcuna azione violenta da parte dei lavoratori, ma che polizia e carabinieri avevano usato la forza per loro propria esclusiva decisione e fu anche disposto un risarcimento dello Stato alle famiglie delle vittime.
Tuttavia, il tributo di sangue pagato dalla classe operaia fu enorme e l’aggressività padronale, fatta di intimidazioni ai sindacati, licenziamenti e repressione riprese, in Emilia e in Italia, già poche settimane dopo la strage di Modena.
Per cogliere meglio il significato della strage di Modena dobbiamo riferisci allo scenario politico in cui essa maturò: un triste periodo nella storia del Movimento operaio del nostro Paese.
Il 1° maggio 1947 dalle montagne circostanti il pianoro tra Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in località Portella della Ginestra (PA), alle 10:15 si comincia a sparare sui circa 2000 lavoratori e contadini, tra loro donne, bambini e anziani, lì riuniti per celebrare la Festa dei Lavoratori (prima festa dei lavoratori dell'Italia repubblicana - sotto il fascismo la festa era stata accorpata al Natale di Roma e veniva festeggiata il 21 aprile -), come si faceva in quel luogo dal 1892. Ma altre due ragioni erano a fondamento del raduno dei lavoratori agricoli: la volontà di manifestare contro il latifondismo e a favore dell'occupazione delle terre e il desiderio di festeggiare la vittoria delle sinistre raccolte nel Blocco del Popolo (unione elettorale di PCI e PSI) alle prime elezioni regionali del 20 aprile (quel giorno il Fronte Popolare, associazione della sinistra, conquistò in Sicilia 29 seggi su 90, con circa il 32% delle preferenze). Secondo le fonti ufficiali il fuoco delle armi automatiche causò 11 morti, 7 adulti e 4 bambini, e 27 feriti. In realtà i morti furono di più (6 persone, di cui 2 bambini, morirono successivamente in ospedale per le ferite riportate) e il numero dei feriti varia da 33 a 65. L’allora ministro degli interni, Mario Scelba, chiamato a rispondere su quanto accaduto a Portella della Ginestra, negò ogni movente politico.
Nel 1948 la Polizia uccide 33 lavoratori: 5 a Cerignola (BA), 3 a Pantelleria (TP), 1 ad Andria (BA), 1 a Trecenta (RO), 1 a Spino d’Adda (CR), 1 a San Martino in Rio (RE), 2 a Roma, 2 a Napoli, 1 a Taranto, 1 a Livorno, 3 a Genova, 1 a Bologna, 1 a Porto Marghera (VE), 3 a Gravina di Puglia (BA), 1 a Siena, 3 a Tricarico (MT), 1 a Dairago (MI), 1 a Pistoia, 1 a Bondeno (FE), e ne arresta quasi 15.000.
Inoltre, nel 1949, nei mesi precedenti i fatti di Modena, ci furono altri tre eccidi a: Melissa (KR), Montescaglioso (MT) e Torremaggiore (FG), in cui morirono in tutto 6 persone, braccianti e contadini impegnati nelle lotte per la riforma agraria.
In tutte queste occasioni, la polizia, dotata dal ministro Scelba anche di armi pesanti, mitragliatrice e mortaio, non esitò a sparare su dimostranti o lavoratori pacifici e inermi.
Fonte: di Sergio Castelli