ANTISEMITISMO E CRISI DELLA CIVILTA’ di Paolo Bagnoli
di Paolo Bagnoli
22-10-2024 - EDITORIALE
Più volte, da queste colonne, abbiamo denunciato il ritorno in grande forza dell’antisemitismo. I fatti, giorno dopo giorno, ci danno ragione; basti pensare che si è arrivati a definire Liliana Segre un agente sionista.
La situazione nel medio - oriente seguente al progrom di Hamas del 7 ottobre scorso alimenta la crescita di un sentimento antiebraico che sapevamo non essersi mai dissolto nelle viscere dell’umanità; che speravamo, dopo tutte le controrepliche della storia, si fosse sopito, andato in sonno anche se non scomparso. Quanto fatto da Hamas è un delitto contro l’umanità e, quindi, Israele doveva reagire, ma il dato umanitario doveva essere scisso dalla risposta militare. .La questione, tuttavia, va ben oltre gli avvenimenti mediorientali e molto spesso la stampa e i media spiegano superficialmente e confusamente le questioni di quell’area così complicata. Anche noi critichiamo aspramente il governo di Israele, ma, non per questo, mettiamo in discussione il diritto all’esistenza dello Stato di Israele. Esso, da quando è nato, non ha mai dichiarato - si badi bene – guerra a nessuno e ha sempre dovuto difendersi da chi voleva la sua cancellazione. Patiamo con viva sofferenza la tragedia esistenziale dei palestinesi vittime di interessi geopolitici che, con la loro causa, hanno ben poco o quasi niente a che spartire nonché della politica di una destra israeliana – una brutta destra – che ha usato Hamas per sterilizzare il già debolissimo governo della Cisgiordania a favore dell’espansionismo dei coloni invece di rafforzare quello che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese incrementando un sionismo improprio quando, anche quello che potremmo definire come un’opzione storica, doveva essere superato.
Ai fatti del 7 ottobre Israele doveva reagire: è fuori discussione, ma l’aspetto militare doveva essere staccato da quello umanitario. Nel momento nel quale si dava la caccia agli organizzatori del progrom si doveva proteggere la popolazione civile; doveva essere Israele, ossia il suo attuale governo, a farsi soggetto di aiuto umanitario alla popolazione palestinese, da un lato, e, dall’altro, attuare una politica verso la Cisgiordania che ne rafforzasse l’autorità e l’autorevolezza e, quindi, intervenire contro l’espansione colonialista degli estremisti sionisti. E’ stata la politica di Netanyahu che ha aumentato i nemici dello Stato; una politica che, tra l’altro, ha frammentato la società del suo Paese anche se è legittimo, per difendere lo Stato, fronteggiare con tutti i mezzi la minaccia sciita, ma non andare contro le forze di interposizione dell’Onu. L’interposizione, come dicono i fatti, non ha funzionato, ma continuare l’attacco contro postazioni dei caschi blu è la conferma che Netanyahu tira avanti sulla strada del conflitto il cui obiettivo è l’Iran e i suoi alleati. Ciò isola Israele e quello che era l’avamposto della democrazia tra teocrazie e regimi assoluti, andando contro il diritto internazionale, lacera la coscienza dell’Occidente e pure quella di tanta parte degli israeliani. Una consapevole accortezza politica doveva tener conto della innegabile complessità della situazione e rispondere certo con fermezza senza cadere nella trappola iraniana per cui, se guerra ci sarà, Israele dovrà assumersi le sue responsabilità di fronte al mondo.
La popolazione palestinese andava sottratta alla formale solidarietà degli sciiti e, intorno alla questione fondamentale riguardante la sicurezza di Israele – problema centrale, sicuramente, ma il martirio di Gaza andava evitato - formare un fronte di risposta, di tenuta e di iniziativa politica con i Paesi sunniti che vedono nell’Iran un rischio che li riguarda direttamente. Di questo insieme dovevano far parte anche i palestinesi procedendo a passi spediti verso la nascita di un loro Stato la cui esistenza è anch’esso fattore di sicurezza per Israele.
Cosa succederà nessuno lo sa e non c’è analisi che possa solo prefigurarlo. Qualunque cosa accada una è certa: l’antisionismo si è sentito come sdoganato e dai social, in cui è sempre stato e sempre più, massicciamente presente – come nelle curve degli stadi di calcio - è sceso nelle piazze, si è accampato nelle aule universitarie, ha rotto quel senso di pudore che ancora albergava nel senso comune della gente per cui, da bocche comuni di insospettabile gente comune si sente, con meraviglia in vero, usare la parola “ebreo” con un non malcelato disprezzo, quasi a dire: sono sempre loro a infettare la vita dei popoli. E nella nebbia dei cervelli antisemitismo, antisionismo, esistenza dello Stato di Israele si confondono; quella che viene considerata. senza dirlo, come una specie di sopportazione verso il popolo ebraico, essere giunta al limite del senso comune. Stentiamo a crederci, ma dobbiamo prendere atto che è così.
Questo malato sentimento di diffidenza, di alterità, di ignoranza della storia e del senso dell’”umano” rappresenta, a nostro avviso, il segnale più probante della faglia che attraversa la nostra civiltà, quella occidentale naturalmente che è l’unica valorialmente più alta delle possibili altre nella sedimentazione di una vicenda piena di sangue, guerre, orrori, dolori e irrazionalismi. Ora, la crisi della civiltà si manifesta sotto tanti altri fattori ben evidenti che si ripercuotono con violenza nella frantumazione sociale e nella perdita di considerazione del fattore principale che è quello umano; il fattore sul quale la civiltà si basa. Da qui le conseguenze più facilmente avvertibili della crisi della libertà, della giustizia, della democrazia, della centralità dei diritti, della convivenza pacifica, dell’idea stessa di società quale insieme di convivenza, di un progresso tecnico-scientifico non guidato dall’educazione civile, ma da un altro motivo teso alla manipolazione delle coscienze e a comportamenti di brutalità e di indifferenza collettiva cui si finisce per assuefarsi.
Al vertice dell’imbarbarimento della civiltà sta l’antisemitismo; un qualcosa di veramente globale se si pensa che il Mein Kampf nei Paesi arabi è letto come un manifesto antimperialista!
La coscienza civile collettiva, quella che ancora grazie a Dio c’è, ha il dovere di reagire, culturalmente e politicamente ingaggiando una battaglia di civiltà per la civiltà; basta con risposte deboli e quasi un senso di rassegnazione. E’ una battaglia difficile; è sempre stata una battaglia difficile: ora lo è più di prima. Ad essa, tuttavia, non ci si può sottrarre per stare a vedere. Non si può, a maggior ragione, quando si avverte che lo stare nel giusto richiede esporsi in prima linea.
La situazione nel medio - oriente seguente al progrom di Hamas del 7 ottobre scorso alimenta la crescita di un sentimento antiebraico che sapevamo non essersi mai dissolto nelle viscere dell’umanità; che speravamo, dopo tutte le controrepliche della storia, si fosse sopito, andato in sonno anche se non scomparso. Quanto fatto da Hamas è un delitto contro l’umanità e, quindi, Israele doveva reagire, ma il dato umanitario doveva essere scisso dalla risposta militare. .La questione, tuttavia, va ben oltre gli avvenimenti mediorientali e molto spesso la stampa e i media spiegano superficialmente e confusamente le questioni di quell’area così complicata. Anche noi critichiamo aspramente il governo di Israele, ma, non per questo, mettiamo in discussione il diritto all’esistenza dello Stato di Israele. Esso, da quando è nato, non ha mai dichiarato - si badi bene – guerra a nessuno e ha sempre dovuto difendersi da chi voleva la sua cancellazione. Patiamo con viva sofferenza la tragedia esistenziale dei palestinesi vittime di interessi geopolitici che, con la loro causa, hanno ben poco o quasi niente a che spartire nonché della politica di una destra israeliana – una brutta destra – che ha usato Hamas per sterilizzare il già debolissimo governo della Cisgiordania a favore dell’espansionismo dei coloni invece di rafforzare quello che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese incrementando un sionismo improprio quando, anche quello che potremmo definire come un’opzione storica, doveva essere superato.
Ai fatti del 7 ottobre Israele doveva reagire: è fuori discussione, ma l’aspetto militare doveva essere staccato da quello umanitario. Nel momento nel quale si dava la caccia agli organizzatori del progrom si doveva proteggere la popolazione civile; doveva essere Israele, ossia il suo attuale governo, a farsi soggetto di aiuto umanitario alla popolazione palestinese, da un lato, e, dall’altro, attuare una politica verso la Cisgiordania che ne rafforzasse l’autorità e l’autorevolezza e, quindi, intervenire contro l’espansione colonialista degli estremisti sionisti. E’ stata la politica di Netanyahu che ha aumentato i nemici dello Stato; una politica che, tra l’altro, ha frammentato la società del suo Paese anche se è legittimo, per difendere lo Stato, fronteggiare con tutti i mezzi la minaccia sciita, ma non andare contro le forze di interposizione dell’Onu. L’interposizione, come dicono i fatti, non ha funzionato, ma continuare l’attacco contro postazioni dei caschi blu è la conferma che Netanyahu tira avanti sulla strada del conflitto il cui obiettivo è l’Iran e i suoi alleati. Ciò isola Israele e quello che era l’avamposto della democrazia tra teocrazie e regimi assoluti, andando contro il diritto internazionale, lacera la coscienza dell’Occidente e pure quella di tanta parte degli israeliani. Una consapevole accortezza politica doveva tener conto della innegabile complessità della situazione e rispondere certo con fermezza senza cadere nella trappola iraniana per cui, se guerra ci sarà, Israele dovrà assumersi le sue responsabilità di fronte al mondo.
La popolazione palestinese andava sottratta alla formale solidarietà degli sciiti e, intorno alla questione fondamentale riguardante la sicurezza di Israele – problema centrale, sicuramente, ma il martirio di Gaza andava evitato - formare un fronte di risposta, di tenuta e di iniziativa politica con i Paesi sunniti che vedono nell’Iran un rischio che li riguarda direttamente. Di questo insieme dovevano far parte anche i palestinesi procedendo a passi spediti verso la nascita di un loro Stato la cui esistenza è anch’esso fattore di sicurezza per Israele.
Cosa succederà nessuno lo sa e non c’è analisi che possa solo prefigurarlo. Qualunque cosa accada una è certa: l’antisionismo si è sentito come sdoganato e dai social, in cui è sempre stato e sempre più, massicciamente presente – come nelle curve degli stadi di calcio - è sceso nelle piazze, si è accampato nelle aule universitarie, ha rotto quel senso di pudore che ancora albergava nel senso comune della gente per cui, da bocche comuni di insospettabile gente comune si sente, con meraviglia in vero, usare la parola “ebreo” con un non malcelato disprezzo, quasi a dire: sono sempre loro a infettare la vita dei popoli. E nella nebbia dei cervelli antisemitismo, antisionismo, esistenza dello Stato di Israele si confondono; quella che viene considerata. senza dirlo, come una specie di sopportazione verso il popolo ebraico, essere giunta al limite del senso comune. Stentiamo a crederci, ma dobbiamo prendere atto che è così.
Questo malato sentimento di diffidenza, di alterità, di ignoranza della storia e del senso dell’”umano” rappresenta, a nostro avviso, il segnale più probante della faglia che attraversa la nostra civiltà, quella occidentale naturalmente che è l’unica valorialmente più alta delle possibili altre nella sedimentazione di una vicenda piena di sangue, guerre, orrori, dolori e irrazionalismi. Ora, la crisi della civiltà si manifesta sotto tanti altri fattori ben evidenti che si ripercuotono con violenza nella frantumazione sociale e nella perdita di considerazione del fattore principale che è quello umano; il fattore sul quale la civiltà si basa. Da qui le conseguenze più facilmente avvertibili della crisi della libertà, della giustizia, della democrazia, della centralità dei diritti, della convivenza pacifica, dell’idea stessa di società quale insieme di convivenza, di un progresso tecnico-scientifico non guidato dall’educazione civile, ma da un altro motivo teso alla manipolazione delle coscienze e a comportamenti di brutalità e di indifferenza collettiva cui si finisce per assuefarsi.
Al vertice dell’imbarbarimento della civiltà sta l’antisemitismo; un qualcosa di veramente globale se si pensa che il Mein Kampf nei Paesi arabi è letto come un manifesto antimperialista!
La coscienza civile collettiva, quella che ancora grazie a Dio c’è, ha il dovere di reagire, culturalmente e politicamente ingaggiando una battaglia di civiltà per la civiltà; basta con risposte deboli e quasi un senso di rassegnazione. E’ una battaglia difficile; è sempre stata una battaglia difficile: ora lo è più di prima. Ad essa, tuttavia, non ci si può sottrarre per stare a vedere. Non si può, a maggior ragione, quando si avverte che lo stare nel giusto richiede esporsi in prima linea.
Fonte: di Paolo Bagnoli