"BORISCONO E L'AMARA SCONFITTA DEL LABOUR"
24-05-2021 - IL SOCIALISMO NEL MONDO
Il 6 maggio 48 milioni di cittadini britannici si sono recati alle urne per rinnovare 143 amministrazioni comunali e provinciali. I sondaggi davano i conservatori in vantaggio, ma il risultato delle votazioni ha premiato i Tory oltre le più rosee previsioni. Per una sorta di antica regola, il governo britannico tende a perdere le elezioni suppletive di medio termine. Il che rende la clamorosa sconfitta del Labour nella storica roccaforte della sinistra di Hartlepool da parte dei conservatori al potere da 11 anni ancora più straordinaria. Trarre troppe conclusioni da un solo risultato sarebbe incauto. Ma il Labour ha perso terreno in favore dei Tory anche nelle municipalità di Southampton, Sunderland, Newcastle, County Durham e nelle West Midlands. Non c’è stato però un plebiscito a favore dei Tory: non hanno vinto in Galles, né a Cambridge né a Oxford né a Londra. Ma soprattutto non hanno vinto in Scozia, dove la premier Nicola Sturgeon ha compiuto un altro passo verso la secessione: il partito nazionalista scozzese (SNP) si è aggiudicato 64 parlamentari su 129 (uno in meno rispetto alla maggioranza assoluta) a spese dei laburisti e dei conservatori. Anche se il risultato delle elezioni ha confermato che il referendum per l’indipendenza sarà impensabile nei prossimi anni, la battaglia per la Scozia – che è anche una battaglia per il futuro della Gran Bretagna – è posticipata, non cancellata.
Quello che è chiaro è che il governo di Boris Johnson è emerso largamente incolume dalla sua inadeguata gestione della prima fase del Covid 19. Il successo del piano vaccinale e segnali di ripresa dell’economia hanno cancellato il ricordo dell’errore di valutazione che ha lasciato il Regno Unito con più di 127.000 morti. Nonostante i suoi detrattori lo irridano affibbiandogli l’appellativo di “Borisconi” e lo accusino di clientelismo e di scorrettezze, il primo ministro è stato capace di fare breccia nelle parti più depresse del Paese, convincendole di essere in grado di soccorrerle, di aiutarle a risollevarsi. Dissociandosi dai governi di Cameron e Teresa May e dal passato thatcheriano, allontanando la politica tory dall’antico culto del libero mercato, ha dato all’elettore l’impressione di una tanto attesa rottura con il passato. Johnson è un personaggio pubblico da due decenni: in questo lasso di tempo ha vinto quattro elezioni – diventando due volte sindaco di Londra, una città notoriamente laburista, vincendo il referendum del 2016 e vincendo le elezioni generali nel 2019, la più grossa vittoria tory dal 1987. Johnson non ha il fascino verbale di Tony Blair, Barack Obama o Bill Clinton, ma ha dimostrato di saper attrarre anche chi non fa parte della base tradizionale del partito, di riuscire a entrare in contatto con l’uomo della strada. La sua strategia del “salire di livello” (di dare più polizia, infermiere, ospedali e così via) ha funzionato, com’è stata premiata la sua politica di massicci finanziamenti che hanno permesso a cittadini britannici e alle loro attività di rimanere a galla durante la pandemia. Non solo. Coloro che hanno votato tory hanno visto in lui una speranza di cambiamento anziché un privilegiato studente di Eton che i critici di sinistra disprezzano e ritenuto che il governo meriti la chance di tener fede alle promesse. L’altro elemento del suo successo è che alcune sue debolezze si sono dimostrate una forza. La sua caotica vita privata assomiglia a quella di molte famiglie disfunzionali e Johnson non ha mai preteso di essere d’esempio. E questa sua autenticità gli ha giovato. Quanto al Labour, ha subito l’ultima umiliante sconfitta. La spiegazione è semplice: sta perdendo la sua base più autentica - la classe lavoratrice e i giovani. Rimpiazzare l’eccentrico socialista Jeremy Corbyn con il più sofisticato sir Keir Starmer si è dimostrato insufficiente a riconquistare le città post-industriali pro-brexit. 58 anni, ex direttore della pubblica accusa per l’Inghilterra e il Galles, Starmer è diventato leader laburista il 4 aprile dello scorso anno. Ha dipinto sé stesso come apolitico ma competente, al contrario di Boris Johnson. Ma al contrario di Boris Johnson, è anche freddo, scostante, manca di ascendente, non riesce a entrare in contatto con la gente e non può quindi persuaderla di essere dalla sua parte. Senza un programma, senza la capacità di dare un nuovo volto al partito, non ha saputo convincere. E non ha saputo gestire la sconfitta, andando a caccia di un capro espiatorio e limitandosi a un rimpasto dei vertici del partito scaricando così le proprie responsabilità sui collaboratori – il cosiddetto governo ombra. A lasciare l’incarico non ci pensa, almeno per il momento. Dopo la débâcle, sono però in molti ad attaccare la sua leadership. Queste ultime sconfitte riapriranno la lotta con la sinistra rimasta fedele a Corbyn per conquistare l’anima del partito. Il fatto che il Labour continui a rimanere al potere nel Galles dopo 22 anni dimostra che qualche vecchia roccaforte ha resistito. I partiti fratelli dei laburisti in Europa stanno soffrendo analoghe variazioni; le speranze del centro sinistra tedesco sta più nei Verdi che nei socialdemocratici. Alcuni di loro stanno lottando contro avversari che hanno associato il populismo di destra con promesse di maggiori investimenti. E’ la formula adottata dai conservatori di Johnson, e che fino ad ora ha avuto successo. E’ la formula adottata dalla candidata della destra spagnola Isabel Díaz Ayuso, che ha stravinto le elezioni divenendo nuovamente governatrice di Madrid. E’ la formula che ha dichiarato di voler adottare Marine Le Pen che cercherà per l’ennesima volta di dare la scalata all’Eliseo.
Fonte: di GIULIETTA ROVERA