"UNA SCELTA DI UMANITA'"
26-09-2019 - AGORA'
Il 25 settembre scorso, la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito ad un vuoto legislativo a riguardo dell'aiuto a quello che viene definito suicidio assistito, ed ha sentenziato che è «non punibile», a «determinate condizioni», chi «agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Ciò che ha prodotto questa presa decisionale da parte della Corte Costituzionale viene a seguito delle questioni sollevate da parte della Corte d'Assise di Milano sull'articolo 580 del Codice Penale riguardante la punibilità dell'aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita. La richiesta era susseguente al procedimento penale che ha interessato il tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, per aver consapevolmente accompagnato Fabiano Antoniani/DJ Fabo, cieco, tetraplegico, perennemente assistito dai familiari nelle comuni necessità vitali, a morire per suicidio assistito in una clinica svizzera: una causa per la quale si poteva richiedere fino a 12 anni di reclusione.
In Italia esiste una legge, la 219 del 22 dicembre 2017 in vigore dal 31 gennaio 2018, che permette la "dichiarazione anticipata di trattamento" (DAT), il cosiddetto testamento biologico, che consente di fatto di decidere i trattamenti sanitari ai quali si accetta di essere o non essere sottoposti e che prevede il poter rifiutare nutrizione e idratazione artificiale, di ricevere la sedazione profonda continuata e di rifiutare l'accanimento delle cure. L'eutanasia attiva e il suicidio assistito, così come l'aiuto al suicidio, sono vietati. O almeno lo erano fino al 25 settembre scorso.
La sentenza non è quindi di poco conto, così come potrebbe sembrare, ma ha un grande valore non solo etico ma anche politico e morale, aprendo di fatto una sorta di riconoscimento alla possibilità di un fine vita dignitoso per chi decide volontariamente e consapevolmente di portare a termine le sue sofferenze. La decisione della Corte ha messo quindi sotto un enorme riflettore mediatico la lentezza e la reticenza della politica parlamentare in merito al fine vita – una costante a dirla tutta anche su altri grandi temi –, un argomento di cui si parlava poco fino a questo processo, e solo episodicamente, quando si presentavano casi dolorosi come quello di DJ Fabo, ma anche di Eluana Englaro o di Piergiorgio Welby, solo per citarne alcuni.
Già il 23 ottobre 2018 la Corte Costituzionale era stata chiamata a esprimersi sullo stesso caso, ma aveva procrastinato, dichiarando che anche se «l'attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti» al fine di «consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un'appropriata disciplina», rinviava la trattazione della questione di costituzionalità dell'articolo 580 Codice Penale all'udienza del 25 settembre scorso, dopo undici mesi dalla prima ordinanza. Nel comunicato stampa dichiarava inoltre di non poter porre rimedio a questo vulnus con una semplice cancellazione del reato di aiuto al suicidio di chi si trova in una situazione del genere: «una simile soluzione lascerebbe, infatti, del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi». Una trattazione della materia che implica una serie di scelte discrezionali e quindi l'intervento del legislatore.
Ad oggi, con la sentenza del 25 settembre 2019 si riconosce l'incapacità - inaccettabile - che il parlamento ha avuto in questi anni nel prendere posizione in merito, mostrando prepotentemente un vuoto legislativo colmato “a toppa” da una sentenza di magistratura.
Per adesso resteranno le polemiche, ipocrite o reali che siano, così come ci saranno sicuramente momenti di spontanea riflessione, al di là di un pensiero umano e del doveroso rispetto per una scelta personale e intima. Ma ciò che non potrà più mancare sarà una risposta istituzionale, anche per non far passare il messaggio che solo con la disobbedienza civile si possano risolvere i problemi legati ad una assenza normativa del fine vita.
Qualcuno ha detto che è un grande riconoscimento di libertà. Altri che deve servire da insegnamento per una politica sempre meno capace di discutere sui grandi temi. A mio avviso è semplicemente un dovere morale quello di veder riconoscere la volontà di scelta sul proprio fine vita, al di là di qualsiasi appartenenza.
Fonte: di PATRIZIA VIVIANI