"GAZA E DINTORNI" di Paolo Bagnoli
25-10-2023 - EDITORIALE
L'animo del mondo è devastato dai fatti di Gaza. Nello strazio lacerante di questi giorni l'unica cosa certa è che lo Stato di Israele ha la piena legittimità della propria esistenza e pure la constatazione che, dalla sua nascita, non ha mai fatto guerra a nessuno dovendo sempre difendersi da quelle che gli hanno fatto.
Ciò non lo assolve dalle politiche sbagliate che la destra israeliana ha compiuto nei confronti della questione palestinese che, se le deliberazioni dell'ONU del 1948 fossero state applicate integralmente, non esisterebbe. Come sono andate le cose è noto. Se siamo arrivati a questo punto, pur essendo la questione palestinese una ferita aperta ciò non può essere una scusante per guardare solo all'altro corno del problema e non a quest'ultimo. Le questioni si sovrappongono; gli interrogativi si moltiplicano e alla maggior parte di essi non sembra esserci risposta. Tuttavia, crediamo che un'osservazione preliminare vada fatta registrando stupiti quante piazze si sono riempite nel mondo in sostegno di Hamas creando, almeno in chi scrive, un brivido esistenziale perché una cosa è manifestare il proprio convincimento, un'altra estremizzarlo in quanto ciò genera fanatismo. Genera emulazione; genera terrorismo; genera, come avvenuto in Francia, che l'incitazione a colpire mortalmente chi si ritiene infedele abbia subito corso. E' il richiamo all'armata della morte. Il richiamo generalizzato alla mobilitazione e al risveglio delle cellule in sonno fatto dalle centrali del terrorismo islamico ci dà la febbre esatta della situazione. L'Iran ha chiamato alla mobilitazione violenta contro Israele non solo il mondo arabo, ma semplicemente tutto il mondo.
Una forte motivazione per innestare una generalizzata crociata del terrore è, infatti, l'odio contro gli ebrei; l'antisemitismo quale bandiera unificante; far sì che esso diventi e si palesi come sentimento di massa. In questi giorni anche in America l'antisemitismo è sceso in piazza. Quanto da anni denunciamo, ossia la ripresa massiccia dell'odio contro gli ebrei quale minaccia che coinvolge tutto il mondo civile, si è manifestato. Un problema , questo, in cui non c'entra nulla né la questione palestinese, né i territori occupati, né la religione musulmana in sé e per sé; c'entra solo un atavico malato dato antropologico che simboleggia il proprio intendimento nella parola d'ordine della distruzione dello Stato d'Israele. Quasi tutte le tematiche che vi sono connesse sono strumentali e sapientemente usate a giustificazione di un disegno folle che rischia di travolgere la libertà degli uomini liberi e di coloro che vogliono esserlo. Con l'Isis e altre organizzazioni simili è nato un altro mondo; ora siamo a una fase cruenta dello scontro tra due mondi. E' il secondo tempo della lotta: quello che segue alla sconfitta dello Stato islamico che ora si ripropone dietro la causa palestinese. Essa ha motivi di sofferenza reale e, per questo, rappresenta, una leva credibile per far lievitare, in un'opinione pubblica internazionale che non è né araba né musulmana, un trattenuto e incomprensibile sentimento di preclusione, avversione e contrarietà verso il popolo ebraico. L'esternarsi di tale sentimento rappresenta un fattore fondamentale per isolare Israele e acquisire consenso alla propria azione e alle atrocità inumane che ha perpetrato contro gli israeliani entrando nella loro case. Quanto poi interessi ad Hamas la sorte dei palestinesi lo dimostra il fatto che sta facendo di tutto, compresa la creazione di ostacoli fisici, per impedire ai palestinesi di andare dal Nord al Sud della striscia dopo l'annuncio che Israele ha fatto prima dei bombardamenti della zona; un impedimento che altro non è se non la tenuta in ostaggio di una popolazione civile allo stremo per l'assenza di aiuti umanitari, meglio sarebbe dire vitali. Che non si facciano arrivare gli aiuti umanitari e si impedisca ai palestinesi di Gaza di mettersi in salvo favorisce in disegno islamista di cercare di limitare i bombardamenti di Israele soprattutto che vengano colpiti i tunnel della Gaza sotterranea, ma i bombardamenti su Gaza così come avvengono sono sempre meno comprensibili e non ci sembra che favoriscano l'apertura di qualche spiraglio positivo; anzi, oltre alle vittime civili che provocano, incrementano il calore della tensione che sembra essere alle soglie di un conflitto generalizzato nell'area che non si sa quali conseguenze potrebbe avere perché poi quanto potrebbe succedere tra l'Iran e gli Stati Uniti è difficilmente prevedibile.
Per vincere lo scontro con il mondo antioccidentale – esso, infatti, non appartiene alla categoria dello scontro di civiltà - occorre porre con forza la questione della lotta senza quartiere all'antisemitismo che porta con sé pure quella al fanatismo per cui, facendosi scudo della religione si colpiscono gli esseri umani del mondo avverso. Naturalmente, alla base di tutto, e del perché la guerra scoppi proprio in questo momento, esiste una regia politica primaria ispirata dai centri forti del fronte antisraeliano: vale a dire, Iran e Qatar. Si vuole, cioè, impedire che Israele, in procinto di firmare un accordo con i sauditi, stabilisca relazioni di pace con gli Stati islamici che lo circondano e tale disegno implica che la questione palestinese resti non solo aperta, ma si incrudisca sempre più. In tale contesto il Califfato rialza la testa, ma una sua ipotetica affermazione aprirebbe un conflitto anche nel mondo arabo perché diversi Stati ne verrebbero destabilizzati; insomma, si aprirebbe un inferno di immani proporzioni.
La politica vive di complessità: nella questione medio-orientale le complessità abbondano e non abbiamo nemmeno percezione di quante esse siano. Ora, fermo restando che il mondo degli uomini liberi deve partecipare all'organizzazione della risposta e non certo fare come gli USA dopo l'attacco alle torri gemelle con le guerre in Iraq e in Afghanistan e che Israele deve essere supportato sia nel non compiere sbagli nella risposta sia nel vedersi di nuovo esplicitamente riconfermata la legittimità di essere, vi sono alcune cose che non appartengono alla complessità, bensì alla mera constatazione dei fatti storici. E' troppo semplice ridurre la soluzione, come recentemente ha fatto Camillo Ruini – sinceramente, del suo punto di vista, di estremista di centro, non è che ne sentissimo proprio la necessità – invitando Europa e Usa a mettersi subito l'elmetto per salvaguardare l'Occidente. E' spirito di crociata. Forse Ruini ne è nostalgico; ora, ben consapevoli che Usa e Europa debbano fare massa critica a sostegno di Israele nel nome di una battaglia di libertà, quello cardinalizio è un ragionamento che invece di partire dall'inizio muove dalla fine; un ragionamento che salta a piè pari la questione dell'antisemitismo e quella di una soluzione per i palestinesi. Siamo convinti, infatti, che, se finalmente riuscissimo a risolvere le due questioni, il problema dello scontro tra i due mondi rimarrebbe in piedi, ma con un profilo della questione ben diverso.
La destra israeliana che Netanyahu ha ricompattato nel governo del proprio Paese è una brutta bestia, tanto brutta e pericolosa da mettere a rischio la natura di diritto dello Stato e, quindi, sbiancare la natura democratica dello Stato; sulle orme di Orbàn dar vita a una “democrazia illiberale”. Le ragioni egoistiche del potere favorite da un populismo ricco di motivi nonché di interessi ha condotto Netanyahu in un vicolo talmente cieco da mettere a rischio il proprio Paese e non solo. Il populismo, qualunque caratura abbia, conduce sempre in un vicolo cieco essendo a negazione della ragione politica.
La storia di Israele ci dice che non tutta la destra è populista. Nel 2005 un militare duro e bellicoso come Ariel Sharon, allora capo del governo, portò via Israele da Gaza usando l'esercito per sgombrare i coloni che non volevano andarsene. La scelta ebbe ripercussioni pesanti sulla politica israeliana. Non fu dovuta a unilaterale generosità, ma a senso politico poiché rimetteva all'Autorità Nazionale Palestinese l'occasione per ricongiungere politicamente – in linea con le decisioni dell'Onu del '48 – la striscia con la Cisgiordania. Allo sgombero, com'è noto, seguì una guerra civile tra Hamas e l'Anp erede di Arafat il quale, firmando gli accordi di Oslo del 1995, aveva riconosciuto il diritto all'esistenza di Israele. L''estremismo islamico, però, ebbe la meglio e Gaza divenne la base logistica del terrorismo antisraeliano. La domanda è retorica, ma forse conviene farsela ancora: come, dopo ciò, si può credere alla motivazione propalestinese per giustificare la macelleria di Hamas?
Sharon aveva capito quello che l'attuale premier sembra non aver capito iniziare a costruire uno Stato palestinese avrebbe costituito un motivo forte per la salvaguardia di Israele. Netanyahu, al contrario, ha lasciato respirare Hamas a pieni polmoni per impedire il rafforzarsi dell'Anp, tenerla a bada e dare il via libera agli insediamenti dei coloni.
Ecco il frutto della destra. La sinistra, premier Barak, cinque anni prima, dopo il faticoso negoziato di Camp David, aveva accettato la proposta di Clinton per la nascita di uno Stato palestinese sul 96% dei territori con Gerusalemme capitale di entrambi gli Stati. Se Arafat avesse accettato la proposta il problema sarebbe stato risolto una volta per sempre. Al no seguì la seconda intifada.
Israeliani e palestinesi sono due popoli che la storia ha incastrato l'uno nell'altro. La convivenza tra queste due realtà non può essere solo una questione di forza perché, prima o poi, anche questa si logora per fattori endogeni o esogeni e quando, come la vicenda di Gaza dimostra, anche una realtà piccola territorialmente, ma assai forte militarmente, finisce per subire scacchi che, per la delicatezza della situazione, si ripercuotono non solo all'interno di Israele coinvolgendo tutto il mondo ecco che, se non si può fare a meno dell'uso della forza non si può nemmeno fare a meno di quello della politica e della ragione che questa implica. Il compromesso si impone; piaccia o non piaccia, ma da esso non si può sfuggire se non si vuole marciare spediti verso la catastrofe.
In politica non esistono cose impossibili, quando lo diventano allora la guerra prende il sopravvento e cosa succede nessuno lo sa. Il mondo libero non ha solo il dovere di combattere Hamas e il terrorismo scita che fa fuoco dai confini del Libano, ma ha il dovere di unire nella risposta Israele e Autorità Nazionale Palestinese; la strada politica da perseguire ci sembra questa, per impedire che la caduta nel baratro di tutti venga evitata.
La complessità della politica richiede di uscire dalle impostazioni dualistico-binarie che sembrano avere oggi tutte le cose; richiede l'uso applicato della ragione e l'esercizio della critica; in fondo, prima che di interessi più o meno leciti, è un atto di volontà per continuare a vivere da uomini degni di appartenere al consorzio umano.
Ciò non lo assolve dalle politiche sbagliate che la destra israeliana ha compiuto nei confronti della questione palestinese che, se le deliberazioni dell'ONU del 1948 fossero state applicate integralmente, non esisterebbe. Come sono andate le cose è noto. Se siamo arrivati a questo punto, pur essendo la questione palestinese una ferita aperta ciò non può essere una scusante per guardare solo all'altro corno del problema e non a quest'ultimo. Le questioni si sovrappongono; gli interrogativi si moltiplicano e alla maggior parte di essi non sembra esserci risposta. Tuttavia, crediamo che un'osservazione preliminare vada fatta registrando stupiti quante piazze si sono riempite nel mondo in sostegno di Hamas creando, almeno in chi scrive, un brivido esistenziale perché una cosa è manifestare il proprio convincimento, un'altra estremizzarlo in quanto ciò genera fanatismo. Genera emulazione; genera terrorismo; genera, come avvenuto in Francia, che l'incitazione a colpire mortalmente chi si ritiene infedele abbia subito corso. E' il richiamo all'armata della morte. Il richiamo generalizzato alla mobilitazione e al risveglio delle cellule in sonno fatto dalle centrali del terrorismo islamico ci dà la febbre esatta della situazione. L'Iran ha chiamato alla mobilitazione violenta contro Israele non solo il mondo arabo, ma semplicemente tutto il mondo.
Una forte motivazione per innestare una generalizzata crociata del terrore è, infatti, l'odio contro gli ebrei; l'antisemitismo quale bandiera unificante; far sì che esso diventi e si palesi come sentimento di massa. In questi giorni anche in America l'antisemitismo è sceso in piazza. Quanto da anni denunciamo, ossia la ripresa massiccia dell'odio contro gli ebrei quale minaccia che coinvolge tutto il mondo civile, si è manifestato. Un problema , questo, in cui non c'entra nulla né la questione palestinese, né i territori occupati, né la religione musulmana in sé e per sé; c'entra solo un atavico malato dato antropologico che simboleggia il proprio intendimento nella parola d'ordine della distruzione dello Stato d'Israele. Quasi tutte le tematiche che vi sono connesse sono strumentali e sapientemente usate a giustificazione di un disegno folle che rischia di travolgere la libertà degli uomini liberi e di coloro che vogliono esserlo. Con l'Isis e altre organizzazioni simili è nato un altro mondo; ora siamo a una fase cruenta dello scontro tra due mondi. E' il secondo tempo della lotta: quello che segue alla sconfitta dello Stato islamico che ora si ripropone dietro la causa palestinese. Essa ha motivi di sofferenza reale e, per questo, rappresenta, una leva credibile per far lievitare, in un'opinione pubblica internazionale che non è né araba né musulmana, un trattenuto e incomprensibile sentimento di preclusione, avversione e contrarietà verso il popolo ebraico. L'esternarsi di tale sentimento rappresenta un fattore fondamentale per isolare Israele e acquisire consenso alla propria azione e alle atrocità inumane che ha perpetrato contro gli israeliani entrando nella loro case. Quanto poi interessi ad Hamas la sorte dei palestinesi lo dimostra il fatto che sta facendo di tutto, compresa la creazione di ostacoli fisici, per impedire ai palestinesi di andare dal Nord al Sud della striscia dopo l'annuncio che Israele ha fatto prima dei bombardamenti della zona; un impedimento che altro non è se non la tenuta in ostaggio di una popolazione civile allo stremo per l'assenza di aiuti umanitari, meglio sarebbe dire vitali. Che non si facciano arrivare gli aiuti umanitari e si impedisca ai palestinesi di Gaza di mettersi in salvo favorisce in disegno islamista di cercare di limitare i bombardamenti di Israele soprattutto che vengano colpiti i tunnel della Gaza sotterranea, ma i bombardamenti su Gaza così come avvengono sono sempre meno comprensibili e non ci sembra che favoriscano l'apertura di qualche spiraglio positivo; anzi, oltre alle vittime civili che provocano, incrementano il calore della tensione che sembra essere alle soglie di un conflitto generalizzato nell'area che non si sa quali conseguenze potrebbe avere perché poi quanto potrebbe succedere tra l'Iran e gli Stati Uniti è difficilmente prevedibile.
Per vincere lo scontro con il mondo antioccidentale – esso, infatti, non appartiene alla categoria dello scontro di civiltà - occorre porre con forza la questione della lotta senza quartiere all'antisemitismo che porta con sé pure quella al fanatismo per cui, facendosi scudo della religione si colpiscono gli esseri umani del mondo avverso. Naturalmente, alla base di tutto, e del perché la guerra scoppi proprio in questo momento, esiste una regia politica primaria ispirata dai centri forti del fronte antisraeliano: vale a dire, Iran e Qatar. Si vuole, cioè, impedire che Israele, in procinto di firmare un accordo con i sauditi, stabilisca relazioni di pace con gli Stati islamici che lo circondano e tale disegno implica che la questione palestinese resti non solo aperta, ma si incrudisca sempre più. In tale contesto il Califfato rialza la testa, ma una sua ipotetica affermazione aprirebbe un conflitto anche nel mondo arabo perché diversi Stati ne verrebbero destabilizzati; insomma, si aprirebbe un inferno di immani proporzioni.
La politica vive di complessità: nella questione medio-orientale le complessità abbondano e non abbiamo nemmeno percezione di quante esse siano. Ora, fermo restando che il mondo degli uomini liberi deve partecipare all'organizzazione della risposta e non certo fare come gli USA dopo l'attacco alle torri gemelle con le guerre in Iraq e in Afghanistan e che Israele deve essere supportato sia nel non compiere sbagli nella risposta sia nel vedersi di nuovo esplicitamente riconfermata la legittimità di essere, vi sono alcune cose che non appartengono alla complessità, bensì alla mera constatazione dei fatti storici. E' troppo semplice ridurre la soluzione, come recentemente ha fatto Camillo Ruini – sinceramente, del suo punto di vista, di estremista di centro, non è che ne sentissimo proprio la necessità – invitando Europa e Usa a mettersi subito l'elmetto per salvaguardare l'Occidente. E' spirito di crociata. Forse Ruini ne è nostalgico; ora, ben consapevoli che Usa e Europa debbano fare massa critica a sostegno di Israele nel nome di una battaglia di libertà, quello cardinalizio è un ragionamento che invece di partire dall'inizio muove dalla fine; un ragionamento che salta a piè pari la questione dell'antisemitismo e quella di una soluzione per i palestinesi. Siamo convinti, infatti, che, se finalmente riuscissimo a risolvere le due questioni, il problema dello scontro tra i due mondi rimarrebbe in piedi, ma con un profilo della questione ben diverso.
La destra israeliana che Netanyahu ha ricompattato nel governo del proprio Paese è una brutta bestia, tanto brutta e pericolosa da mettere a rischio la natura di diritto dello Stato e, quindi, sbiancare la natura democratica dello Stato; sulle orme di Orbàn dar vita a una “democrazia illiberale”. Le ragioni egoistiche del potere favorite da un populismo ricco di motivi nonché di interessi ha condotto Netanyahu in un vicolo talmente cieco da mettere a rischio il proprio Paese e non solo. Il populismo, qualunque caratura abbia, conduce sempre in un vicolo cieco essendo a negazione della ragione politica.
La storia di Israele ci dice che non tutta la destra è populista. Nel 2005 un militare duro e bellicoso come Ariel Sharon, allora capo del governo, portò via Israele da Gaza usando l'esercito per sgombrare i coloni che non volevano andarsene. La scelta ebbe ripercussioni pesanti sulla politica israeliana. Non fu dovuta a unilaterale generosità, ma a senso politico poiché rimetteva all'Autorità Nazionale Palestinese l'occasione per ricongiungere politicamente – in linea con le decisioni dell'Onu del '48 – la striscia con la Cisgiordania. Allo sgombero, com'è noto, seguì una guerra civile tra Hamas e l'Anp erede di Arafat il quale, firmando gli accordi di Oslo del 1995, aveva riconosciuto il diritto all'esistenza di Israele. L''estremismo islamico, però, ebbe la meglio e Gaza divenne la base logistica del terrorismo antisraeliano. La domanda è retorica, ma forse conviene farsela ancora: come, dopo ciò, si può credere alla motivazione propalestinese per giustificare la macelleria di Hamas?
Sharon aveva capito quello che l'attuale premier sembra non aver capito iniziare a costruire uno Stato palestinese avrebbe costituito un motivo forte per la salvaguardia di Israele. Netanyahu, al contrario, ha lasciato respirare Hamas a pieni polmoni per impedire il rafforzarsi dell'Anp, tenerla a bada e dare il via libera agli insediamenti dei coloni.
Ecco il frutto della destra. La sinistra, premier Barak, cinque anni prima, dopo il faticoso negoziato di Camp David, aveva accettato la proposta di Clinton per la nascita di uno Stato palestinese sul 96% dei territori con Gerusalemme capitale di entrambi gli Stati. Se Arafat avesse accettato la proposta il problema sarebbe stato risolto una volta per sempre. Al no seguì la seconda intifada.
Israeliani e palestinesi sono due popoli che la storia ha incastrato l'uno nell'altro. La convivenza tra queste due realtà non può essere solo una questione di forza perché, prima o poi, anche questa si logora per fattori endogeni o esogeni e quando, come la vicenda di Gaza dimostra, anche una realtà piccola territorialmente, ma assai forte militarmente, finisce per subire scacchi che, per la delicatezza della situazione, si ripercuotono non solo all'interno di Israele coinvolgendo tutto il mondo ecco che, se non si può fare a meno dell'uso della forza non si può nemmeno fare a meno di quello della politica e della ragione che questa implica. Il compromesso si impone; piaccia o non piaccia, ma da esso non si può sfuggire se non si vuole marciare spediti verso la catastrofe.
In politica non esistono cose impossibili, quando lo diventano allora la guerra prende il sopravvento e cosa succede nessuno lo sa. Il mondo libero non ha solo il dovere di combattere Hamas e il terrorismo scita che fa fuoco dai confini del Libano, ma ha il dovere di unire nella risposta Israele e Autorità Nazionale Palestinese; la strada politica da perseguire ci sembra questa, per impedire che la caduta nel baratro di tutti venga evitata.
La complessità della politica richiede di uscire dalle impostazioni dualistico-binarie che sembrano avere oggi tutte le cose; richiede l'uso applicato della ragione e l'esercizio della critica; in fondo, prima che di interessi più o meno leciti, è un atto di volontà per continuare a vivere da uomini degni di appartenere al consorzio umano.