"FRATELLI TUTTI E L’ECONOMIA DI FRANCESCO"
25-07-2021 - DIARIO POLITICO di Giuseppe Butta'
L'ultima Enciclica del Papa, che ribadisce il grande principio della fratellanza universale inquadrandolo in un più ampio disegno inter-religioso, ha aperto un grande dibattito con vari interlocutori.
Eugenio Scalfari parla spesso con il Papa: l'ultima volta – ce ne informa egli stesso con precisione da grande giornalista – è stata alle ore 19,30 del 13 marzo scorso, in tempo per il suo editoriale del 14, quando sollevando il telefono ne ha sentito «nientemeno l'inconfondibile voce». Va da sé che – stanti le «‘decine' di incontri, telefonate e messaggi» avuti con lui – egli pretende ormai al ruolo di esegeta ufficiale del Papa e crede che le sue ‘glosse' siano quelle di un quasi ‘dottore della chiesa', ateo; ma, se tale pretesa non basta a farne l'interprete ufficiale, è pure vero che, sulle interpretazioni scalfariane, non vi è traccia di dissenso o di precisazione da parte del Papa se non nella sua lettera, indirizzata a Scalfari nel 2013, in cui si diceva che era venuto ormai il tempo per superare l'incomunicabilità «tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura d'impronta illuminista».
Parole che Scalfari interpretò come un'apertura incondizionata alle tesi ‘illuministiche' ma è chiaro che egli sottovalutò altre parole di quella lettera: «Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile … la sicurezza della fede … rende possibile il dialogo con tutti». Forse il Papa voleva dire che anche i non credenti dovrebbero abbandonare l'arroganza ma Scalfari non se ne accorse quando, sulle pagine di ‘Repubblica, ha spiegato le parole di Francesco sul dialogo con le altre Religioni a partire dall'affermazione del Papa che dice di essersi «sentito stimolato in modo speciale dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, per ricordare che Dio ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli». In sostanza, Scalfari attribuisce a Papa Francesco l'ipotesi che a tutte le religioni, cristiane e non cristiane, sia dato il medesimo riconoscimento: «la religione è unica. I Papi possono essere più d'uno ma l'unione tra di loro è indispensabile»; egli promuove il Papa – «ho detto a Sua Santità qual era l'ammirazione per l'intera sua identificazione con tutte le religioni del mondo» – e sottolinea come «non s'era mai visto che la religiosità d'un Papa cattolico fosse estesa a tutte le religioni del mondo».
Siamo forse all'intercambiabilità delle religioni? All'idea secondo la quale la fede, come qualche teologo e qualche ‘progressista' ripetono, possa incarnarsi in qualsiasi cultura e debba adeguarsi alla storia nel suo divenire?
È chiaro come al vecchio fondatore di ‘Repubblica' sfugga quanto Francesco già gli aveva detto sempre in quella lettera del 2013: «la Chiesa non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù». A Scalfari – quando afferma che «Francesco sosteneva e sostiene che Dio è unico e non semplicemente cristiano. Dio è Dio e non ha alcuna assurda territorialità … Francesco su questo punto è rivoluzionario, c'è solo un Dio ma è dovunque il medesimo; c'è un solo Dio e una sola religione e questo è l'obiettivo di Francesco», trascinando così il Papa sul versante scivoloso di un ecumenismo oltre il cristianesimo – sfugge altresì che l'ecumenismo cristiano è una cosa e un'altra cosa è l'alleanza etica tra le diverse religioni, cristiane e non cristiane – già promossa dal primo Francesco e, di recente, da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Francesco come pure da Hans Küng – contro la possibilità di guerre di religione.
Una interpretazione come quella di Scalfari avrebbe comunque richiesto una precisazione da parte del Papa ma non c'è stata e – lo diciamo sommessamente – non si capisce perché, per riaffermare il grande principio cristiano della fratellanza, egli abbia dovuto sentirsi ispirato dal Grande Imam: il rischio è che tale interpretazione del pensiero del Papa passi per vera.
Nell'Enciclica, Papa Francesco affronta altri problemi e dice, ancora, che è stato sempre lo stesso Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb a ispirargli la considerazione che «gli sviluppi positivi della scienza, della tecnologia, della medicina, dell'industria e del benessere, soprattutto nei Paesi sviluppati, però si sono accompagnati a un deterioramento dell'etica, che condiziona l'agire internazionale, e a un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità ... in una situazione mondiale dominata dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi».
Nell'Enciclica si evidenzia dunque il «deterioramento morale» dell'Occidente. Una recente esternazione del Papa induce però a pensare che questa sia un'accusa all'Occidente come società capitalistica – e un'assoluzione per tutto il mondo che non è Occidente – più che all'etica individuale degli ‘occidentali'. Infatti, il Papa sembra quasi avallare il ‘relativismo etico' quando formula una variante del concetto di accoglienza ampliandolo alla legalizzazione delle coppie omosessuali che, avendo il desiderio di avere una famiglia propria, sarebbero titolari di un diritto alla famiglia, del diritto di sposarsi.
Quale famiglia? Quella intesa come luogo della trasmissione dei valori permanenti e assoluti che ci ha consegnato la tradizione o, piuttosto, quella che si vorrebbe far nascere dalla rivoluzione sessuale, cioè dalla ‘liberazione' delle cosiddette ‘preferenze sessuali', che una volta si osava chiamare ‘perversioni', da ogni vincolo morale?
Ma forse dovremmo fare qualche altro passo avanti: perché non riconoscere un tale diritto alla famiglia anche ai ‘bigami', ai ‘poligami' (la presenza di molti islamici nelle nostre comunità lo imporrebbe) e agli ‘adulteri' che, nel loro piccolo, coltivano il desiderio di una ‘famiglia' diversamente concepita? E forse, l'attuale Pontefice, assai fermo sul celibato ecclesiastico, non dovrebbe riconoscere il diritto alla famiglia anche ai preti?
Si tratta di leggi, convenzioni, costumi che, come si sa, variano di tempo in tempo e da luogo a luogo, e quindi possiamo cambiarli, in tutte le direzioni, anche in nome della ‘sessualizzazione dei costumi'.
Il padre gesuita Antonio Spadaro, direttore di ‘Civiltà cattolica', ha spiegato che «Papa Francesco parla di un diritto delle coppie omosessuali ma senza in nessun modo intaccare la dottrina» e che, sebbene «non intenda cambiare la dottrina, egli è nello stesso tempo molto aperto alle esigenze reali della vita concreta delle persone».
Una spiegazione piuttosto ‘gesuitica', forse un ballon d'essai prima di un documento ‘papale' ufficiale che, però, è rimbalzato perché quella apertura del Papa ha fatto sì che, da quel mondo, sorgesse la speranza e si levasse la richiesta che a quelle unioni si desse la forma di matrimonio religioso, come intendevano alcuni prelati e vescovi soprattutto tedeschi: una domanda che, alla fine, ha costretto l'ex Sant'Uffizio a negare che ciò possa avvenire e a precisare che «la Chiesa benedice il peccatore ma non il ‘peccato'».
Insomma, che il peccato sia benedetto solo dallo Stato!
Su tale questione è intervenuto ancora Scalfari che ci ha dato, sulle pagine di ‘Repubblica' del 23 ottobre scorso, una spiegazione significativa – per non dire preoccupante – affermando che Papa Francesco capisce la 'società moderna' e, quindi, «le si adatta anziché provare a spiegarle l'errore».
Per Scalfari, «un Papa come Francesco è un miracolo della storia». La storia fa miracoli? Certo che no; i miracoli li fa qualcun altro!
Tuttavia, egli non sbaglia attribuendo a Papa Francesco una inclinazione all'adattamento al nostro tempo, all'accettazione – sia pure in nome della carità (Forse ‘un progresso nella carità'?) e sia pure obtorto collo – di un pluralismo culturale che investe lo stesso campo morale, cioè di alcune mistificazioni operate dal libertarismo attivistico che ha fatto dell'omosessualità (come dell'aborto, dell'eutanasia, etc.) un indice del ‘progresso' in una società permissiva il cui approdo ultimo è l'agnosticismo se non l'ateismo. Non pensiamo che questa inclinazione sia la stessa di quella manifestata da molti cristiani – cattolici e non cattolici – che pensano di doversi adeguare al giudizio dei laici razionalisti, a fare propri luoghi alcuni comuni come «svolta irreversibile della storia», o idoli come «progresso », «modernità» e simili; ma dobbiamo notare che l'adattamento a queste esigenze della vita moderna contrasta con la preoccupazione che, da Giovanni XXIII a Benedetto XVI, si è fatta forte per la scristianizzazione dell'Occidente, manifestatasi in modo eclatante nell'abbandono dei valori morali, nel materialismo edonistico, nell'erotismo.
L'Enciclica ha dunque un versante politico, quello che fa dire ai cosiddetti ‘progressisti' che Francesco è uno di loro.
Dobbiamo dire però che le sagge parole di Papa Francesco perdono di autorità, di autorevolezza, quando, da principio ‘evangelico' o anche interreligioso, si fanno politica ponendosi perciò sul piano dell'opinabile e incappando nel dissenso ora di una parte ora dell'altra. Un dissenso che, da ultimo è stato manifestato da parte dei ‘progressisti', meravigliati di come questo Papa, dopo quell'acclamata sua apertura sui diritti degli omosessuali, abbia potuto permettere che il Vaticano consegnasse al nostro governo la nota di protesta che ha messo in rilievo il prevalente carattere di strumento di controllo culturale pro-omosessualità che il ddl Zan ha come chiaramente lascia intendere la norma pericolosa, per quanto abbastanza stravagante per non dire grottesca, che istituisce una ‘giornata nazionale' – come quella in ricordo dell'olocausto – contro l'omofobia intendendo però che sia una festa pro-omosessualità da celebrarsi nelle scuole (art. 7, comma 3).
La mia coscienza di liberale mi impone di dire che questa nota dello Stato vaticano è un'ingerenza nell'ordinato esercizio del potere legislativo dello stato italiano: anche se fosse fondata la denuncia di una presunta violazione delle norme concordatarie implicita nel ddl, pensiamo che il Vaticano dovrebbe e poterne chiedere conto solo dopo che il Parlamento avrà fatto in piena libertà le leggi che crede di dover fare! Libera Chiesa in Libero Stato. Ma, s'intende, Libera Chiesa e, anche, liberi tutti!
Con tutto il rispetto, la mia coscienza di liberale-cattolico mi impone però di consigliare al Papa di essere più cauto nelle sue ‘aperture' verso questi ‘progressisti' i quali le interpretano come un consenso sulla loro agenda, e, a chi non volesse piegarsi a questo nuovo pensiero sado-libertino-reichiano dominante, di prepararsi ad essere perseguito – se non discriminato o perseguitato – a causa delle proprie idee: si sarà infatti liberi di professarle «purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti», naturalmente a giudizio insindacabile del censore.
Non v'è dubbio che Papa Francesco abbia un forte spleen politico, un cupio dissolvi nella politica: come dice Vittorio Messori, «la Chiesa è oggi una succursale dell'ONU. Questa è riduzione al mondo ... Gesù non si occupò di politica ... Venne a schiuderci le porte del paradiso».
Del resto, non da ora la posizione di Bergoglio è minata dalla obliqua e ambigua inclinazione verso una teologia che, se non è quella della ‘liberazione', è quella del ‘popolo' – fondata sulla piuttosto ambigua distinzione fra ‘lotta di classe', al centro della teologia della liberazione, e lotta tra ‘popolo' e ‘anti-popolo' – in uno sforzo di ‘dis-occidentalizzazione' che va molto al di là delle giuste critiche che il Mondo Occidentale meriterebbe sul piano dell'etica individuale e di massa, prima che sul piano politico-economico.
È proprio da questa radice teologico-politico-culturale che nascono sia l'orientamento del Papa quando affronta il tema del populismo o quelli che egli chiama limiti delle visioni liberali, sia la grande contraddizione in cui cade questa Enciclica quando invoca il superamento delle ‘politiche sociali' «verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri … senza [i poveri] la democrazia si atrofizza … perde rappresentatività, perché lascia fuori il popolo nella sua lotta per la dignità»: parole affascinanti, che tutti sottoscrivemmo se non sottintendessero scelte politiche discutibili.
Distinguendo «leader popolari capaci di interpretare il sentire di un popolo … le grandi tendenze di una società … [da chi, invece] degenera in insano populismo … allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo … al servizio del proprio progetto personale di potere», il Papa propone una distinzione soggettiva e rischia di cadere lui stesso nell'insano populismo così giustamente osteggiato: e qui entra in gioco ‘la visione liberale' sulla quale il Papa esprime ‘riserve', non soltanto sugli aspetti economici.
Vi sono, nell'Enciclica problemi ‘politici' – dalla ‘cura del pianeta' alla ‘fame nel mondo' – sui quali meditare e trovare ispirazione: il Papa ci ricorda che la cura delle persone viene prima dell'economia e che, a fronte delle «forti crisi politiche, dell'ingiustizia e della mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali, … regna un silenzio internazionale inaccettabile».
Come non essere d'accordo con un tale alto principio e con quella che il Papa chiama ‘buona politica', una «delle forme più preziose della carità» al servizio del bene comune tutelando il lavoro, «dimensione irrinunciabile della vita sociale», assicurando a tutti lo sviluppo delle proprie capacità? Nel Discorso al consiglio per un capitalismo inclusivo, il Papa afferma che l'attività d'impresa «è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti … soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune» [ma non è un effetto naturale in ogni attività d'impresa?] e che, come disse Paolo VI, lo «sviluppo non può limitarsi alla sola crescita economica ma deve favorire la promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo».
Ora, per Francesco, «Neppure questo basta!»
Certo siamo d'accordo con il Papa quando dice che non si possono esaltare modelli economici che «concentrino il loro interesse immediato sui profitti e su politiche pubbliche che ignorano il proprio costo umano, sociale e ambientale»; siamo d'accordo quando spiega che l'aiuto migliore per un povero non è il sussidio bensì il lavoro, ma non possiamo nascondere anche che, su qualche punto, emerge il ‘populismo insano' ed è quello in cui si pospone l'economia al suo fine: la cura della persona. Detto con umiltà, la dottrina economica di Francesco scopre l'acqua calda: tutti vogliamo che l'umanità goda, a ogni latitudine, delle cure, dei mezzi e degli alimenti necessari alla vita; per raggiungere un tale obiettivo è però necessaria un'economia funzionante, sia pure soggetta a regole anti-sfruttamento, altrimenti, non essendo noi in grado di ‘moltiplicare i pani e i pesci', faremmo esattamente il male dell'umanità, condannandola, tutta, alla scarsità come farebbe la ‘decrescita felice'.
Se è vero che economia sana significa, come dice il Papa, molto più che far quadrare i bilanci, migliorare le infrastrutture, etc., è pure vero che essa non può fare a meno dell'equilibrio tra ‘produzione', ‘lavoro', consumi', ‘profitti', senza il quale non vi sarebbe attività economica né ‘cura della persona' o dell'ambiente. Sono concetti antichi, smithiani, da ‘ricchezza delle nazioni', che si sono sviluppati nella storia e che, con tutti gli errori e gl'inceppamenti che conosciamo, hanno consentito a fasce sempre più larghe della popolazione un relativo benessere, le quattro libertà di Roosevelt, il ‘welfare state' di Beveridge: un modello economico-sociale-politico che, seppure oggi necessiti degli aggiustamenti che il nostro tempo impone, non va rovesciato in nome di utopie.
E infatti, i giovani ‘economisti', riuniti dal Papa ad Assisi, non sono andati al di là delle petizioni di principio – «la disuguaglianza prevale su un'integrazione armoniosa di persone e nazioni. È necessario e urgente un sistema economico giusto, affidabile» – o dell'aspirazione a quell'economia della pace che dovrebbe fare a meno dell'industria ‘capitalistica' degli armamenti (forse senza toccare quella cinese o iraniana o quella rudimental-tecnologica dei vari terrorismi) mentre la politica economica attiva di cui essi parlano è, a dir poco, statalismo; né il problema dell'equità si risolve con la ‘decrescita felice' o con modelli politico-economici che si sono rivelati forse i più incapaci nel garantire la libertà e il benessere. Il Papa dovrebbe spiegare anche perché la «comunione dei beni non è ‘comunismo' ma cristianesimo» – concetto da lui espresso commentando un passo degli Atti degli Apostoli: tutti i credenti si spogliarono dei loro beni per «dare a ciascuno secondo il suo bisogno». Forse è un ‘cristianesimo comunista'?
Né l'accoglienza illimitata dei migranti – invocata nell'Enciclica – è veramente utile per il raggiungimento dell'alto scopo dell'accoglienza. Anche Bernard-Henri Lévy ci ha spiegato come, di fronte a quanto sta accadendo nell'isola greca di Lesbo – le honte de l'Europe – non vi sia che una soluzione: «chiudere il campo di Moria nel quale sono raccolti 19.000 migranti … e accoglierli in Europa». Si fa fatica a dar torto a Lévy quando, alla domanda cosa sono 20 mila anime da dividere tra 27 nazioni, risponde: «una goccia d'acqua nell'oceano della nostra prosperità». Si, ma intanto è un numero che cresce ogni giorno. La nostra prosperità? Quella che viene rimproverata all'Occidente da Levy e dal Papa? Si, è quella che oggi noi abbiamo, che ha permesso benessere e migliore qualità della vita ma che, come sappiamo, è soggetta alle crisi – una volta per Lehman Brothers, una volta per la pandemia, etc. – che tutti devono fronteggiare, anche i 500 milioni di europei che, oggi, a torto o a ragione, temono un destino uguale a quello dei migranti di Lesbo.
Eugenio Scalfari parla spesso con il Papa: l'ultima volta – ce ne informa egli stesso con precisione da grande giornalista – è stata alle ore 19,30 del 13 marzo scorso, in tempo per il suo editoriale del 14, quando sollevando il telefono ne ha sentito «nientemeno l'inconfondibile voce». Va da sé che – stanti le «‘decine' di incontri, telefonate e messaggi» avuti con lui – egli pretende ormai al ruolo di esegeta ufficiale del Papa e crede che le sue ‘glosse' siano quelle di un quasi ‘dottore della chiesa', ateo; ma, se tale pretesa non basta a farne l'interprete ufficiale, è pure vero che, sulle interpretazioni scalfariane, non vi è traccia di dissenso o di precisazione da parte del Papa se non nella sua lettera, indirizzata a Scalfari nel 2013, in cui si diceva che era venuto ormai il tempo per superare l'incomunicabilità «tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura d'impronta illuminista».
Parole che Scalfari interpretò come un'apertura incondizionata alle tesi ‘illuministiche' ma è chiaro che egli sottovalutò altre parole di quella lettera: «Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile … la sicurezza della fede … rende possibile il dialogo con tutti». Forse il Papa voleva dire che anche i non credenti dovrebbero abbandonare l'arroganza ma Scalfari non se ne accorse quando, sulle pagine di ‘Repubblica, ha spiegato le parole di Francesco sul dialogo con le altre Religioni a partire dall'affermazione del Papa che dice di essersi «sentito stimolato in modo speciale dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, per ricordare che Dio ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli». In sostanza, Scalfari attribuisce a Papa Francesco l'ipotesi che a tutte le religioni, cristiane e non cristiane, sia dato il medesimo riconoscimento: «la religione è unica. I Papi possono essere più d'uno ma l'unione tra di loro è indispensabile»; egli promuove il Papa – «ho detto a Sua Santità qual era l'ammirazione per l'intera sua identificazione con tutte le religioni del mondo» – e sottolinea come «non s'era mai visto che la religiosità d'un Papa cattolico fosse estesa a tutte le religioni del mondo».
Siamo forse all'intercambiabilità delle religioni? All'idea secondo la quale la fede, come qualche teologo e qualche ‘progressista' ripetono, possa incarnarsi in qualsiasi cultura e debba adeguarsi alla storia nel suo divenire?
È chiaro come al vecchio fondatore di ‘Repubblica' sfugga quanto Francesco già gli aveva detto sempre in quella lettera del 2013: «la Chiesa non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù». A Scalfari – quando afferma che «Francesco sosteneva e sostiene che Dio è unico e non semplicemente cristiano. Dio è Dio e non ha alcuna assurda territorialità … Francesco su questo punto è rivoluzionario, c'è solo un Dio ma è dovunque il medesimo; c'è un solo Dio e una sola religione e questo è l'obiettivo di Francesco», trascinando così il Papa sul versante scivoloso di un ecumenismo oltre il cristianesimo – sfugge altresì che l'ecumenismo cristiano è una cosa e un'altra cosa è l'alleanza etica tra le diverse religioni, cristiane e non cristiane – già promossa dal primo Francesco e, di recente, da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Francesco come pure da Hans Küng – contro la possibilità di guerre di religione.
Una interpretazione come quella di Scalfari avrebbe comunque richiesto una precisazione da parte del Papa ma non c'è stata e – lo diciamo sommessamente – non si capisce perché, per riaffermare il grande principio cristiano della fratellanza, egli abbia dovuto sentirsi ispirato dal Grande Imam: il rischio è che tale interpretazione del pensiero del Papa passi per vera.
Nell'Enciclica, Papa Francesco affronta altri problemi e dice, ancora, che è stato sempre lo stesso Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb a ispirargli la considerazione che «gli sviluppi positivi della scienza, della tecnologia, della medicina, dell'industria e del benessere, soprattutto nei Paesi sviluppati, però si sono accompagnati a un deterioramento dell'etica, che condiziona l'agire internazionale, e a un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità ... in una situazione mondiale dominata dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi».
Nell'Enciclica si evidenzia dunque il «deterioramento morale» dell'Occidente. Una recente esternazione del Papa induce però a pensare che questa sia un'accusa all'Occidente come società capitalistica – e un'assoluzione per tutto il mondo che non è Occidente – più che all'etica individuale degli ‘occidentali'. Infatti, il Papa sembra quasi avallare il ‘relativismo etico' quando formula una variante del concetto di accoglienza ampliandolo alla legalizzazione delle coppie omosessuali che, avendo il desiderio di avere una famiglia propria, sarebbero titolari di un diritto alla famiglia, del diritto di sposarsi.
Quale famiglia? Quella intesa come luogo della trasmissione dei valori permanenti e assoluti che ci ha consegnato la tradizione o, piuttosto, quella che si vorrebbe far nascere dalla rivoluzione sessuale, cioè dalla ‘liberazione' delle cosiddette ‘preferenze sessuali', che una volta si osava chiamare ‘perversioni', da ogni vincolo morale?
Ma forse dovremmo fare qualche altro passo avanti: perché non riconoscere un tale diritto alla famiglia anche ai ‘bigami', ai ‘poligami' (la presenza di molti islamici nelle nostre comunità lo imporrebbe) e agli ‘adulteri' che, nel loro piccolo, coltivano il desiderio di una ‘famiglia' diversamente concepita? E forse, l'attuale Pontefice, assai fermo sul celibato ecclesiastico, non dovrebbe riconoscere il diritto alla famiglia anche ai preti?
Si tratta di leggi, convenzioni, costumi che, come si sa, variano di tempo in tempo e da luogo a luogo, e quindi possiamo cambiarli, in tutte le direzioni, anche in nome della ‘sessualizzazione dei costumi'.
Il padre gesuita Antonio Spadaro, direttore di ‘Civiltà cattolica', ha spiegato che «Papa Francesco parla di un diritto delle coppie omosessuali ma senza in nessun modo intaccare la dottrina» e che, sebbene «non intenda cambiare la dottrina, egli è nello stesso tempo molto aperto alle esigenze reali della vita concreta delle persone».
Una spiegazione piuttosto ‘gesuitica', forse un ballon d'essai prima di un documento ‘papale' ufficiale che, però, è rimbalzato perché quella apertura del Papa ha fatto sì che, da quel mondo, sorgesse la speranza e si levasse la richiesta che a quelle unioni si desse la forma di matrimonio religioso, come intendevano alcuni prelati e vescovi soprattutto tedeschi: una domanda che, alla fine, ha costretto l'ex Sant'Uffizio a negare che ciò possa avvenire e a precisare che «la Chiesa benedice il peccatore ma non il ‘peccato'».
Insomma, che il peccato sia benedetto solo dallo Stato!
Su tale questione è intervenuto ancora Scalfari che ci ha dato, sulle pagine di ‘Repubblica' del 23 ottobre scorso, una spiegazione significativa – per non dire preoccupante – affermando che Papa Francesco capisce la 'società moderna' e, quindi, «le si adatta anziché provare a spiegarle l'errore».
Per Scalfari, «un Papa come Francesco è un miracolo della storia». La storia fa miracoli? Certo che no; i miracoli li fa qualcun altro!
Tuttavia, egli non sbaglia attribuendo a Papa Francesco una inclinazione all'adattamento al nostro tempo, all'accettazione – sia pure in nome della carità (Forse ‘un progresso nella carità'?) e sia pure obtorto collo – di un pluralismo culturale che investe lo stesso campo morale, cioè di alcune mistificazioni operate dal libertarismo attivistico che ha fatto dell'omosessualità (come dell'aborto, dell'eutanasia, etc.) un indice del ‘progresso' in una società permissiva il cui approdo ultimo è l'agnosticismo se non l'ateismo. Non pensiamo che questa inclinazione sia la stessa di quella manifestata da molti cristiani – cattolici e non cattolici – che pensano di doversi adeguare al giudizio dei laici razionalisti, a fare propri luoghi alcuni comuni come «svolta irreversibile della storia», o idoli come «progresso », «modernità» e simili; ma dobbiamo notare che l'adattamento a queste esigenze della vita moderna contrasta con la preoccupazione che, da Giovanni XXIII a Benedetto XVI, si è fatta forte per la scristianizzazione dell'Occidente, manifestatasi in modo eclatante nell'abbandono dei valori morali, nel materialismo edonistico, nell'erotismo.
L'Enciclica ha dunque un versante politico, quello che fa dire ai cosiddetti ‘progressisti' che Francesco è uno di loro.
Dobbiamo dire però che le sagge parole di Papa Francesco perdono di autorità, di autorevolezza, quando, da principio ‘evangelico' o anche interreligioso, si fanno politica ponendosi perciò sul piano dell'opinabile e incappando nel dissenso ora di una parte ora dell'altra. Un dissenso che, da ultimo è stato manifestato da parte dei ‘progressisti', meravigliati di come questo Papa, dopo quell'acclamata sua apertura sui diritti degli omosessuali, abbia potuto permettere che il Vaticano consegnasse al nostro governo la nota di protesta che ha messo in rilievo il prevalente carattere di strumento di controllo culturale pro-omosessualità che il ddl Zan ha come chiaramente lascia intendere la norma pericolosa, per quanto abbastanza stravagante per non dire grottesca, che istituisce una ‘giornata nazionale' – come quella in ricordo dell'olocausto – contro l'omofobia intendendo però che sia una festa pro-omosessualità da celebrarsi nelle scuole (art. 7, comma 3).
La mia coscienza di liberale mi impone di dire che questa nota dello Stato vaticano è un'ingerenza nell'ordinato esercizio del potere legislativo dello stato italiano: anche se fosse fondata la denuncia di una presunta violazione delle norme concordatarie implicita nel ddl, pensiamo che il Vaticano dovrebbe e poterne chiedere conto solo dopo che il Parlamento avrà fatto in piena libertà le leggi che crede di dover fare! Libera Chiesa in Libero Stato. Ma, s'intende, Libera Chiesa e, anche, liberi tutti!
Con tutto il rispetto, la mia coscienza di liberale-cattolico mi impone però di consigliare al Papa di essere più cauto nelle sue ‘aperture' verso questi ‘progressisti' i quali le interpretano come un consenso sulla loro agenda, e, a chi non volesse piegarsi a questo nuovo pensiero sado-libertino-reichiano dominante, di prepararsi ad essere perseguito – se non discriminato o perseguitato – a causa delle proprie idee: si sarà infatti liberi di professarle «purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti», naturalmente a giudizio insindacabile del censore.
Non v'è dubbio che Papa Francesco abbia un forte spleen politico, un cupio dissolvi nella politica: come dice Vittorio Messori, «la Chiesa è oggi una succursale dell'ONU. Questa è riduzione al mondo ... Gesù non si occupò di politica ... Venne a schiuderci le porte del paradiso».
Del resto, non da ora la posizione di Bergoglio è minata dalla obliqua e ambigua inclinazione verso una teologia che, se non è quella della ‘liberazione', è quella del ‘popolo' – fondata sulla piuttosto ambigua distinzione fra ‘lotta di classe', al centro della teologia della liberazione, e lotta tra ‘popolo' e ‘anti-popolo' – in uno sforzo di ‘dis-occidentalizzazione' che va molto al di là delle giuste critiche che il Mondo Occidentale meriterebbe sul piano dell'etica individuale e di massa, prima che sul piano politico-economico.
È proprio da questa radice teologico-politico-culturale che nascono sia l'orientamento del Papa quando affronta il tema del populismo o quelli che egli chiama limiti delle visioni liberali, sia la grande contraddizione in cui cade questa Enciclica quando invoca il superamento delle ‘politiche sociali' «verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri … senza [i poveri] la democrazia si atrofizza … perde rappresentatività, perché lascia fuori il popolo nella sua lotta per la dignità»: parole affascinanti, che tutti sottoscrivemmo se non sottintendessero scelte politiche discutibili.
Distinguendo «leader popolari capaci di interpretare il sentire di un popolo … le grandi tendenze di una società … [da chi, invece] degenera in insano populismo … allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo … al servizio del proprio progetto personale di potere», il Papa propone una distinzione soggettiva e rischia di cadere lui stesso nell'insano populismo così giustamente osteggiato: e qui entra in gioco ‘la visione liberale' sulla quale il Papa esprime ‘riserve', non soltanto sugli aspetti economici.
Vi sono, nell'Enciclica problemi ‘politici' – dalla ‘cura del pianeta' alla ‘fame nel mondo' – sui quali meditare e trovare ispirazione: il Papa ci ricorda che la cura delle persone viene prima dell'economia e che, a fronte delle «forti crisi politiche, dell'ingiustizia e della mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali, … regna un silenzio internazionale inaccettabile».
Come non essere d'accordo con un tale alto principio e con quella che il Papa chiama ‘buona politica', una «delle forme più preziose della carità» al servizio del bene comune tutelando il lavoro, «dimensione irrinunciabile della vita sociale», assicurando a tutti lo sviluppo delle proprie capacità? Nel Discorso al consiglio per un capitalismo inclusivo, il Papa afferma che l'attività d'impresa «è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti … soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune» [ma non è un effetto naturale in ogni attività d'impresa?] e che, come disse Paolo VI, lo «sviluppo non può limitarsi alla sola crescita economica ma deve favorire la promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo».
Ora, per Francesco, «Neppure questo basta!»
Certo siamo d'accordo con il Papa quando dice che non si possono esaltare modelli economici che «concentrino il loro interesse immediato sui profitti e su politiche pubbliche che ignorano il proprio costo umano, sociale e ambientale»; siamo d'accordo quando spiega che l'aiuto migliore per un povero non è il sussidio bensì il lavoro, ma non possiamo nascondere anche che, su qualche punto, emerge il ‘populismo insano' ed è quello in cui si pospone l'economia al suo fine: la cura della persona. Detto con umiltà, la dottrina economica di Francesco scopre l'acqua calda: tutti vogliamo che l'umanità goda, a ogni latitudine, delle cure, dei mezzi e degli alimenti necessari alla vita; per raggiungere un tale obiettivo è però necessaria un'economia funzionante, sia pure soggetta a regole anti-sfruttamento, altrimenti, non essendo noi in grado di ‘moltiplicare i pani e i pesci', faremmo esattamente il male dell'umanità, condannandola, tutta, alla scarsità come farebbe la ‘decrescita felice'.
Se è vero che economia sana significa, come dice il Papa, molto più che far quadrare i bilanci, migliorare le infrastrutture, etc., è pure vero che essa non può fare a meno dell'equilibrio tra ‘produzione', ‘lavoro', consumi', ‘profitti', senza il quale non vi sarebbe attività economica né ‘cura della persona' o dell'ambiente. Sono concetti antichi, smithiani, da ‘ricchezza delle nazioni', che si sono sviluppati nella storia e che, con tutti gli errori e gl'inceppamenti che conosciamo, hanno consentito a fasce sempre più larghe della popolazione un relativo benessere, le quattro libertà di Roosevelt, il ‘welfare state' di Beveridge: un modello economico-sociale-politico che, seppure oggi necessiti degli aggiustamenti che il nostro tempo impone, non va rovesciato in nome di utopie.
E infatti, i giovani ‘economisti', riuniti dal Papa ad Assisi, non sono andati al di là delle petizioni di principio – «la disuguaglianza prevale su un'integrazione armoniosa di persone e nazioni. È necessario e urgente un sistema economico giusto, affidabile» – o dell'aspirazione a quell'economia della pace che dovrebbe fare a meno dell'industria ‘capitalistica' degli armamenti (forse senza toccare quella cinese o iraniana o quella rudimental-tecnologica dei vari terrorismi) mentre la politica economica attiva di cui essi parlano è, a dir poco, statalismo; né il problema dell'equità si risolve con la ‘decrescita felice' o con modelli politico-economici che si sono rivelati forse i più incapaci nel garantire la libertà e il benessere. Il Papa dovrebbe spiegare anche perché la «comunione dei beni non è ‘comunismo' ma cristianesimo» – concetto da lui espresso commentando un passo degli Atti degli Apostoli: tutti i credenti si spogliarono dei loro beni per «dare a ciascuno secondo il suo bisogno». Forse è un ‘cristianesimo comunista'?
Né l'accoglienza illimitata dei migranti – invocata nell'Enciclica – è veramente utile per il raggiungimento dell'alto scopo dell'accoglienza. Anche Bernard-Henri Lévy ci ha spiegato come, di fronte a quanto sta accadendo nell'isola greca di Lesbo – le honte de l'Europe – non vi sia che una soluzione: «chiudere il campo di Moria nel quale sono raccolti 19.000 migranti … e accoglierli in Europa». Si fa fatica a dar torto a Lévy quando, alla domanda cosa sono 20 mila anime da dividere tra 27 nazioni, risponde: «una goccia d'acqua nell'oceano della nostra prosperità». Si, ma intanto è un numero che cresce ogni giorno. La nostra prosperità? Quella che viene rimproverata all'Occidente da Levy e dal Papa? Si, è quella che oggi noi abbiamo, che ha permesso benessere e migliore qualità della vita ma che, come sappiamo, è soggetta alle crisi – una volta per Lehman Brothers, una volta per la pandemia, etc. – che tutti devono fronteggiare, anche i 500 milioni di europei che, oggi, a torto o a ragione, temono un destino uguale a quello dei migranti di Lesbo.
Gli irriducibili anti-occidentalisti (il Papa è forse tra questi?) auspicano l'accoglienza illimitata come nemesi e redenzione dalle colpe ‘imperialistiche' dell'Occidente. Il problema non si risolve punendo il deprecato Occidente capitalista bensì governando il processo migratorio per porre fine alle stragi dei migranti in mare – provocate dai trafficanti di esseri umani che ammassano centinaia di persone su barconi scassati – e anche per evitare che l'ondata migratoria precipiti tutta sulla nostra generazione e su pochi paesi. Una pressione migratoria insostenibile può scatenare un conflitto bellico internazionale e un conflitto interno, razziale e sociale: conflitti tutti da deprecare, da scongiurare e certo non basta che i calciatori s'inginocchino. Possiamo auspicare ma non imporre che i paesi in cui si riversano gli immigrati siano generosi.
Fonte: di GIUSEPPE BUTTA'