21 Novembre 2024

"BRINDISI COI BICCHIERI COLMI D’ACQUA"

Molti hanno festeggiato la presentazione del disegno di legge governativo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e del CSM. A chi si potrebbe negare un bicchiere di vino? ma temo che i festeggianti debbano accontentarsi dell’acqua. Non si può non essere d’accordo con quanti hanno detto, a proposito della riforma Cartabia, che peggio dell’immobilismo è far finta di cambiare; qualche altro ha detto che questa pseudo-riforma è solo il primo passo: spero che non sia anche l’ultimo, che non sia il solito ‘provvisorio’ prezzoliniano, unico ‘definitivo’ della vita italiana.
Di questa cosiddetta riforma, una cosa mi ha colpito soprattutto: che i ministri si siano dovuti lamentare di non aver avuto il testo per tempo in modo da poterlo leggere e valutare. Una riforma che dovrebbe essere epocale non si può discutere in due ore di consiglio dei ministri senza nemmeno avere prima visto le carte.
Una delle ragioni addotta dal governo per giustificare la fretta sarebbe quella di dare un seguito immediato e rispettoso alla sollecitazione fatta dal bispresidente Mattarella, nel suo discorso di reinsediamento al Quirinale.

Bene.

Abbiamo tutti preso atto che, finalmente – dopo sette anni trascorsi al Quirinale senza sentire il bisogno di farlo con un messaggio alle Camere o di farlo nella sua qualità di presidente del CSM nelle numerose occasioni di crisi e di scandali che si sono presentate – Mattarella ha detto quattro parole su questa grave questione: «Nell’inviare un saluto alle nostre Magistrature – elemento fondamentale del sistema costituzionale e della vita della nostra società – mi preme sottolineare che un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia. Per troppo tempo è divenuta un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività… Nella salvaguardia dei principi, irrinunziabili, di autonomia e di indipendenza della Magistratura – uno dei cardini della nostra Costituzione – l’ordinamento giudiziario e il sistema di governo autonomo della Magistratura devono corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini … È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Consiglio superiore della Magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la Magistratura può contare, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono rimanere estranee all’Ordine giudiziario. Occorre per questo che venga recuperato un profondo rigore».

E, se deve recuperarlo, non significa che l’aveva perduto?

Quattro parole che, tuttavia, sono bastate a condonargli l’omissione settennale e a incoronarlo con l’aureola del defensor fidei. Un po' di aria fritta, tant’è che la riforma – approvata dal consiglio dei ministri per soddisfare il saggio appello del Presidente della Repubblica – è il classico topolino partorito dalla montagna.
Tra le tante parole sibilline che Draghi ci ha fatto sentire nella conferenza stampa di presentazione della riforma, alcune sembrano degne di essere ricordate: «in merito al CSM, come la ministra Cartabia potrà confermare, è stata una discussione ricchissima e molto condivisa … e ha raggiunto alcuni obiettivi importanti. Prima di tutto la condivisione dell'impianto fondamentale della riforma; la delimitazione delle aree dove permangono delle differenze di vedute di opinioni; l'impegno, molto importante, ad adoperarsi con i capigruppo a dare priorità assoluta in Parlamento per l'approvazione della riforma in tempo utile per l'elezione del prossimo Consiglio superiore della magistratura. Un'altra caratteristica condivisa è stata la consapevolezza della necessità di un pieno coinvolgimento delle forze politiche, insieme al rispetto dei tempi. Quindi niente tentativi di porre la fiducia. Ci vuole un accordo, ci vuole condivisione, è un provvedimento di portata tale che necessita di questa apertura, di questo rispetto del Parlamento. Infine c'è stato l'impegno corale, affermato da tutti i ministri, a sostenere con i loro partiti la riforma». Dunque ci sarebbe un impegno corale delle forze politiche che sostengono il governo a portare chiarimenti su ciò che è oscuro nella riforma e a modificare quanto è migliorabile di essa ma, intanto, non c’è che un vuoto quasi ‘pneumatico’. Draghi dice di essersi anche impegnato a non porre la questione di fiducia in Parlamento.

E ci mancherebbe altro!

Tuttavia, non c’è molto da sperare dal dibattito parlamentare: basta vedere i commenti dei vertici dei partiti, soprattutto quello del ‘cervello rimpatriato da Parigi’, il segretario del Pd Enrico Letta, che si dice pienamente soddisfatto e felicemente twitta : «Bene la proposta di riforma del CSM approvata dal Consiglio dei ministri. In linea col programma di governo e con le indicazioni contenute nel discorso del presidente Mattarella applaudito dalle Camere. Ora avanti».
Insomma, non si tocca. E, infatti, ha ragione: il discorso di Mattarella ha tardivamente elencato ‘titoli’, cui si sarebbe dovuto dare svolgimento nella riforma, ma non sono stati riempiti di contenuto: e questo è quanto vuole il PD. Dal quale, infatti, si leva una ‘voce viva’, unanime: Anna Rossomando, Alfredo Bazoli e Walter Verini invitano a sostenere «il punto di equilibrio raggiunto in Cdm». Il loro entusiasmo e, insieme, il loro timore che questo impianto della riforma – a parere di molti, omisssivo – possa essere alterato sono comprensibili poiché è il loro partito ad avere il più forte interesse a non modificare lo status quo del sistema giudiziario. All’opposto, Forza Italia, Lega, Italia Viva ne sottolineano i limiti assai gravi.
Perché il ministro Cartabia – come prima il Presidente Mattarella – si arrocca dietro il paravento della incostituzionalità per impedire qualsiasi riforma intesa a scardinare lo strumento – le ‘correnti’ – attraverso il quale i giudici si sono appropriati, indebitamente, di un potere politico nella gestione del CSM o, anche, qualsiasi riforma delle carriere dei magistrati separando gli inquirenti dai giudicanti? Perché il ministro della giustizia – minacciando il ricorso al voto di fiducia, anzi il ricatto visto che il governo è in atto blindato dalla guerra in Ucraina – vuole commettere l’ingiustizia di impedire una libera discussione parlamentare?
Ora, tralasciando le questioni relative ai codici di procedura nelle quali non entriamo sia perché ancora non si conoscono i testi dei decreti legislativi sia perché troppo tecniche e fuori dalle nostre competenze, vorremmo soffermarci sul versante della struttura della magistratura e del suo organo di autogoverno.

Il sistema elettorale per il CSM previsto dalla Cartabia è un’abominevole messa in scena per lasciare le cose come stanno, cioè per continuare a consentire le cordate politiche nella magistratura, etc.: questa nuova invenzione – cosiddetto ‘binominale’ – è più ‘porcellum’ del ‘porcellum’ ed è tanto dire. Se il Parlamento non avrà la forza per modificare la proposta del governo, si avrà un sistema elettorale piuttosto sui generis, per non dire pasticciato e stravagante: 14 dei 20 magistrati del CSM saranno eletti con un sistema maggioritario in collegi nei quali saranno eletti i due magistrati più votati, su un minimo di sei candidati. Un quindicesimo seggio sarà assegnato a un pubblico ministero sulla base di un calcolo ponderato che individuerà uno tra i terzi più votati. Gli ultimi cinque seggi saranno assegnati invece con un sistema proporzionale nazionale. Non ci saranno liste nazionali, ma ci si potrà candidare individualmente. In extremis, stante il rifiuto Draghi-cantarbiaco di una riforma radicale del sistema elettorale, il genio italico di ideazione di compromessi insensati ha stabilito che, anziché sorteggiare i candidati, vengano sorteggiate le Corti d’appello che formeranno i collegi nei quali le ‘liste’ saranno votate: come se le cordate non si formino dopo!

Un ‘maquillage’, anzi un ‘travestimento’ indecente.

Ad avviso del governo, questo sarebbe un sistema che introdurrebbe una componente di imprevedibilità nell’elezione dei membri ‘togati’ del CSM. Ma è veramente risolutivo dei problemi – logiche clientelari, lottizzazione delle cariche, avanzamenti di carriera legati all’appartenenza politica, divisioni per gruppi, faziosità, lotte fratricide, accaparramento di voti, mercato delle nomine e dei favori – che hanno trasformato il CSM in un terreno di scontro, spartizione e clientelismo?
L’aver lasciato cadere l’ipotesi del sorteggio per la nomina dei membri del CSM significa aver ceduto alle pressioni delle parti più politicizzate della magistratura la quale, sostenendo che il sorteggio sarebbe incostituzionale, ha minacciato di mandare tutto al diavolo.
Ma, oltre al sistema di elezione o nomina dei membri del CSM, bisognerebbe definire – il più possibile nei dettagli per evitare i consueti abusi interpretativi cui ci hanno abituato i magistrati – i poteri del CSM e i loro limiti e le modalità del loro esercizio, per esempio se esso abbia o non il potere di non eseguire una sentenza del Consiglio di stato.
Bisognerebbe altresì porre mano ai criteri seguiti per l’avanzamento di carriera dei magistrati che, mentre godono dei privilegi della carriera aperta, di avanzamento per anzianità e senza alcun sistema di selezione e valutazione, per cui anche il pretore di roccacannuccia può avere il grado, e lo stipendio, di Presidente di sezione della Cassazione pur non avendone la funzione – insomma, tutti generali – sono affidati all’imperscrutabile saggezza dell’organo di autogoverno quanto al loro posizionamento nelle cariche e nelle sedi.
Per non parlare delle porte girevoli tra magistratura e università: un magistrato che passa nell’università continua a percepire lo stipendio che aveva da magistrato mentre il suo collega universitario, magari con il doppio di anzianità di servizio, ha uno stipendio inferiore almeno della metà (succede anche l’inverso con i luminari universitari nominati all’improvviso tra i giudici di Cassazione).
Per non parlare degl’incarichi fuori-ruolo (ministeri e dintorni) che non solo sottraggono un’infinità di magistrati alla loro propria funzione ma li espongono anche alla tentazione politica; per non parlare degli arbitrati privati, molto lucrosi, cui molti magistrati sono chiamati e cui essi accorrono volentieri sottraendo tempo alla loro funzione giurisdizionale pubblica.
Per non parlare, infine, delle luminose carriere politiche costruite sulle spoglie della giustizia. Ora, per essere obiettivi, sulle porte girevoli tra politica e magistratura la riforma ha messo qualche granello di sabbia. Speriamo che basti!
Ma la polemica rovente già in corso fa temere che – a fronte di un fenomeno che inquina alle radici la terzietà del magistrato – la proposta del Governo sia abbastanza blanda: se il magistrato che ha partecipato ad una consultazione politica o amministrativa è stato eletto, deve aspettare cinque anni prima di rimettere la toga, mentre ne deve aspettare solo tre se non è stato eletto. Addirittura potrebbe tornare subito ad indossare la toga il magistrato che ha ricoperto incarichi di governo nazionale (ministro, sottosegretario) o territoriale (assessore) per nomina diretta. E qui già infuria il sospetto che questa sia una norma ad personam, per salvare un sottosegretario in carica.
Nulla poi si prevede sulla separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti; nulla sulla responsabilità civile dei giudici non solo verso i cittadini – spesso vittime di ingiusta detenzione, di lunga durata dei processi, di decisioni giudiziarie errate colposamente (e, talvolta, dolosamente) – e anche verso lo stato, spesso dissanguato finanziariamente a causa di indagini lunghe, costose e infondate nonché dei risarcimenti (sia pure irrisori) che lo stato deve sborsare ai cittadini danneggiati.
Qualcuno dice che le riforme si fanno in Parlamento: è vero. Ma quando le fa.
Non mi stancherò mai di ripetere che il non aver proceduto al chiarimento politico con nuove elezioni, dopo quelle del 2018, è la causa della palude in cui si trova oggi la politica italiana. Il governo, diviso tra posizioni quasi inconciliabili, per quanto sia guidato da un uomo di valore e capacità qual è Draghi oggi non può fare altro che declinare solo i titoli delle riforme da fare.
I referendum sono stati promossi proprio a causa dell’inerzia del Parlamento e comunque nessuno può togliere al popolo il diritto di fare sentire la sua voce né è democratico sollecitare l’astensione per fare mancare il quorum.
La Corte Costituzionale ne ha ammessi 5 su 6 escludendo quello sulla responsabilità civile personale dei giudici, forse a ragione perché pare che configuri un referendum sostanzialmente propositivo vietato dalla Costituzione. Ma non ci illudiamo; anche se i referendum approvassero i quesiti proposti, non nutriamo grandi speranze che il Parlamento provveda poi sollecitamente a dare esecuzione alla volontà popolare.





Fonte: di Giuseppe Butta'
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