"DALLA COREA ALL’AFGHANISTAN"
19-09-2021 - DIARIO POLITICO di Giuseppe Butta'
Da secoli si discute sulla ‘guerra giusta'. Qui non si vuole entrare nella questione, complessa e difficile, dei risvolti morali e umani della guerra ma soltanto vedere gli elementi fattuali di quella mossa da gli S.U. e dalla NATO contro gl'insediamenti terroristici in Afghanistan: vogliamo dire solo se essa fosse ‘giustificata', se non ‘giusta', quali i suoi obiettivi, quali i suoi esiti.
Non v'è dubbio che essa aveva due obiettivi precisi di carattere politico-militare: punire gli autori dell'attentato alle Twin Towers e distruggere le basi dei terroristi responsabili di un attacco agli Stati Uniti talmente vile da fare impallidire il ricordo di Pearl Harbour e da fare scattare la clausola di difesa comune del Patto atlantico sia pure tra i tentennamenti di molti degli alleati.
La cosiddetta esportazione della democrazia non era un obiettivo primario della guerra ma è stato proprio questo a comportare un sempre maggiore e duraturo impegno americano e a renderlo insopportabile per l'opinione pubblica americana e facile obiettivo per tutti i critici in malafede come Massimo D'Alema il quale sostiene che «l'attentato alle Twin Towers non fu opera dei Talebani ma di una élite araba» addestrata dagli americani per combattere i sovietici e il comunismo – e di ciò egli evidentemente si rammarica – e che i Talebani sono bensì un movimento fondamentalista, violento e intollerabile per i comportamenti contro donne e minoranze, ma che «definirli terroristi è una stupidaggine … i Talebani sono un movimento politico, come Hezbollah e Hamas».
Ma l'ex presidente del Consiglio e ministro degli esteri non sa che Hezbollah e Hamas, oltre a contrastare Israele, sono partecipi del progetto dell'emirato islamico che si vale anche del terrorismo?
Egli sostiene anche che “la risposta occidentale all'attacco terroristico delle Twin Towers … aveva soprattutto un forte disegno politico-culturale: … l'espansione della democrazia nel mondo islamico ... L'omologazione culturale non funziona».
Certo, il fallimento c'è stato anche se il tentativo aveva portato alla liberazione dalla dittatura talebana, consegnando agli afghani una sia pure effimera qualità di ‘cittadini'; pertanto, su questo punto non si può dar torto a D'Alema. Ma egli ha certamente torto quando – ridimensionando il pericolo rappresentato dal progetto di instaurazione dell'emirato islamico, universale, che aveva i suoi promotori nell'Afghanistan talebano del 2001 – riduce gli obiettivi della guerra a una tale missione.
In realtà, Bush decise l'intervento non per ‘esportare la democrazia' ma perché, dopo l'attentato alle Twin Towers, il Mullah Omar, leader talebano, rifiutò la consegna di Bin Laden, il regista dell'attacco: fu Obama a voler trasformare l'Afghanistan in uno Stato tentando di unificarne le sparse membra tribali, un programma quasi inevitabile dato il perdurare della guerra ma, come dice Kissinger, anche in contrasto con la struttura di quella società – è stato un errore, infatti l'instaurazione di un governo di carattere centralistico, sia pure democratico, anziché ricercare le alleanze necessarie con le strutture del potere esistenti, magari favorendone un'evoluzione in senso federale –, nonché con i tempi dei processi politici americani.
Comunque, i risultati conseguiti dalla coalizione in questi venti anni erano stati notevoli – dal controllo, anche se parziale, del territorio alla cattura ed eliminazione di molti dei principali capi talebani e perfino di Bin Laden – nonostante i molti errori politici e strategici: le truppe americane e della NATO, limitate nella loro operatività da scelte politiche rinunciatarie, si sono progressivamente asserragliate lasciando molte parti del territorio ai talebani. In più, pare che, come testimonia il generale Battisti, il primo Comandante del Contingente Italiano a Kabul, la NATO avrebbe addestrato l'esercito afghano a una tattica inadeguata a quel teatro di guerra: «abbiamo fatto disimparare agli afghani a combattere … Gli afghani sono considerati i combattenti più temibili dell'Asia centrale. Ma devono farlo a modo loro... Abbiamo applicato i nostri manuali. Dopo la ritirata della NATO, l'esercito afghano si è dissolto».
Il 31 agosto scorso abbiamo visto in diretta televisiva il generale americano Donahue imbarcarsi su un aereo per lasciare l'Afghanistan in seguito alla decisione di Biden di ritirarsi da quel paese dopo venti anni, mentre la celebrazione del ventennale dell'attentato dell'11 settembre ha certificato la profonda spaccatura dell'opinione pubblica americana, frutto di un clima di reciproca delegittimazione delle parti politiche, talmente duro da far dimenticare l'epoca della ‘camicia insanguinata'.
Henry Kissinger, il vecchio artefice della real politik ai tempi della guerra in Vietnam, ha detto chiaro e tondo che «l'ordine del ritiro dato da Biden – con una decisione presa senza preavviso né accordo preliminare con gli alleati e con le persone coinvolte in questi vent'anni di sacrifici … [e l'aver presentato] la questione afghana come una scelta tra il pieno controllo dell'Afghanistan o il ritiro totale» – ripete l'errore di Obama, che fu autore di una ‘exit strategy' dall'Iraq «in cui l'accento era più sull'uscita che sulla strategia», vincolata com'era a scadenze prefissate e non ai risultati conseguiti sul terreno, e di un analogo errore in Afghanistan nel 2009, quando, mentre inviava nuove truppe sul teatro di guerra, Obama annunciò l'inizio del ritiro militare entro diciotto mesi, senza condizioni. Un errore, quello di Obama e ora di Biden dovuto a una questione di pessima politica interna e di improvvisazione strategica: l'improvvida decisione di Biden di ritirarsi ha determinato un crollo subitaneo del governo afghano lasciandolo ai talebani che, nella loro avanzata, hanno liberato migliaia di prigionieri (il quotidiano India Today li quantifica in «oltre 2.300 terroristi, inclusi molti capi del Ttp», il movimento dei talebani pakistani, anch'esso legato ad al-Qaeda), si sono impossessati degli armamenti moderni abbandonati dalla NATO, ristabiliranno il loro regime fondato sull'oppio e rafforzeranno i loro legami con al-Qaeda: il Segretario di stato, Anthony Blinken, si accontenta di poco quando dice, a giustificazione del ritiro, che gli obiettivi della guerra erano stati raggiunti e che Al-Qaeda è «stata significativamente indebolita nella sua capacità operativa all'estero».
Questo forse poteva essere vero prima del ritiro ma non dopo che l'Afghanistan è tornato sotto il controllo dei talebani.
Biden dunque mentiva (sarebbe peggio se non egli non si rendeva conto delle conseguenze che avrebbe avuto l'improvviso ritiro militare) quando affermò che il ritiro americano non avrebbe comportato ‘inevitabilmente' il ritorno dei talebani al potere e al loro controllo sull'intero paese: «una tale evenienza – egli disse – è del tutto inverosimile».
Infatti, ciò sarebbe stato evitabile se solo egli avesse provveduto a evacuare tempestivamente tutti gli afghani collaboranti con la NATO e che il ritorno talebano avrebbe messo in pericolo; a disporre le misure necessarie per controllare, ostacolare e fermare le operazioni terroristiche nell'Asia centrale e meridionale; a rallentare se non fermare le colonne talebane che avanzavano occupando rapidamente tutte le grandi città senza resistenza ,se non assai debole e sporadica, da parte dell'esercito regolare afghano.
Nulla di tutto questo; addirittura, intorno al 20 agosto si rese necessario inviare in tutta fretta 5.000 marines per tenere l'aeroporto di Kabul fino al 31 agosto per l'evacuazione degli stessi americani oltre che degli afghani a rischio, molti dei quali sono però rimasti alla mercé dei talebani.
La giustificazione della débâcle che Blinken ha tentato di dare davanti al Congresso – «anche le analisi più pessimistiche non prevedevano che le forze governative a Kabul sarebbero collassate prima del ritiro di quelle USA» – cercando di scaricare su Trump la responsabilità con l'accusa di avere lasciato in eredità a Biden soltanto «una dead line non un piano per il ritiro» non solo è tardiva ma è anche una pezza peggiore del buco: Biden è al governo da otto mesi, forse non ha avuto il tempo per correggere un tale supposto errore del predecessore?
A proposito del ritiro americano dall'Afghanistan, perfino Papa Francesco ha detto che, pur essendo necessario lasciare finalmente «gli afghani a se stessi, la questione è «come dimettersi, come negoziare una via d'uscita. Da quanto si vede, qui non sono state prese in considerazione tutte le eventualità ... c'è stato molto inganno da parte forse delle nuove autorità. Dico inganno o tanta ingenuità, non capisco»: evidentemente il Papa allude all'ingenuità americana di non predisporre una rete di sicurezza e aver creduto alle promesse talebane.
Il Papa, in sostanza, è d'accordo con Kissinger il quale afferma che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto ritirarsi ma ridimensionare i propri obiettivi in funzione del miglior possibile risultato conseguibile in Afghanistan: «La lotta ai ribelli poteva essere ridimensionata a contenimento, anziché annientamento, dei talebani. E il percorso politico-diplomatico avrebbe potuto esplorare uno degli aspetti particolari della realtà afghana: che i Paesi confinanti – anche se in aperta ostilità tra di loro e non di rado con l'America – potessero sentirsi profondamente minacciati dal potenziale terroristico dell'Afghanistan».
Tony Blair – l'ex primo ministro britannico primo ad affiancarsi, nell'ottobre 2001, a George W. Bush nella risposta al devastante attacco di Bin Laden dell'11 settembre – ha definito il ritiro degli Stati Uniti dall'Afghanistan «una scelta, non una necessità», un atto «tragico, pericoloso, perché le modalità del ritiro dall'Afghanistan non sono frutto di una ‘grande strategia' ma dello slogan politico idiota di porre fine alle ‘guerre eterne' … è assurdo, è un errore pensare che la natura del nostro intervento militare su larga scala del novembre 2001 sia uguale a quella della missione attuale di appoggio e garanzia del governo afghano».
Blair spiega come le scelte politiche di breve termine siano spesso in conflitto con gl'interessi strategici di lungo periodo; insomma, l'intervento richiede un impegno diretto al conseguimento di fini precisi e strategicamente ordinati e, pertanto, la sua durata non può essere predeterminata.
Blair dice, a ragione, che la storia ha insegnato quanto sia stato pieno di conseguenze pericolose l'intervento in Afghanistan, Iraq e Libia ma ha anche insegnato quanto «il non intervento sia una politica carica di conseguenze altrettanto negative e pericolose».
Per non andare indietro fino agli accordi di Chamberlain con Hitler e alle inascoltate proposte strategiche di Winston Churchill sulla condotta della guerra in Europa e sulle trattative di Yalta, se si guarda alla storia delle guerre degli Stati Uniti negli ultimi settanta anni, viene il dubbio che esse siano state condotte con una strategia militare talmente azzoppata dalla politica (dal caso MacArthur in Corea al Vietnam) da fare degli Stati Uniti una ‘tigre di carta'.
Il dialogo non si nega a nessuno – è uno degli strumenti della ‘real politik' invocato da molti, anche in Italia, al fine di ottenere dai talebani ora qualche garanzia sul rispetto dei diritti umani e civili in Afghanistan – ma non si capisce come e da chi un tale dialogo possa essere condotto una volta che ci si è privati di qualunque mezzo di pressione: forse muovendo una nuova guerra?
A che giovano le ‘lacrime di coccodrillo' di Biden che dice oggi – scimmiottato da quanti parlano di un pessimo segnale (per esempio il nostro ministro degli esteri, Di Maio) – di essere preoccupato per la forma assunta dal nuovo governo talebano zeppo di ministri che l'ONU aveva inserito nella lista dei terroristi ricercati, su alcuni dei quali pende una taglia posta dagli Stati Uniti.
A proposito dell'ONU, sarebbe logico, oltre che auspicabile, che fossero le Nazioni Unite a provvedere a una tale protezione e qualcuno continua a illudersi o a fingere di illudersi che ciò sia possibile.
Bisogna leggere la guerra afghana esclusivamente con la lente degli interessi strategici in giuoco, primo fra tutti quello decisivo della lotta che ci troviamo ad affrontare contro un disegno politico che mette sotto attacco tutto l'Occidente: da tale punto di vista, la ritirata ‘incondizionata' è stata insensata e pericolosa specialmente per le sue modalità che sono sotto i nostri occhi e per le conseguenze che, Dio non voglia, potremmo ben presto vedere.
Oltre al problema dei profughi afghani – che potrebbero essere milioni – c'è un risvolto strategico di cui l'Occidente sembra non tenere conto. «Quale è oggi la posizione dell'Occidente?»
Questa è la domanda che, criticando Biden, si è posto Tony Blair il quale teme a ragione, non solo che Russia, Cina e Iran possano ora avvantaggiarsi della situazione in Afghanistan – anche se qualcuno ipotizza che questo paese possa rivelarsi una ‘polpetta avvelenata' pure per la Cina – ma soprattutto che l'Occidente perda la sua unità e che gli alleati degli Stati Uniti si convincano che questi abbiano perduto la loro capacità di leadership inaugurando un ‘nuovo isolazionismo'.
Per fortuna, il disimpegno americano è per il momento escluso visto che Biden ha firmato il Patto del Pacifico tra Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti (AUKUS) dando ragione alla strategia anticinese definita da Donald Trump, e inteso a prendere il posto della vecchia SEATO, che fu affossata dalla Francia. L'improvvisa firma di questo patto ha sollevato le proteste di parte dell'Europa – specialmente furiose quelle dei francesi, che sono stati toccati nella tasca – perché tenuta all'oscuro delle trattative: ma ciò non è che la logica conseguenza delle ambiguità del Vecchio Continente, più volte colto con le mani nel sacco della tentazione filocinese e ora confermata dall'Alto Rappresentante Ue per la politica estera, Borrell: «Presumo che l'accordo non sia stato fatto in una notte. Questo ci costringe a riflettere sulla necessità di essere indipendenti e di sviluppare l'autonomia strategica dell'Ue».
Ai molti che oggi festeggiano la sconfitta americana con lo slogan ‘c'era una volta l'America', possiamo dire che, se gli Stati Uniti dovessero perdere il loro peso strategico, rimpiangeremo il secolo americano.
Non v'è dubbio che essa aveva due obiettivi precisi di carattere politico-militare: punire gli autori dell'attentato alle Twin Towers e distruggere le basi dei terroristi responsabili di un attacco agli Stati Uniti talmente vile da fare impallidire il ricordo di Pearl Harbour e da fare scattare la clausola di difesa comune del Patto atlantico sia pure tra i tentennamenti di molti degli alleati.
La cosiddetta esportazione della democrazia non era un obiettivo primario della guerra ma è stato proprio questo a comportare un sempre maggiore e duraturo impegno americano e a renderlo insopportabile per l'opinione pubblica americana e facile obiettivo per tutti i critici in malafede come Massimo D'Alema il quale sostiene che «l'attentato alle Twin Towers non fu opera dei Talebani ma di una élite araba» addestrata dagli americani per combattere i sovietici e il comunismo – e di ciò egli evidentemente si rammarica – e che i Talebani sono bensì un movimento fondamentalista, violento e intollerabile per i comportamenti contro donne e minoranze, ma che «definirli terroristi è una stupidaggine … i Talebani sono un movimento politico, come Hezbollah e Hamas».
Ma l'ex presidente del Consiglio e ministro degli esteri non sa che Hezbollah e Hamas, oltre a contrastare Israele, sono partecipi del progetto dell'emirato islamico che si vale anche del terrorismo?
Egli sostiene anche che “la risposta occidentale all'attacco terroristico delle Twin Towers … aveva soprattutto un forte disegno politico-culturale: … l'espansione della democrazia nel mondo islamico ... L'omologazione culturale non funziona».
Certo, il fallimento c'è stato anche se il tentativo aveva portato alla liberazione dalla dittatura talebana, consegnando agli afghani una sia pure effimera qualità di ‘cittadini'; pertanto, su questo punto non si può dar torto a D'Alema. Ma egli ha certamente torto quando – ridimensionando il pericolo rappresentato dal progetto di instaurazione dell'emirato islamico, universale, che aveva i suoi promotori nell'Afghanistan talebano del 2001 – riduce gli obiettivi della guerra a una tale missione.
In realtà, Bush decise l'intervento non per ‘esportare la democrazia' ma perché, dopo l'attentato alle Twin Towers, il Mullah Omar, leader talebano, rifiutò la consegna di Bin Laden, il regista dell'attacco: fu Obama a voler trasformare l'Afghanistan in uno Stato tentando di unificarne le sparse membra tribali, un programma quasi inevitabile dato il perdurare della guerra ma, come dice Kissinger, anche in contrasto con la struttura di quella società – è stato un errore, infatti l'instaurazione di un governo di carattere centralistico, sia pure democratico, anziché ricercare le alleanze necessarie con le strutture del potere esistenti, magari favorendone un'evoluzione in senso federale –, nonché con i tempi dei processi politici americani.
Comunque, i risultati conseguiti dalla coalizione in questi venti anni erano stati notevoli – dal controllo, anche se parziale, del territorio alla cattura ed eliminazione di molti dei principali capi talebani e perfino di Bin Laden – nonostante i molti errori politici e strategici: le truppe americane e della NATO, limitate nella loro operatività da scelte politiche rinunciatarie, si sono progressivamente asserragliate lasciando molte parti del territorio ai talebani. In più, pare che, come testimonia il generale Battisti, il primo Comandante del Contingente Italiano a Kabul, la NATO avrebbe addestrato l'esercito afghano a una tattica inadeguata a quel teatro di guerra: «abbiamo fatto disimparare agli afghani a combattere … Gli afghani sono considerati i combattenti più temibili dell'Asia centrale. Ma devono farlo a modo loro... Abbiamo applicato i nostri manuali. Dopo la ritirata della NATO, l'esercito afghano si è dissolto».
Il 31 agosto scorso abbiamo visto in diretta televisiva il generale americano Donahue imbarcarsi su un aereo per lasciare l'Afghanistan in seguito alla decisione di Biden di ritirarsi da quel paese dopo venti anni, mentre la celebrazione del ventennale dell'attentato dell'11 settembre ha certificato la profonda spaccatura dell'opinione pubblica americana, frutto di un clima di reciproca delegittimazione delle parti politiche, talmente duro da far dimenticare l'epoca della ‘camicia insanguinata'.
Henry Kissinger, il vecchio artefice della real politik ai tempi della guerra in Vietnam, ha detto chiaro e tondo che «l'ordine del ritiro dato da Biden – con una decisione presa senza preavviso né accordo preliminare con gli alleati e con le persone coinvolte in questi vent'anni di sacrifici … [e l'aver presentato] la questione afghana come una scelta tra il pieno controllo dell'Afghanistan o il ritiro totale» – ripete l'errore di Obama, che fu autore di una ‘exit strategy' dall'Iraq «in cui l'accento era più sull'uscita che sulla strategia», vincolata com'era a scadenze prefissate e non ai risultati conseguiti sul terreno, e di un analogo errore in Afghanistan nel 2009, quando, mentre inviava nuove truppe sul teatro di guerra, Obama annunciò l'inizio del ritiro militare entro diciotto mesi, senza condizioni. Un errore, quello di Obama e ora di Biden dovuto a una questione di pessima politica interna e di improvvisazione strategica: l'improvvida decisione di Biden di ritirarsi ha determinato un crollo subitaneo del governo afghano lasciandolo ai talebani che, nella loro avanzata, hanno liberato migliaia di prigionieri (il quotidiano India Today li quantifica in «oltre 2.300 terroristi, inclusi molti capi del Ttp», il movimento dei talebani pakistani, anch'esso legato ad al-Qaeda), si sono impossessati degli armamenti moderni abbandonati dalla NATO, ristabiliranno il loro regime fondato sull'oppio e rafforzeranno i loro legami con al-Qaeda: il Segretario di stato, Anthony Blinken, si accontenta di poco quando dice, a giustificazione del ritiro, che gli obiettivi della guerra erano stati raggiunti e che Al-Qaeda è «stata significativamente indebolita nella sua capacità operativa all'estero».
Questo forse poteva essere vero prima del ritiro ma non dopo che l'Afghanistan è tornato sotto il controllo dei talebani.
Biden dunque mentiva (sarebbe peggio se non egli non si rendeva conto delle conseguenze che avrebbe avuto l'improvviso ritiro militare) quando affermò che il ritiro americano non avrebbe comportato ‘inevitabilmente' il ritorno dei talebani al potere e al loro controllo sull'intero paese: «una tale evenienza – egli disse – è del tutto inverosimile».
Infatti, ciò sarebbe stato evitabile se solo egli avesse provveduto a evacuare tempestivamente tutti gli afghani collaboranti con la NATO e che il ritorno talebano avrebbe messo in pericolo; a disporre le misure necessarie per controllare, ostacolare e fermare le operazioni terroristiche nell'Asia centrale e meridionale; a rallentare se non fermare le colonne talebane che avanzavano occupando rapidamente tutte le grandi città senza resistenza ,se non assai debole e sporadica, da parte dell'esercito regolare afghano.
Nulla di tutto questo; addirittura, intorno al 20 agosto si rese necessario inviare in tutta fretta 5.000 marines per tenere l'aeroporto di Kabul fino al 31 agosto per l'evacuazione degli stessi americani oltre che degli afghani a rischio, molti dei quali sono però rimasti alla mercé dei talebani.
La giustificazione della débâcle che Blinken ha tentato di dare davanti al Congresso – «anche le analisi più pessimistiche non prevedevano che le forze governative a Kabul sarebbero collassate prima del ritiro di quelle USA» – cercando di scaricare su Trump la responsabilità con l'accusa di avere lasciato in eredità a Biden soltanto «una dead line non un piano per il ritiro» non solo è tardiva ma è anche una pezza peggiore del buco: Biden è al governo da otto mesi, forse non ha avuto il tempo per correggere un tale supposto errore del predecessore?
A proposito del ritiro americano dall'Afghanistan, perfino Papa Francesco ha detto che, pur essendo necessario lasciare finalmente «gli afghani a se stessi, la questione è «come dimettersi, come negoziare una via d'uscita. Da quanto si vede, qui non sono state prese in considerazione tutte le eventualità ... c'è stato molto inganno da parte forse delle nuove autorità. Dico inganno o tanta ingenuità, non capisco»: evidentemente il Papa allude all'ingenuità americana di non predisporre una rete di sicurezza e aver creduto alle promesse talebane.
Il Papa, in sostanza, è d'accordo con Kissinger il quale afferma che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto ritirarsi ma ridimensionare i propri obiettivi in funzione del miglior possibile risultato conseguibile in Afghanistan: «La lotta ai ribelli poteva essere ridimensionata a contenimento, anziché annientamento, dei talebani. E il percorso politico-diplomatico avrebbe potuto esplorare uno degli aspetti particolari della realtà afghana: che i Paesi confinanti – anche se in aperta ostilità tra di loro e non di rado con l'America – potessero sentirsi profondamente minacciati dal potenziale terroristico dell'Afghanistan».
Tony Blair – l'ex primo ministro britannico primo ad affiancarsi, nell'ottobre 2001, a George W. Bush nella risposta al devastante attacco di Bin Laden dell'11 settembre – ha definito il ritiro degli Stati Uniti dall'Afghanistan «una scelta, non una necessità», un atto «tragico, pericoloso, perché le modalità del ritiro dall'Afghanistan non sono frutto di una ‘grande strategia' ma dello slogan politico idiota di porre fine alle ‘guerre eterne' … è assurdo, è un errore pensare che la natura del nostro intervento militare su larga scala del novembre 2001 sia uguale a quella della missione attuale di appoggio e garanzia del governo afghano».
Blair spiega come le scelte politiche di breve termine siano spesso in conflitto con gl'interessi strategici di lungo periodo; insomma, l'intervento richiede un impegno diretto al conseguimento di fini precisi e strategicamente ordinati e, pertanto, la sua durata non può essere predeterminata.
Blair dice, a ragione, che la storia ha insegnato quanto sia stato pieno di conseguenze pericolose l'intervento in Afghanistan, Iraq e Libia ma ha anche insegnato quanto «il non intervento sia una politica carica di conseguenze altrettanto negative e pericolose».
Per non andare indietro fino agli accordi di Chamberlain con Hitler e alle inascoltate proposte strategiche di Winston Churchill sulla condotta della guerra in Europa e sulle trattative di Yalta, se si guarda alla storia delle guerre degli Stati Uniti negli ultimi settanta anni, viene il dubbio che esse siano state condotte con una strategia militare talmente azzoppata dalla politica (dal caso MacArthur in Corea al Vietnam) da fare degli Stati Uniti una ‘tigre di carta'.
Il dialogo non si nega a nessuno – è uno degli strumenti della ‘real politik' invocato da molti, anche in Italia, al fine di ottenere dai talebani ora qualche garanzia sul rispetto dei diritti umani e civili in Afghanistan – ma non si capisce come e da chi un tale dialogo possa essere condotto una volta che ci si è privati di qualunque mezzo di pressione: forse muovendo una nuova guerra?
A che giovano le ‘lacrime di coccodrillo' di Biden che dice oggi – scimmiottato da quanti parlano di un pessimo segnale (per esempio il nostro ministro degli esteri, Di Maio) – di essere preoccupato per la forma assunta dal nuovo governo talebano zeppo di ministri che l'ONU aveva inserito nella lista dei terroristi ricercati, su alcuni dei quali pende una taglia posta dagli Stati Uniti.
A proposito dell'ONU, sarebbe logico, oltre che auspicabile, che fossero le Nazioni Unite a provvedere a una tale protezione e qualcuno continua a illudersi o a fingere di illudersi che ciò sia possibile.
Bisogna leggere la guerra afghana esclusivamente con la lente degli interessi strategici in giuoco, primo fra tutti quello decisivo della lotta che ci troviamo ad affrontare contro un disegno politico che mette sotto attacco tutto l'Occidente: da tale punto di vista, la ritirata ‘incondizionata' è stata insensata e pericolosa specialmente per le sue modalità che sono sotto i nostri occhi e per le conseguenze che, Dio non voglia, potremmo ben presto vedere.
Oltre al problema dei profughi afghani – che potrebbero essere milioni – c'è un risvolto strategico di cui l'Occidente sembra non tenere conto. «Quale è oggi la posizione dell'Occidente?»
Questa è la domanda che, criticando Biden, si è posto Tony Blair il quale teme a ragione, non solo che Russia, Cina e Iran possano ora avvantaggiarsi della situazione in Afghanistan – anche se qualcuno ipotizza che questo paese possa rivelarsi una ‘polpetta avvelenata' pure per la Cina – ma soprattutto che l'Occidente perda la sua unità e che gli alleati degli Stati Uniti si convincano che questi abbiano perduto la loro capacità di leadership inaugurando un ‘nuovo isolazionismo'.
Per fortuna, il disimpegno americano è per il momento escluso visto che Biden ha firmato il Patto del Pacifico tra Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti (AUKUS) dando ragione alla strategia anticinese definita da Donald Trump, e inteso a prendere il posto della vecchia SEATO, che fu affossata dalla Francia. L'improvvisa firma di questo patto ha sollevato le proteste di parte dell'Europa – specialmente furiose quelle dei francesi, che sono stati toccati nella tasca – perché tenuta all'oscuro delle trattative: ma ciò non è che la logica conseguenza delle ambiguità del Vecchio Continente, più volte colto con le mani nel sacco della tentazione filocinese e ora confermata dall'Alto Rappresentante Ue per la politica estera, Borrell: «Presumo che l'accordo non sia stato fatto in una notte. Questo ci costringe a riflettere sulla necessità di essere indipendenti e di sviluppare l'autonomia strategica dell'Ue».
Ai molti che oggi festeggiano la sconfitta americana con lo slogan ‘c'era una volta l'America', possiamo dire che, se gli Stati Uniti dovessero perdere il loro peso strategico, rimpiangeremo il secolo americano.
Fonte: di GIUSEPPE BUTTA'