“Il socialismo è ma potrebbe anche non essere” Una nota a margine di due recenti volumi di Paolo Bagnoli.di Vincenzo Orsomarso
di Vincenzo Orsomarso
22-10-2024 - AGORA'
La “libertà - scrive Paolo Bagnoli in La rivoluzione della Libertà. Gobettismo, giellismo, azionismo: il filo storico della “rivoluzione democratica” - costituisce la base e la ragione di un vero processo rivoluzionario per costruire una democrazia solida nei propri valori e nelle proprie istituzioni, nonché nelle finalità sociali”. Ed è tale concetto alla base del lavoro sopra citato che da Gobetti porta al giellismo, a Carlo Rosselli, la cui riflessione approda ad un nuovo socialismo “che una componente importante dell'azionismo sosterrà quale sbocco naturale della ‘rivoluzione democratica' ”.
La ricostruzione contenuta nel testo prende le mosse, come dicevo, da Piero Gobetti, che immerso nella crisi del proprio tempo si impegna a coglierne le ragioni più profonde e diffonderle per contribuire a “suscitare nuove idee”, in opposizione alla politica ridotta a gioco di potere a mera amministrazione dell'esistente. Un intento educativo di carattere politico e morale interessato alla formazione di una nuova classe dirigente, non più ammaliata dalla retorica, dalla pomposità, non più affetta da provincialismo [1].
Il tema fu oggetto di particolare attenzione anche da parte di Gramsci prima e durante la detenzione. Per il comunista sardo il processo di formazione di nuovi intellettuali organici ad un gruppo sociale che aspira alla direzione politica e culturale, la classe operaia nello specifico caso, è di lunga durata e l'esito dipende dalla “dialettica intellettuali - massa”. Ogni “balzo verso una nuova ‘ampiezza' e complessità dello strato degli intellettuali è legato a un movimento analogo della massa dei semplici, che si innalza verso livelli superiori di cultura” [2]. Pertanto si tratta di “lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, per dare personalità all'amorfo elemento di massa” [3], a tale proposito andava ripensata l'organizzazione scolastica e i principi educativi fondanti.
Non diversamente da Gramsci anche per Gobetti la formazione di una nuova classe dirigente richiedeva un'educazione politica da realizzare in tempi non brevi, il che rende evidente la “consapevolezza” che Gobetti aveva della profondità della crisi italiana [4]. Inoltre la nuova classe dirigente doveva produrre ed essere il prodotto di esperienze di autonomia e autogoverno, fattori di configurazione di uno Stato che, nella visione teorico-politica di Gobetti, non doveva rispondere ad un modello definito ideologicamente, ma andava realizzato, nel quadro di solidi principi generali posti a presidio del confronto democratico, dalla dialettica politica e sociale [5].
Alla crisi dell'Italia liberale si accompagnava la crisi del socialismo e in proposito, ricorda Bagnoli, Carlo Rosselli nel 1926 su “Quarto Stato” richiamava la necessità, per il movimento socialista italiano, di un “ ‘coraggioso esame di coscienza' ”, di addivenire “ ‘alla più spietata delle autocritiche' ” per comprendere le ragioni della sconfitta.
Già nel 1923 Carlo Rosselli scriveva che mentre il partito cresceva quantitativamente “ ‘il livello culturale e il fervore di vita intellettuale veniva meno con un ritmo ‘impressionante' ”.
Marxismo deterministico e riformismo di scarso spessore rendevano il socialismo italiano incapace di misurarsi con i grandi problemi nazionali, in primo luogo con la questione meridionale.
Un giudizio che riguardava anche i comunisti che, allora guidati da Amadeo Bordiga, Rosselli considerava “affetti da ‘infantile mimetismo' nei confronti della rivoluzione bolscevica, rispondente alle condizioni ambientali della Russia, ma non a quelle dell'Italia' ” [6]. Inoltre il comunismo bordighista è segnato in profondità da un determinismo economicistico che individua nella crisi economica il fattore determinante un automatico spostamento delle masse proletarie verso posizioni rivoluzionarie e quindi verso il partito comunista. A quest'ultimo veniva attribuito il compito di prevedere lo svolgimento storico e guidare la rottura rivoluzionaria. Il partito si colloca così in una posizione di attesa per assumere la direzione di un movimento di contestazione dell'ordine costituito destinato a realizzarsi indipendentemente dal suo operato [7].
Una posizione, quella sopra sintetizzata, che non faceva che confermare ciò che Rosselli considerava il limite essenziale del marxismo, quel concetto di “necessità storica” che faceva del socialismo il risultato di un “processo obiettivo e fatale di trasformazione di cose”. Uno schema ampiamente accolto dal gretto economicismo della Terza Internazionalista, che a partire dal X Plenum del luglio 1929 faceva propria la politica staliniana del “terzo periodo”, basata sulla convinzione dell'irreversibile crollo del capitalismo, sulla conseguente crisi politica e sull'inevitabile sbocco rivoluzionario. Affermazioni che Gramsci confutava, rifiutando di ricondurre “la rottura dell'equilibrio delle forze” a “cause meccaniche”, alla crisi e all' “immiserimento del gruppo sociale” che “ha l'interesse a rompere l'equilibrio”. Se non c'è passaggio dall'economia alla politica, se non si stabilisce una dialettica quantità-qualità, “un processo che ha per attori gli uomini” […], la situazione rimane inoperosa e possono darsi conclusioni contraddittorie”, tra queste la resistenza e una reazione violenta “della vecchia società” [8].
Ed è proprio il giovane Gramsci e l'esperienza consiliare e ordinovista ad aver avuto una qualche influenza su Rosselli se nella formulazione della rivoluzione antifascista e socialista viene assunta la rivendicazione dei consigli di fabbrica e del controllo operaio sulla produzione.
La “ ‘ rivoluzione antifascista' ” non poteva essere “un semplice mutamento di forme politiche superficiali né un ritorno al passato, ma una profonda trasformazione economica - politica' ”, tesa al pieno compimento della democrazia [9].
Una prospettiva che oggi può contribuire - come suggerisce Bagnoli - ad una ricostruzione della sinistra in una fase in cui la libertà dei soggetti e l'insieme delle relazioni sociali tendono ad essere ridefinite in funzione del mercato, con la conseguente riduzione dell'operare dell'individuo ai principi del calcolo economico.
La ricerca di un nuovo sistema di rapporti sociali e politici potrebbe trovare materiale di riflessione nel concetto, “evocato negli scritti di Rosselli”, di libertà “come autonomia sia nel significato (liberale) di diritto all'autonomia intellettuale da parte dei singoli individui sia nel senso (democratico - repubblicano e socialista) di partecipazione attiva alla politica e di autogestione dei processi lavorativi” [10].
Sperimentando momenti e spazi di autodeterminazione collettiva il socialismo può diventare “ ‘risultato di persuasione attraverso una lunga catena di esperienze positive […] e la riforma dei rapporti sociali in base a un principio di giustizia che si armonizzi col rispetto della libertà degli individui e dei gruppi' ” [11].
L'assunzione di tali indicazioni deve tener conto, come precisavamo sopra, del prevalere delle logiche aziendalistiche, dell'affermazione dell'impresa come paradigma che deve essere imitato, ricopiato, introiettato, che richiede l'assunzione a sé dell'intera società e dell'insieme dei sottosistemi che la compongono. Tutto deve rispondere in primo luogo al rapporto ottimale tra investimenti e profitti, tra costi e benefici; ciò che non risponde a tale imperativo è spreco, prodotto sociale superfluo. È “coscienza e conoscenza eccedente al puro bisogno aziendale”, quest'ultimo si precisa nella richiesta al produttore di una “mobilitazione totale” delle sue capacità e disposizioni affettive, facendo venire meno la frontiera tra lavoro e non lavoro, a cui si accompagna la frammentazione dei produttori in una moltitudine connessa dalla comunicazione aziendale [12].
L'asservimento di sé al processo di valorizzazione si realizza attraverso una colonizzazione dell'immaginario collettivo e soprattutto del linguaggio dal cui dominio e controllo dipende la possibilità di pensare ed esprimere una diversa dimensione esistenziale.
Dalla riduzione di tutta l'attività umana - capacità cognitive, estetiche, relazionali, corporali ecc. - ad attività strumentali di produzione ne consegue la selezione e valorizzazione di quelle conoscenze e relazioni la cui potenzialità strumentale è manifesta. Quindi l'impoverimento culturale della società, il venire meno delle capacità di cooperare e di stabilire rapporti di natura non mercantile.
Ed è proprio la dissoluzione del legame sociale tra i presupposti del populismo, da considerare, pertanto, strettamente connesso al neoliberismo, ai mutamenti strutturali che a partire dalla mondializzazione dei rapporti di produzione capitalistici giungono alla crescente frammentazione e precarizzazione del lavoro, al tramonto del Welfare state.
Venuta meno la classe operaia come soggetto politico (in conseguenza della riorganizzazione a livello globale dell'economia capitalistica che ha mutato il paesaggio produttivo dei paesi un tempo culla dell'industria manifatturiera) i partiti che dal movimento dei lavoratori avevano tratto forza, rinunciarono ad occuparsi delle condizioni del mondo del lavoro e delle nuove aree di sfruttamento, esito della nuova fase capitalistica. Quindi a ricercare strumenti inediti e motivazioni diverse da quelle che avevano sostenuto in precedenza la lotta delle classi subalterne. La questione di fondo divenne il governo del “nuovo”, in realtà di un capitalismo ordoliberale, finanziario e predatorio; a poco è servito tentare di temperarlo, ai poveri già esistenti ne aggiunge di nuovi proletarizzando quote crescenti di ceto medio.
Nel vuoto prodotto dall'estinzione della sinistra la contestazione popolare è stata ed è orientata non verso obiettivi economici e finanziari ma verso i soggetti più deboli e marginali, verso le istituzioni democratiche, verso i corpi intermedi e le forze sociali. Sono i motivi propri del populismo, che ben lungi dal farsi promotore della partecipazione popolare “è - scrive Bagnoli in Il lungo filo nero del populismo - politica senza gente”, che si traduce nell' “affermazione di un ceto politico che si richiama ad “un concetto astratto di popolo”. Quest'ultimo chiamato ad esprimersi solo alle scadenze elettorali, quando invece la democrazia implica il concorso delle persone “al farsi della politica giorno dopo giorno” [13]. Quindi la presenza di forze politiche che per essere partito necessitano di “un'ideologia” di “una cultura politica”, di “un ruolo sociale basato su un blocco di riferimento nonché di un preciso profilo organizzativo”.
I “partiti erano vere e proprie scuole di educazione civile, nonché, naturalmente, di partecipazione politica. Erano il tramite per il quale la gente stava nella politica” [14], ed è ciò - sottolinea Bagnoli - che oggi manca. La convergenza tra cattolici democratici e DS, in precedenza PDS, ha avuto il solo scopo di puntare sulla presa del governo e salvaguardare i rispettivi ceti politici [15].
Quando ciò che andava e va salvaguardato è la democrazia, oggi sempre più indebolita dalla propensione al totalitarismo insito in un capitalismo che, parafrasando il Marx dei Grundrisse, ha necessità di subordinare a sé “lo sviluppo dell'individuo sociale” nella sua totalità, di ridurre a valore di scambio ogni processo di produzione culturale e di senso.
Le sorti della democrazia sembrano dipendere sempre più dall'inversione del rapporto tra uomo e produzione, è quest'ultima che va subordinata alla produzione di sé, allo “sviluppo di una individualità ricca e dotata di aspirazioni universali nella produzione non meno che nel consumo” [16]. È un'indicazione per la trasformazione sociale, ripresa dai Grundrisse più di vent'anni fa da Andrè Gorz, con cui esplicitava il senso di una “società diversamente ricca”, che era ed è nell'ordine delle possibilità ma non certo una “necessità”.
Si tratta di muovere i primi passi garantendo le persone dalla precarietà, realizzando le condizioni per lo sviluppo di una rete di attività indipendenti sottratte al mero calcolo economico e poste in relazione alla loro redditività sociale e culturale. In questa prospettiva Gorz sollecitava la rivendicazione di un “reddito di esistenza”, vincolato all'opera di ricostruzione di un tessuto di relazioni sociali, alla salvaguardia dei beni ambientali e culturali, alla formazione e autoformazione finalizzata alla cura di sé, all'arricchimento della personalità. Ciò potrebbe rappresentare la base per una diversa divisione e distribuzione del lavoro, ricorrendo ad un uso dell'incremento della produttività a vantaggio della riduzione del tempo di lavoro, ossia in favore “del tempo per il pieno sviluppo dell'individuo, sviluppo che a sua volta reagisce - scriveva Marx nei Grundrisse -, come massima forza produttiva, sulla forza produttiva del lavoro” [17].
Ma nell'attuale stato di cose, in presenza, come dicevamo, di una crescente dissoluzione di ogni legame sociale, della frammentazione e dispersione degli individui, la questione che si pone è quella di promuovere la ricostruzione di spazi di confronto collettivo, di autoeducazione e autodeterminazione, di “autonomia” . Per riconquistare, nel rapporto con gli altri, un controllo, anche parziale, sul proprio lavoro, sul proprio tempo, sulla propria vita complessiva.
È la questione del socialismo, che per Bagnoli “non può che essere un socialismo liberale” ma con una “configurazione ideologica diversa sia dal laburismo […] sia da quanto si è venuto condensando nell'idea di socialdemocrazia”. Il cui obiettivo, senza negare - precisa lo storico socialista - i meriti storici di quest'ultima, non era “il superamento del sistema, bensì la sua correzione”. “Ciò non esprime poco ma non risolve la grande questione di fondo” [18], quella di ricostruire la capacità dell'uomo “di essere autonomo, libero di associarsi per combattere non solo per le fondamentali esigenze pratiche, ma anche spirituali: in altri termini, avere livelli che progressivamente si succedono affermandosi e strutturalmente rappresentanti la dimensione concreta della libertà” [19]. Un processo politico che richiama quell'opera di “autoalimentazione” del movimento di trasformazione della società che, per Riccardo Lombardi, era il prodotto della dialettica tra azione di massa e azione politico-istituzionale, tale da consentire la costituzione di “poteri parziali nella società” in grado di”creare nuovi problemi che esigono nuove riforme e nuovi passi in avanti [20].
Per invertire il processo in corso bisognerebbe chiedersi se non sia il caso di riconsiderare, misurando le dovute distanze, le intuizioni dei movimenti sociali e dei lavoratori degli anni Settanta, le diverse forme di democrazia dal basso: dal controllo operaio, articolato ai diversi livelli della sfera economico-industriale, ai consigli di quartieri, alla sperimentazione di forme di democratizzazione delle strutture sanitarie, assistenziali e scolastiche. Temi oggetto di un dibattito politico che ha visto tra i protagonisti principali dirigenti socialisti di provenienza azionista come Riccardo Lombardi e Tristano Codignola.
Un'ipotesi di governo che risulta distante dal modello tradizionale delle sinistre socialdemocratiche, incentrato su una visione forte del legame partito e Stato (quest'ultimo assunto a soggetto neutro di cambiamento), su un'idea di politica come questione tecnica da trattare solo con saperi esperti, negando valore ai saperi contestuali e alla creatività sociale. Una posizione che ha condotto la sinistra, non solo socialdemocratica ma anche postcomunista, a fare propria la logica dell'efficienza dell'impresa e del mercato da estendere ai servizi pubblici essenziali alla riproduzione della vita.
Ciò rende evidente che la riforma più urgente, ma anche particolarmente difficile da realizzare, è quella dei soggetti collettivi, che può forse concretizzarsi nella misura in cui si stabilisce una rete di relazioni tra gruppi politici, sindacati e realtà associative di base, portatrici di nuove pratiche politiche. È in un simile sistema di relazioni e di reciprocità tra soggetti politici e sociali che è possibile pensare alla formazione di un nuovo ceto dirigente e di un'organizzazione ben diversa da quella che ha caratterizzato gran parte della storia del movimento operaio del secolo scorso; che dal centralismo prima socialdemocratico e dopo dall'ultracentralismo bolscevico è approdata all'autonomia della politica, al partito come entità autoreferenziale e ad un progressivo disinteresse della cultura di sinistra nei confronti della morfologia del conflitto sociale e delle sue evoluzioni.
La ricostruzione contenuta nel testo prende le mosse, come dicevo, da Piero Gobetti, che immerso nella crisi del proprio tempo si impegna a coglierne le ragioni più profonde e diffonderle per contribuire a “suscitare nuove idee”, in opposizione alla politica ridotta a gioco di potere a mera amministrazione dell'esistente. Un intento educativo di carattere politico e morale interessato alla formazione di una nuova classe dirigente, non più ammaliata dalla retorica, dalla pomposità, non più affetta da provincialismo [1].
Il tema fu oggetto di particolare attenzione anche da parte di Gramsci prima e durante la detenzione. Per il comunista sardo il processo di formazione di nuovi intellettuali organici ad un gruppo sociale che aspira alla direzione politica e culturale, la classe operaia nello specifico caso, è di lunga durata e l'esito dipende dalla “dialettica intellettuali - massa”. Ogni “balzo verso una nuova ‘ampiezza' e complessità dello strato degli intellettuali è legato a un movimento analogo della massa dei semplici, che si innalza verso livelli superiori di cultura” [2]. Pertanto si tratta di “lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, per dare personalità all'amorfo elemento di massa” [3], a tale proposito andava ripensata l'organizzazione scolastica e i principi educativi fondanti.
Non diversamente da Gramsci anche per Gobetti la formazione di una nuova classe dirigente richiedeva un'educazione politica da realizzare in tempi non brevi, il che rende evidente la “consapevolezza” che Gobetti aveva della profondità della crisi italiana [4]. Inoltre la nuova classe dirigente doveva produrre ed essere il prodotto di esperienze di autonomia e autogoverno, fattori di configurazione di uno Stato che, nella visione teorico-politica di Gobetti, non doveva rispondere ad un modello definito ideologicamente, ma andava realizzato, nel quadro di solidi principi generali posti a presidio del confronto democratico, dalla dialettica politica e sociale [5].
Alla crisi dell'Italia liberale si accompagnava la crisi del socialismo e in proposito, ricorda Bagnoli, Carlo Rosselli nel 1926 su “Quarto Stato” richiamava la necessità, per il movimento socialista italiano, di un “ ‘coraggioso esame di coscienza' ”, di addivenire “ ‘alla più spietata delle autocritiche' ” per comprendere le ragioni della sconfitta.
Già nel 1923 Carlo Rosselli scriveva che mentre il partito cresceva quantitativamente “ ‘il livello culturale e il fervore di vita intellettuale veniva meno con un ritmo ‘impressionante' ”.
Marxismo deterministico e riformismo di scarso spessore rendevano il socialismo italiano incapace di misurarsi con i grandi problemi nazionali, in primo luogo con la questione meridionale.
Un giudizio che riguardava anche i comunisti che, allora guidati da Amadeo Bordiga, Rosselli considerava “affetti da ‘infantile mimetismo' nei confronti della rivoluzione bolscevica, rispondente alle condizioni ambientali della Russia, ma non a quelle dell'Italia' ” [6]. Inoltre il comunismo bordighista è segnato in profondità da un determinismo economicistico che individua nella crisi economica il fattore determinante un automatico spostamento delle masse proletarie verso posizioni rivoluzionarie e quindi verso il partito comunista. A quest'ultimo veniva attribuito il compito di prevedere lo svolgimento storico e guidare la rottura rivoluzionaria. Il partito si colloca così in una posizione di attesa per assumere la direzione di un movimento di contestazione dell'ordine costituito destinato a realizzarsi indipendentemente dal suo operato [7].
Una posizione, quella sopra sintetizzata, che non faceva che confermare ciò che Rosselli considerava il limite essenziale del marxismo, quel concetto di “necessità storica” che faceva del socialismo il risultato di un “processo obiettivo e fatale di trasformazione di cose”. Uno schema ampiamente accolto dal gretto economicismo della Terza Internazionalista, che a partire dal X Plenum del luglio 1929 faceva propria la politica staliniana del “terzo periodo”, basata sulla convinzione dell'irreversibile crollo del capitalismo, sulla conseguente crisi politica e sull'inevitabile sbocco rivoluzionario. Affermazioni che Gramsci confutava, rifiutando di ricondurre “la rottura dell'equilibrio delle forze” a “cause meccaniche”, alla crisi e all' “immiserimento del gruppo sociale” che “ha l'interesse a rompere l'equilibrio”. Se non c'è passaggio dall'economia alla politica, se non si stabilisce una dialettica quantità-qualità, “un processo che ha per attori gli uomini” […], la situazione rimane inoperosa e possono darsi conclusioni contraddittorie”, tra queste la resistenza e una reazione violenta “della vecchia società” [8].
Ed è proprio il giovane Gramsci e l'esperienza consiliare e ordinovista ad aver avuto una qualche influenza su Rosselli se nella formulazione della rivoluzione antifascista e socialista viene assunta la rivendicazione dei consigli di fabbrica e del controllo operaio sulla produzione.
La “ ‘ rivoluzione antifascista' ” non poteva essere “un semplice mutamento di forme politiche superficiali né un ritorno al passato, ma una profonda trasformazione economica - politica' ”, tesa al pieno compimento della democrazia [9].
Una prospettiva che oggi può contribuire - come suggerisce Bagnoli - ad una ricostruzione della sinistra in una fase in cui la libertà dei soggetti e l'insieme delle relazioni sociali tendono ad essere ridefinite in funzione del mercato, con la conseguente riduzione dell'operare dell'individuo ai principi del calcolo economico.
La ricerca di un nuovo sistema di rapporti sociali e politici potrebbe trovare materiale di riflessione nel concetto, “evocato negli scritti di Rosselli”, di libertà “come autonomia sia nel significato (liberale) di diritto all'autonomia intellettuale da parte dei singoli individui sia nel senso (democratico - repubblicano e socialista) di partecipazione attiva alla politica e di autogestione dei processi lavorativi” [10].
Sperimentando momenti e spazi di autodeterminazione collettiva il socialismo può diventare “ ‘risultato di persuasione attraverso una lunga catena di esperienze positive […] e la riforma dei rapporti sociali in base a un principio di giustizia che si armonizzi col rispetto della libertà degli individui e dei gruppi' ” [11].
L'assunzione di tali indicazioni deve tener conto, come precisavamo sopra, del prevalere delle logiche aziendalistiche, dell'affermazione dell'impresa come paradigma che deve essere imitato, ricopiato, introiettato, che richiede l'assunzione a sé dell'intera società e dell'insieme dei sottosistemi che la compongono. Tutto deve rispondere in primo luogo al rapporto ottimale tra investimenti e profitti, tra costi e benefici; ciò che non risponde a tale imperativo è spreco, prodotto sociale superfluo. È “coscienza e conoscenza eccedente al puro bisogno aziendale”, quest'ultimo si precisa nella richiesta al produttore di una “mobilitazione totale” delle sue capacità e disposizioni affettive, facendo venire meno la frontiera tra lavoro e non lavoro, a cui si accompagna la frammentazione dei produttori in una moltitudine connessa dalla comunicazione aziendale [12].
L'asservimento di sé al processo di valorizzazione si realizza attraverso una colonizzazione dell'immaginario collettivo e soprattutto del linguaggio dal cui dominio e controllo dipende la possibilità di pensare ed esprimere una diversa dimensione esistenziale.
Dalla riduzione di tutta l'attività umana - capacità cognitive, estetiche, relazionali, corporali ecc. - ad attività strumentali di produzione ne consegue la selezione e valorizzazione di quelle conoscenze e relazioni la cui potenzialità strumentale è manifesta. Quindi l'impoverimento culturale della società, il venire meno delle capacità di cooperare e di stabilire rapporti di natura non mercantile.
Ed è proprio la dissoluzione del legame sociale tra i presupposti del populismo, da considerare, pertanto, strettamente connesso al neoliberismo, ai mutamenti strutturali che a partire dalla mondializzazione dei rapporti di produzione capitalistici giungono alla crescente frammentazione e precarizzazione del lavoro, al tramonto del Welfare state.
Venuta meno la classe operaia come soggetto politico (in conseguenza della riorganizzazione a livello globale dell'economia capitalistica che ha mutato il paesaggio produttivo dei paesi un tempo culla dell'industria manifatturiera) i partiti che dal movimento dei lavoratori avevano tratto forza, rinunciarono ad occuparsi delle condizioni del mondo del lavoro e delle nuove aree di sfruttamento, esito della nuova fase capitalistica. Quindi a ricercare strumenti inediti e motivazioni diverse da quelle che avevano sostenuto in precedenza la lotta delle classi subalterne. La questione di fondo divenne il governo del “nuovo”, in realtà di un capitalismo ordoliberale, finanziario e predatorio; a poco è servito tentare di temperarlo, ai poveri già esistenti ne aggiunge di nuovi proletarizzando quote crescenti di ceto medio.
Nel vuoto prodotto dall'estinzione della sinistra la contestazione popolare è stata ed è orientata non verso obiettivi economici e finanziari ma verso i soggetti più deboli e marginali, verso le istituzioni democratiche, verso i corpi intermedi e le forze sociali. Sono i motivi propri del populismo, che ben lungi dal farsi promotore della partecipazione popolare “è - scrive Bagnoli in Il lungo filo nero del populismo - politica senza gente”, che si traduce nell' “affermazione di un ceto politico che si richiama ad “un concetto astratto di popolo”. Quest'ultimo chiamato ad esprimersi solo alle scadenze elettorali, quando invece la democrazia implica il concorso delle persone “al farsi della politica giorno dopo giorno” [13]. Quindi la presenza di forze politiche che per essere partito necessitano di “un'ideologia” di “una cultura politica”, di “un ruolo sociale basato su un blocco di riferimento nonché di un preciso profilo organizzativo”.
I “partiti erano vere e proprie scuole di educazione civile, nonché, naturalmente, di partecipazione politica. Erano il tramite per il quale la gente stava nella politica” [14], ed è ciò - sottolinea Bagnoli - che oggi manca. La convergenza tra cattolici democratici e DS, in precedenza PDS, ha avuto il solo scopo di puntare sulla presa del governo e salvaguardare i rispettivi ceti politici [15].
Quando ciò che andava e va salvaguardato è la democrazia, oggi sempre più indebolita dalla propensione al totalitarismo insito in un capitalismo che, parafrasando il Marx dei Grundrisse, ha necessità di subordinare a sé “lo sviluppo dell'individuo sociale” nella sua totalità, di ridurre a valore di scambio ogni processo di produzione culturale e di senso.
Le sorti della democrazia sembrano dipendere sempre più dall'inversione del rapporto tra uomo e produzione, è quest'ultima che va subordinata alla produzione di sé, allo “sviluppo di una individualità ricca e dotata di aspirazioni universali nella produzione non meno che nel consumo” [16]. È un'indicazione per la trasformazione sociale, ripresa dai Grundrisse più di vent'anni fa da Andrè Gorz, con cui esplicitava il senso di una “società diversamente ricca”, che era ed è nell'ordine delle possibilità ma non certo una “necessità”.
Si tratta di muovere i primi passi garantendo le persone dalla precarietà, realizzando le condizioni per lo sviluppo di una rete di attività indipendenti sottratte al mero calcolo economico e poste in relazione alla loro redditività sociale e culturale. In questa prospettiva Gorz sollecitava la rivendicazione di un “reddito di esistenza”, vincolato all'opera di ricostruzione di un tessuto di relazioni sociali, alla salvaguardia dei beni ambientali e culturali, alla formazione e autoformazione finalizzata alla cura di sé, all'arricchimento della personalità. Ciò potrebbe rappresentare la base per una diversa divisione e distribuzione del lavoro, ricorrendo ad un uso dell'incremento della produttività a vantaggio della riduzione del tempo di lavoro, ossia in favore “del tempo per il pieno sviluppo dell'individuo, sviluppo che a sua volta reagisce - scriveva Marx nei Grundrisse -, come massima forza produttiva, sulla forza produttiva del lavoro” [17].
Ma nell'attuale stato di cose, in presenza, come dicevamo, di una crescente dissoluzione di ogni legame sociale, della frammentazione e dispersione degli individui, la questione che si pone è quella di promuovere la ricostruzione di spazi di confronto collettivo, di autoeducazione e autodeterminazione, di “autonomia” . Per riconquistare, nel rapporto con gli altri, un controllo, anche parziale, sul proprio lavoro, sul proprio tempo, sulla propria vita complessiva.
È la questione del socialismo, che per Bagnoli “non può che essere un socialismo liberale” ma con una “configurazione ideologica diversa sia dal laburismo […] sia da quanto si è venuto condensando nell'idea di socialdemocrazia”. Il cui obiettivo, senza negare - precisa lo storico socialista - i meriti storici di quest'ultima, non era “il superamento del sistema, bensì la sua correzione”. “Ciò non esprime poco ma non risolve la grande questione di fondo” [18], quella di ricostruire la capacità dell'uomo “di essere autonomo, libero di associarsi per combattere non solo per le fondamentali esigenze pratiche, ma anche spirituali: in altri termini, avere livelli che progressivamente si succedono affermandosi e strutturalmente rappresentanti la dimensione concreta della libertà” [19]. Un processo politico che richiama quell'opera di “autoalimentazione” del movimento di trasformazione della società che, per Riccardo Lombardi, era il prodotto della dialettica tra azione di massa e azione politico-istituzionale, tale da consentire la costituzione di “poteri parziali nella società” in grado di”creare nuovi problemi che esigono nuove riforme e nuovi passi in avanti [20].
Per invertire il processo in corso bisognerebbe chiedersi se non sia il caso di riconsiderare, misurando le dovute distanze, le intuizioni dei movimenti sociali e dei lavoratori degli anni Settanta, le diverse forme di democrazia dal basso: dal controllo operaio, articolato ai diversi livelli della sfera economico-industriale, ai consigli di quartieri, alla sperimentazione di forme di democratizzazione delle strutture sanitarie, assistenziali e scolastiche. Temi oggetto di un dibattito politico che ha visto tra i protagonisti principali dirigenti socialisti di provenienza azionista come Riccardo Lombardi e Tristano Codignola.
Un'ipotesi di governo che risulta distante dal modello tradizionale delle sinistre socialdemocratiche, incentrato su una visione forte del legame partito e Stato (quest'ultimo assunto a soggetto neutro di cambiamento), su un'idea di politica come questione tecnica da trattare solo con saperi esperti, negando valore ai saperi contestuali e alla creatività sociale. Una posizione che ha condotto la sinistra, non solo socialdemocratica ma anche postcomunista, a fare propria la logica dell'efficienza dell'impresa e del mercato da estendere ai servizi pubblici essenziali alla riproduzione della vita.
Ciò rende evidente che la riforma più urgente, ma anche particolarmente difficile da realizzare, è quella dei soggetti collettivi, che può forse concretizzarsi nella misura in cui si stabilisce una rete di relazioni tra gruppi politici, sindacati e realtà associative di base, portatrici di nuove pratiche politiche. È in un simile sistema di relazioni e di reciprocità tra soggetti politici e sociali che è possibile pensare alla formazione di un nuovo ceto dirigente e di un'organizzazione ben diversa da quella che ha caratterizzato gran parte della storia del movimento operaio del secolo scorso; che dal centralismo prima socialdemocratico e dopo dall'ultracentralismo bolscevico è approdata all'autonomia della politica, al partito come entità autoreferenziale e ad un progressivo disinteresse della cultura di sinistra nei confronti della morfologia del conflitto sociale e delle sue evoluzioni.
- Cfr., P. Bagnoli, La rivoluzione della Libertà. Gobettismo, giellismo, azionismo: il filo storico della “rivoluzione democratica”, Milano, Biblion edizioni, 2023, pp.15-17
- A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell'Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1386
- Ivi, p.1392
- Cfr., P. Bagnoli, La rivoluzione della Libertà. Gobettismo, giellismo, azionismo: il filo storico della “rivoluzione democratica”,cit., p.19
- Ivi, p.23
- Ivi, pp. 34-35
- Cfr. V. Orsomarso, Bordiga e Gramsci di fronte al fascismo, in “SPES - Rivista di Politica, Educazione e Storia”, Anno XVII, n. 21, gennaio - aprile 2024, pp. 37-58
- A. Gramsci, op. cit., pp. 1587-1588
- P. Bagnoli, La rivoluzione della Libertà. Gobettismo, giellismo, azionismo: il filo storico della “rivoluzione democratica”cit., p. 39
- Ivi, p. 68
- Ivi, p. 73
- Cfr., A. Gorz, L'immateriale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 18-19
- P. Bagnoli, Il lungo filo nero del populismo, Pisa, Felici Editore, 2024, p. p.49
- Ivi, p. 85
- Cfr., ivi, p. 65
- A. Gorz, op. cit., p. 62
- K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica (“Grundrisse”), vol. I, a cura di G. Backhaus, Torino, Einaudi, 1976, 725
- P. Bagnoli, Il lungo filo nero del populismo, Pisa, Felici Editore, 2024, p.79
- Ivi, p.77
- R. Lombardi, Riforme e rivoluzione dopo la seconda guerra mondiale, in G. Quazza, Riforme e rivoluzione nella storia contemporanea, Torino, Einaudi, 1977, pp. 323-324. In questo quadro era possibile per il dirigente socialista porre la questione dell'autogestione considerata in forme estensive e non limitata alla microeconomia aziendale, bensì estesa ad ambiti economici più ampi, a quelli sociali e territoriali. Lombardi ipotizzava un sistema di autogestione che partendo dalla fabbrica si estendesse “a tutti i settori in cui si determina la realtà popolare, in cui realmente si possa cominciare a poco a poco a costruire un a società realmente partecipata e non […] diretta dall'alto o gerarchizzata” ( R. Lombardi, Nasce dalla realtà la necessità dell'alternativa di sinistra, in Idem, Scritti politici 1963-1978. Dal centro-sinistra all'alternativa, a cura di S. Colarizi, Venezia, Marsilio Editore, 1978, p.224)
Fonte: di Vincenzo Orsomarso