"IL POPULISMO" di Paolo Bagnoli
29-05-2019 - EDITORIALE
Può sembrare un paradosso, ma il populismo, a ben vedere, è una sconfitta della democrazia a opera del popolo. Infatti, quale soggetto rappresentante una volontà unica e univoca, il popolo non esiste poiché in esso vi sono tanti diversi interessi specifici, corpi intermedi, realtà sociali di vario tipo. Ritenere che il rapporto diretto tra il capo e la massa possa governare la democrazia e, addirittura, allargarne gli ambiti costituisce un'ideologia pericolosa poiché così si va solo verso assetti totalitari. Nelle democrazie il leader è colui che ha la responsabilità di guidare un gruppo dirigente per volontà di una base sociale che conferisce il consenso per rappresentarla. I populisti si motivano quale voce dei cittadini esclusi dai processi decisionali, dalle scelte che li riguardano – il caso della campagna contro l'Europa in quanto entità che esercita forti poteri amministrativi, non eletti, ne ha fatto il bersaglio preferito – si propongono come coloro che, rivendicandone la voce, li consegnano a un capo, novello demiurgo liberatore e risolutore di ogni problema.
L'Italia vive una fase acuta di populismo , ma il suo apparire sulla scena data oramai un quarto di secolo; da quando Silvio Berlusconi scese in campo. Insediatosi a capo del governo sulle macerie fumanti dei partiti della prima repubblica. Berlusconi inaugurò una deriva politica caratterizzata da un'accentuata mancanza di senso dello Stato e della ricerca di quanto viene definito come “bene comune”, avendo creato Forza Italia non per fare politica democratica, bensì per difendere i propri interessi aziendali. Con ciò Berlusconi inaugurò anche un modello culturale secondo il quale il presidente del consiglio che usciva vincitore dalle urne era l'unico legittimato a rappresentare il Paese tutto e, per tale motivo, affrancato dalla prassi propria della democrazia rappresentativa sulla base di un rapporto privilegiato ed esclusivo con il popolo. Essendo egli quello legittimato dal popolo, agli avversari non veniva riconosciuta legittimità alcuna se non quella dei nemici sconfitti e, quindi, delegittimati perché non voluti dal popolo. Tale processualità sposta la fisiologia propria della politica democratica dalle sedi istituzionali alla capacità del leader di conquistare il governo mettendo in equazione la categoria della politica con quella del governo. La lotta politica viene ridotta a mero governismo, occupazione del potere per il potere; il sottogoverno segue quale benefit della vittoria. Ora, poiché formalmente i meccanismi tradizionali del processo democratico nelle realtà populiste non vengono intaccati, ne consegue che solo la maggioranza parlamentare possa affermare di essere tutto il popolo con il quale, necessariamente, si identifica. E' in questo meccanismo che affondano le definizioni del governo gialloverde quale “governo del popolo”; della manovra economica quale “manovra del popolo”; addirittura della figura del presidente del consiglio quale “avvocato degli italiani”. Il fenomeno non è solo italiano. Negli Stati Uniti, Donald Trump parla sempre a nome del popolo nonostante abbia ricevuto ben tre milioni di voti popolari in meno della sua contendente democratica. Lo specifico italiano consiste nel fatto che vi possa essere un governo senza un'alleanza politica che lo presupponga. Basta stipulare un “contratto”; ossia, un elenco di proposte e di interessi particolari da rispettare, messi lì senza nessun amalgama politico, senza che vi sia la convergenza su un'idea comune di Paese che dovrebbe costituirne la sintesi.
Per il governismo populista esercitare il governo significa possedere il bastone del comando. E' naturale, quindi, che non vi sia rispetto per le minoranze né per le istituzioni poiché, quale soggetto vincitore, esso si sente legittimato ad atteggiamenti chiaramente illegali, a non curarsi dello “stato di diritto” – che è quello stato governato dalle leggi e non dagli uomini – a un sempre costante venir meno di quanto richiede la coesione sociale che costituisce il dato portante di ogni assetto democratico. Si tratta di una politica malata poiché quella sana implica un progetto culturale, sociale e istituzionale: una vera e propria antitesi alla demagogia che del populismo costituisce la linfa vitale. Esso, infatti, ha sempre bisogno di un nemico contro cui scagliarsi per conquistarsi un pubblico. Le posizioni razziste della Lega le hanno giovato per aver additato nei migranti il nemico alla stregua di un pericolo mortale per le esigenze del popolo; un qualcosa di orecchiante della teoria leninista del “nemico principale”. Quando la pericolosità dovuta all'invasione dall'Africa si è attenuata, si è andati alla ricerca di nuovi nemici, individuati nuovi bersagli per tenere la scena in sintonia con il popolo bisognoso di protezione e, quindi, farlo sentire al sicuro. Il Movimento 5Stelle, poi, sulla teoria di nemici praticamente totali, ha costruito la sua fortuna. E così via in un continuo agire da imprenditori della paura e speculatori della sofferenza sociale, senza con ciò negare che non vi siano né paure né sofferenze sociali. Naturalmente si è giocato sulla rabbia; basti pensare a quanto si è inveito contro la “casta” la quale, oramai, è stata quasi tutta sostituita, ovunque è stato possibile, dalla Rai in giù. La guerra alla “casta” ha forse rappresentato la più formidabile forza di sfondamento che ha permesso alla Lega e ai 5Stelle di mietere consensi. Quali risultati abbia portato la guerra alla”casta”, tuttavia, non interessa a nessuno; l'importante era affermare che “con noi si cambia” –già, il “governo del cambiamento” – e occupare tutto il possibile, talora violando le norme come nel caso della Rai. In fatto di professionalità l'unica cosa nella quale i populisti sono veramente di alto livello è la pratica del populismo medesimo. Ancora. L'Italia, è l'unico Paese europeo guidato da due forze populiste assistendo allo spettacolo dell'uno che raffigura il nemico nell'altro; insomma, siamo alla sublimazione del fenomeno!
Tale situazione ha un effetto decoattivo profondo inducendo una mentalità diffusa lontana da ogni pratica di costume civile e di senso morale che produce un sempre più progressivo allontanamento dei cittadini dalla politica e dalle istituzioni. Insomma, è il popolo che sconfigge la democrazia. Un altro fattore comune che si accompagna al populismo che ha preso la scena dopo la fine dei partiti politici intesi quali soggetti insostituibili del sistema democratico – al proposito va osservato come in Italia il termine partito non si usi nemmeno più; solo una forza lo adopra, il partito democratico che, ironia della sorte, è impossibilitato a essere tale fin dalla nascita - è l'imbarbarimento culturale, cui si accompagna molto spesso un'inaudibile volgarità di linguaggio; un imbarbarimento che da Berlusconi arriva sino a Matteo Salvini e a Luigi Di Maio; un'ondata tanto forte che dilaga nella società italiana favorita anche da quanto l'uso dei social permette in un bombardamento mediatico continuo.
Per quanto concerne l'Italia la stagione populista di oggi non è solo il dato nazionale di un più generale fenomeno europeo; è anche il frutto dei fallimenti della seconda Repubblica di cui sono responsabili tutte le forze avvicendatesi in questo mezzo secolo alla guida del Paese. Ogni schieramento arrivato al governo si è mai posto la questione di fondo: ricostruire la democrazia italiana. A pensarci bene il periodo renziano ha impresso alla deriva populista una spinta vigorosa che ha fatto praticamente da apripista alla clamorosa affermazione dei grillini. Soggetto basantesi sul “popolo delle primarie” il partito democratico ha ufficializzato la deresponsabilizzazione della politica e del “mandato” che appartiene ai partiti quali soggetti della democrazia, scegliendo il proprio segretario oltre il corpo degli iscritti. I partecipanti alle primarie, infatti, sono coloro i quali hanno voglia di parteciparvi. In tal modo il segretario non risponde a nessuno e il partito che guida è solo uno strumento dei suoi voleri e anche, come nel caso di Matteo Renzi, delle sue allucinazioni, di rappresentare il “partito della nazione” a vocazione maggioritaria; una qualcosa di simile la ritroviamo oggi nell'altro Matteo alla testa della Lega, non a caso compiaciuto di essere chiamato “il capitano”.
Da qualunque lato si voglia affrontare la realtà del populismo si arriva sempre al medesimo punto: alla crisi dei partiti. La loro frantumazione pone alla ribalta la questione di coloro che sono i rappresentanti della volontà popolare nonché in quale maniera si possa intervenire per arginare la caduta verso il basso delle modalità selezionatrici della classe politica. Il populismo, in definitiva, pone la questione del popolo che non c'è sulla ribalta della politica sempre più occupata da un numero sempre più contenuto di persone. E' stato, giustamente, fatto notare come il Movimento 5Stelle,che ha raccolto circa dieci milioni di voti, non abbia più di 112mila iscritti e solo la metà di questi risulta attiva nelle consultazioni interne. Come si può ritenere ancora che la democrazia sia un sistema presupposto da una competizione nella quale ci si contende il voto popolare? Non è perciò un caso che si cominci a teorizzare la “democrazia illiberale”; un'idea che non sarà sconfitta dalla mera indignazione, ma solo da un vasto consapevole movimento, questo sì di popolo, ma cosciente di essere attore protagonista della vita pubblica.