"I ‘SUDETI’ DI PUTIN"
21-03-2022 - DIARIO POLITICO di Giuseppe Butta'
Spero che gli storici non debbano parlare della crisi ucraina come noi abbiamo dovuto fare dell’appeasement di Monaco. La brutale invasione russa dell’Ucraina mette in pericolo la pace nel mondo mentre sta calando in Europa una nuova cortina di ferro.
Le radici storiche della crisi attuale pescano nel profondo della storia russa ed ucraina ma si sono anche nutrite nell’humus di una serie di errori strategici commessi dagli Stati Uniti e da molti paesi dell’UE nella valutazione dei disegni politici di Putin a partire dalla annessione della Crimea alla Russia: pare infatti che Putin ora si attendesse lo stesso silenzio di Obama che – quando otto anni fa la Russia strappò la Crimea all’Ucraina e quando prima, con una violenza inusitata, aveva scippato l’Ossezia e l’Abkhazia alla Georgia – si limitò, insieme agli alleati, a deliberare solo qualche modesta sanzione.
Viene il sospetto perciò che questa sia una guerra ad orologeria, scatenata nel momento della massima debolezza dell’Occidente causata da una pandemia partita dalla Cina. Per comprovare un tale sospetto, basta ricordare che l’URSS si muoveva solo quando l’Occidente era in crisi e diviso o per l’affare di Suez (Budapest) o per la guerra in Vietnam (Praga), mentre lasciò fare alla Polonia di Solidarność perché era impantanata in Afghanistan e si trovava di fronte a Woiltyla e a Reagan.
La Russia, agitando ancora una volta la mistificatoria sindrome dell’accerchiamento, si dice minacciata da una eventuale adesione dell’Ucraina alla NATO.
Le reali intenzioni di Putin sono assai chiare nelle lucide farneticazioni del suo discorso notturno del 24 febbraio in cui egli si faceva addirittura forte dell’art. 51 della Carta dell’ONU – che regola la ‘legittima difesa preventiva’ – per giustificare l’attacco e per dire che non si tratta di guerra ma solo di una ‘operazione militare speciale’, di peace enforcing, in aiuto delle repubbliche del Donbass. Gli ha fatto seguito il ministro degli esteri russo, Lavrov, che ha giustificato l'azione militare contro l’Ucraina come un'offensiva su larga scala necessaria a prevenire una guerra mondiale che sarebbe scoppiata se l’Ucraina fosse entrata nella NATO. Che cosa farà, per perseguire lo stesso scopo pacifico, visto che ora ha posto lo stesso veto anche contro a Svezia e Finlandia?
Ma se questo timore dell’accerchiamento potrebbe essere giustificato, certo non può esserlo l’aggressione preventiva a uno stato indipendente: è chiaro che questa concezione della sicurezza della Russia è a scapito della sicurezza degli altri. Anziché perseguire una pacifica politica di riassicurazione, Putin ha progressivamente accentuato la pressione bellica nel Donbass spacciando come manovre di esercitazione il concentramento di truppe che hanno circondato l’Ucraina qualche mese prima dell’aggressione. Firmando il decreto di riconoscimento delle repubbliche separatiste in diretta televisiva, egli ha accusato il governo ucraino di aver violato gli accordi di Minsk per porre fine la guerra con i filorussi del Donbass – in realtà mai rispettati da nessuno, a cominciare dalla Russia che, dal 2014, ha continuato ad armare e finanziare gl’indipendentisti del Donbass – e ha detto che, essendo l’Ucraina «parte integrante della storia russa», egli ha dovuto accorrere per proteggere le popolazioni russe del Donbass contro i ‘nazisti’ ucraini. Dopo 22 giorni di guerra, Putin si è presentato in uno stadio stracolmo, in una adunata oceanica stile Pyongyang, nell’anniversario dell’annessione della Crimea, ad accusare l’Ucraina di genocidio delle genti ‘russe’ del Donbass ed esaltando, nel contempo, la gloriosa federazione russa capace di tenere in sé le nazionalità più diverse.
Nel discorso – molto simile a quello del lupo all’agnello – che il satrapo russo ha fatto la sera prima dell’entrata delle truppe russe in Ucraina (naturalmente allo scopo di mantenere la pace), abbiamo potuto cogliere tutte le sfumature della violenza, della mistificazione della storia, della ὕβϱις.
L’altro obiettivo, quello di denazificare l’Ucraina, è quello solito usato dall’aggressore che si nasconde dietro lo spauracchio del nazismo e del fascismo.
Ma questa non è soltanto una delle tante falsificazioni cui siamo abituati anche nella nostra politica interna; questa denazificazione putiniana sembra essere qualcosa di più: tutti si chiedono cosa significhi la Z con cui sono sinistramente contrassegnati i carri armati russi. Non c’è nessun mistero, significa obiettivo Zelensky.
Una volta che i russi avranno preso Kiev, vedremo in azione il boia e i gulag saranno riaperti, se già non lo sono. Oggi infatti Putin affida la presa delle città ucraine – Kiev, Odessa, Mariupol, Kharkiv – già martoriate dai bombardamenti, alla ferocia terroristica di mercenari siriani, centro-africani e ceceni con un triplice scopo: 1) sfregiare il volto dell’Ucraina con una violenza incontrollata; 2) approntare un camouflage per nascondere al suo fronte interno la verità sanguinaria della pur impari lotta con gli ucraini, mandando al massacro questi scherani anziché i soldati russi; 3) lasciare all’Europa un’eredità di qualche migliaio di terroristi bene addestrati.
In queste ultimi giorni abbiamo pure sentito un programma agghiacciante riassunto in queste eleganti parole pronunziate da Dmitry Peskov, il portavoce di Putin: «L'operazione in Ucraina porterà alla luce i "traditori" all'interno della Russia. Il popolo russo sarà in grado di distinguere i veri patrioti dalla feccia e dai traditori … In queste situazioni, molte persone si mostrano come traditori … Svaniscono dalle nostre vite da soli. Alcuni lasciano i loro posti, altri lasciano il Paese. È così che sta avvenendo la purificazione».
A proposito: dov’è finito Navalny? Il 25 gennaio scorso l’oppositore di Putin è stato dichiarato ‘terrorista’; ma ora egli ha avuto ora il coraggio di fare uscire dalle sue prigioni un appello ai Russi perché si oppongano alla guerra in Ucraina. Sarà lasciato ancora in vita?
Sovviene qualche ‘soluzione finale’ tra staliniana e hitleriana.
Parole, atteggiamenti, menzogne, facce inquietanti che ricordano molto quelli tracotanti della vecchia nomenklatura dei comunisti sovietici.
Il mattino dopo l’invasione, abbiamo appreso che la reazione immediata all’aggressione russa è stata quella delle sanzioni americane.
Quella dei paesi dell’UE si è avuta solo qualche giorno dopo. Non ci avrebbe meravigliato se essi, anche in questa occasione, fossero andati in ordine sparso e, forse, Putin ci contava. Invece dobbiamo compiacerci del fatto che l’Unione Europea – fino allo scoppio della crisi, impreparata e paralizzata dalla sua dipendenza dalle forniture energetiche russe – ha reagito unitariamente anche sotto la pressione delle minacce atomiche di Putin. Ma vi è ancora qualche differenza nei toni e negli atteggiamenti sia tra i governi dell’UE che tra i leader politici: Lituania, Estonia e Lettonia, temendo di essere il prossimo obiettivo dei russi, chiedevano coraggiosamente sanzioni più dure contro Mosca senza attendere "ulteriori aggressioni" – «non dobbiamo aspettare nessun attacco, perché l’Ucraina è già sotto attacco» – ma gli altri, ritenendo accettabile se Putin si fermasse all'annessione di Donetsk e Lugansk, ponevano il dubbio amletico: SWIFT o no?
Purtroppo, qualche giorno dopo, abbiamo dovuto sentire Biden annunziare il blocco delle importazioni di gas e petrolio dalla Russia negli Stati Uniti e che, avendo proposto agli alleati europei di unirsi nell’applicazione di questa misura, aveva ricevuto una risposta negativa, seppur comprensibile: l’Alto Rappresentante dell’UE ha detto infatti di non potere essere della partita per le note ragioni di dipendenza dal gas e dal petrolio della Russia, offrendosi così al ricatto. Non ci meraviglia che ora Putin, soprattutto nell’intento di mettere un cuneo tra gli Stati Uniti e l’Europa, intimi, per prima all’Italia, di ritirare le sanzioni se vorrà avere ancora il suo gas.
Sorge il dubbio che gli europei vogliano come al solito lasciare tutto il peso sugli Stati Uniti; la Gran Bretagna è stata l’unica potenza Occidentale ad essere d’accordo con il progressivo aggravamento delle sanzioni alla Russia – blocco delle importazioni di petrolio, revoca della clausola della nazione più favorita – deliberate dagli Stati Uniti: forse avremo una nuova ‘Carta Atlantica’.
La storia dei rapporti euro-americani è segnata dal perdurante sottrarsi degli europei agli oneri finanziari ma anche militari e strategici della NATO; una storia punteggiata di antiamericanismo di cui l’Italia non ha difettato – a partire da quello, ammantato di falso pacifismo, del filosovietico PCI – e poi dai conati di Francia e Germania che, per perseguire interessi temporanei e non strategici e nella illusione che, egemoni in Europa, potessero contare qualcosa, cercavano un filo diretto con Russia e Cina: Chirac, per esempio, poneva USA e Cina sullo stesso piano pensando a una Unione Europea, guidata da Francia e Germania, che usasse Mosca o Pechino contro Washington.
La Russia non sembra minimamente intimorita da queste sanzioni; del resto, molti anni fa, qualcuno meno potente di Putin si faceva beffa delle inique sanzioni. Lo dice chiaro e tondo il ministro degli esteri russo, Lavrov: «Ci minacciano con ogni sorta di sanzioni o, come si dice ora, con 'la madre di tutte le sanzioni’. Beh, ci siamo abituati». L’ex-presidente russo Medvedev – la famosa controfigura di Putin, ora degradato a vicepresidente del Consiglio di sicurezza – annuncia la vendetta immediata: «nazionalizzeremo proprietà e imprese di cittadini americani, europei o del mondo anglosassone».
È vero; Putin può infischiarsene dei sacrifici cui sarà costretto il suo popolo, educato a sopportarli da 70 anni di comunismo e da 20 di putinismo. C’è quindi da dubitare che – se le sanzioni non saranno adeguate, e non lo saranno perché già si sentono allarmi per i costi da sopportare – siano sufficienti a fermare il programma di restaurazione imperiale che Putin persegue con l’annessione di tutti i territori russofoni, ovunque si trovino, con le sue ambigue relazioni con l’Iran, con gli arsenali atomici installati in Siria – dove finalmente, dopo 150 anni, ha trovato basi per le sue flotte nel Mediterraneo grazie alla fuga di Obama da questo nodo strategico dell’equilibrio mondiale – e con la presenza in Libia.
Le ‘anime belle’, dicendosi preoccupate per le vite degli ucraini, chiedono di non rifornirli di armi. In nome della pace, qualche politologo illustre sostiene che sarebbe stato meglio per tutti che l’Ucraina non opponesse alcuna resistenza e qualche giornalista di grido si chiede se l’Occidente sia «prigioniero dell’eroismo di Volodymyr Zelensky e degli ucraini».
Non c’è bisogno di questi pseudo-Ghandi per sapere che fornire di armi una delle parti in lotta espone a molti rischi sia i fornitori che i rifornti: già se ne sono avute le prime avvisaglie con il siluramento della nave panamense nel Mar Nero o con il bombardamento del deposito di armi nelle vicinanze di Leopoli.
Ma lasciare disarmato chi viene aggredito e vuole difendersi non porta alla pace, porta alla sopraffazione degl’inermi: porgere l’altra guancia non sempre convince l’aggressore a rinunciare alla violenza senza prima avere raggiunto i suoi scopi.
Ci eravamo illusi che l’ONU potesse essere diversa dalla Società delle Nazioni. Rassegniamoci.
L’ONU purtroppo ha un ruolo molto marginale se non inesistente: dopo la riunione del Consiglio di sicurezza, andata a vuoto per l’immancabile veto della Russia, il Segretario generale dell’ONU non si è mosso di casa, si è limitato a recitare una preghiera: «In nome dell’umanità, riporta le tue truppe in Russia … non permettere di iniziare in Europa quella che potrebbe essere la peggiore guerra dall’inizio del secolo».
L’Assemblea generale dell’ONU non poteva fare più che approvare – con le molto significative astensioni di Cina, India, Pakistan, Algeria, Cuba, etc. – una simbolica risoluzione di condanna dell’aggressione. Sappiamo bene che l’ONU ha le mani legate, che non può imporre il ‘cessate il fuoco’ né ordinare operazioni di peace keeping e, tantomeno, di peace enforcing per fermare la guerra in Ucraina; non ne ha il potere: i russi non glielo permetterebbero. Tuttavia l’ONU avrebbe potuto tentare di gestire il negoziato invece di lasciare gli ucraini all’umiliazione di dovere andare da Lukashenko; avrebbe potuto inviare gli osservatori della sua onnipresente – ma non in Ucraina – UNHCR per impedire la velenosa tattica putiniana di concedere cosiddetti corridoi umanitari che porterebbero i profughi ucraini dritti dritti nei gulag russi: corridoi di deportazione.
L’Ucraina, disposta ad accettare la neutralità sotto garanzia internazionale, chiede giustamente che venga rispettata la sua integrità territoriale. Putin invece alza la posta ogni volta che si riaprono le defatiganti trattative con l’Ucraina che spesso si risolvono, come ad Antalya, in una penosa propaganda. Secondo la bozza di accordo pubblicata dal ‘Financial Times’, egli mira non solo all’annessione del Donbass e del territorio che lo collega alla Crimea e fino ad Odessa ma anche a mettere sotto il suo controllo quel che resterà dell’Ucraina dopo il suo smembramento, se non con un vero e proprio anschluss, con l’instaurazione di qualche quisling che porterà a compimento il suo disegno.
Questo sarebbe il primo passo verso quel Lebensraum di venerata memoria – l’Ucraina e il Caucaso erano nel mirino di Hitler 80 anni fa come oggi lo sono in quello di Putin – che la Russia intende assicurarsi con la finlandizzazione di una lunga fascia che va dalla Scandinavia alla Bulgaria e, perché no, agli stati della ex-Jugoslavia in una logica tra panslavista e sovietica. A prescindere dallo scontro di civiltà che qualcuno vede profilarsi dietro questa guerra e che è pure possibile – per semplificare: democrazia v. autocrazia, ma vi sarebbe dell’altro – non v’è dubbio che essa mette in causa l’equilibrio mondiale. Possiamo chiudere gli occhi?
Putin ha messo in stato di massimo allerta il sistema di deterrenza nucleare e Lavrov ha ordinato agli USA di rimuovere le armi atomiche dall’Europa mentre la Russia, forte di un plebiscito farsa fatto in due giorni da Lukashenko, ne colloca di nuove in Bielorussia; in un crescendo di intimidazioni, i russi hanno cominciato a lanciare i nuovi missili ‘ipersonici’ armandoli ora solo di una testata convenzionale e sottintendendo che potrebbe essere atomica. Il ricatto nucleare non è stato fatto a caso serve a Putin per estendere gli effetti intimidatori dell’invasione dell’Ucraina a tutti gli stati dell’ex URSS se non per ottenerne un controllo diretto: una nuova Yalta.
Dobbiamo chiederci dunque se, per fermare la guerra in Ucraina o almeno per impedirne l’allargamento, basti l’aiuto che stiamo dando ai combattenti e al popolo ucraini con l’invio di armi, equipaggiamenti e viveri, o il segnale, poco più che simbolico, dell’invio di qualche aereo e di qualche migliaio di soldati NATO in Polonia, Lituania, Romania.
Speriamo di si. Comunque, meglio di niente.
Fino a che punto possiamo fidarci della Cina, da molti invocata come possibile pacificatrice, ora che accusa la NATO e gli USA di avere provocato la guerra e ora che riceve richieste di aiuto dalla Russia? Temiamo che, se anche Xi Jinping fosse convinto, come Putin, che l’Occidente è diviso e impotente, vedremmo Russia e Cina schierati sullo stesso fronte – forse a ruoli invertiti: subordinato quello della Russia e egemone quello della Cina – o, comunque, vedremmo la Cina sedersi sulla riva del fiume ad aspettare che passi il cadavere degli Stati Uniti o della Russia o, preferibilmente, di entrambi: allora si potrebbe infrangere la speranza che la Cina ricordi che il suo nemico storico è stato l’imperialismo (russo ed europeo) e possa tornare a quella intesa con gli Stati Uniti degl’inizi del ‘900 prima contro l’invasione russa della Manciuria e, poi, contro l’imperialismo giapponese: che ricordi, insomma, che le ‘vie della seta’ sono più convenienti della via delle armi.
Macron e Scholtz, dopo aver telefonato a Putin, ci hanno fatto sapere che questi non intende dare tregua né, tantomeno, fermarsi. «La via del dialogo con la Russia resta essenziale», ha detto il presidente Draghi.
Bene.
Nessuno può volere la guerra. Tuttavia, per sviluppare con la Russia un dialogo utile sull’Ucraina, dovremmo decidere anzitutto quali costi intendiamo sopportare e avere una visione chiara del limite insuperabile delle concessioni che è possibile fare senza mettere in pericolo la nostra sicurezza; dovremmo porre termine alle fratture che impediscono l’unità dell’Occidente, a cominciare dalla dipendenza dell’UE dalle velleità dei singoli stati e dalle importazioni di gas, petrolio e altre importanti materie prime russi e dei prodotti cinesi in settori strategici; ma non sarà facile né rapido. Dovremmo rinunciare finalmente ai vantaggi – che oggi si rivelano effimeri o controproducenti – delle aperture commerciali, scientifiche e politiche, quasi a senso unico, che hanno permesso ai nostri avversari avanzamenti decisivi: la Stazione spaziale ‘internazionale’ condivisa da americani, giapponesi, europei, canadesi e russi, ora è divenuta un’arma nelle mani dei russi che minacciano di lasciarla cadere su New York o Londra o Roma; forse, come invocano molte voci, si dovrebbero ripensare le modalità della globalizzazione, le cui implicazioni oggi non riusciamo a percepire per intero e a governare, in modo che si riesca a rendere l’interdipendenza tra le varie parti del mondo una garanzia anziché un pericolo.
Finita la guerra, purtroppo con una prevedibile occupazione russa dell’Ucraina, per mantenere la pace bisognerà far comprendere ai russi che questa sarà stata una vittoria di Pirro; che, con l’imperialismo, essi hanno molto meno da guadagnare di quanto fino ad oggi gli hanno assicurato i ricchi rapporti economici, scientifici e politici con l’Occidente.
Servirà soprattutto mostrarsi risoluti a difendersi e a difendere gli aggrediti, anche se non formalmente alleati. Dobbiamo dunque essere pronti a ogni sacrificio e sperare che non ci sia tra noi un nuovo Chamberlain perché, qualora la Russia si sentisse incoraggiata a non fermarsi, potremmo essere trascinati in una guerra devastante.
Le radici storiche della crisi attuale pescano nel profondo della storia russa ed ucraina ma si sono anche nutrite nell’humus di una serie di errori strategici commessi dagli Stati Uniti e da molti paesi dell’UE nella valutazione dei disegni politici di Putin a partire dalla annessione della Crimea alla Russia: pare infatti che Putin ora si attendesse lo stesso silenzio di Obama che – quando otto anni fa la Russia strappò la Crimea all’Ucraina e quando prima, con una violenza inusitata, aveva scippato l’Ossezia e l’Abkhazia alla Georgia – si limitò, insieme agli alleati, a deliberare solo qualche modesta sanzione.
Viene il sospetto perciò che questa sia una guerra ad orologeria, scatenata nel momento della massima debolezza dell’Occidente causata da una pandemia partita dalla Cina. Per comprovare un tale sospetto, basta ricordare che l’URSS si muoveva solo quando l’Occidente era in crisi e diviso o per l’affare di Suez (Budapest) o per la guerra in Vietnam (Praga), mentre lasciò fare alla Polonia di Solidarność perché era impantanata in Afghanistan e si trovava di fronte a Woiltyla e a Reagan.
La Russia, agitando ancora una volta la mistificatoria sindrome dell’accerchiamento, si dice minacciata da una eventuale adesione dell’Ucraina alla NATO.
Le reali intenzioni di Putin sono assai chiare nelle lucide farneticazioni del suo discorso notturno del 24 febbraio in cui egli si faceva addirittura forte dell’art. 51 della Carta dell’ONU – che regola la ‘legittima difesa preventiva’ – per giustificare l’attacco e per dire che non si tratta di guerra ma solo di una ‘operazione militare speciale’, di peace enforcing, in aiuto delle repubbliche del Donbass. Gli ha fatto seguito il ministro degli esteri russo, Lavrov, che ha giustificato l'azione militare contro l’Ucraina come un'offensiva su larga scala necessaria a prevenire una guerra mondiale che sarebbe scoppiata se l’Ucraina fosse entrata nella NATO. Che cosa farà, per perseguire lo stesso scopo pacifico, visto che ora ha posto lo stesso veto anche contro a Svezia e Finlandia?
Ma se questo timore dell’accerchiamento potrebbe essere giustificato, certo non può esserlo l’aggressione preventiva a uno stato indipendente: è chiaro che questa concezione della sicurezza della Russia è a scapito della sicurezza degli altri. Anziché perseguire una pacifica politica di riassicurazione, Putin ha progressivamente accentuato la pressione bellica nel Donbass spacciando come manovre di esercitazione il concentramento di truppe che hanno circondato l’Ucraina qualche mese prima dell’aggressione. Firmando il decreto di riconoscimento delle repubbliche separatiste in diretta televisiva, egli ha accusato il governo ucraino di aver violato gli accordi di Minsk per porre fine la guerra con i filorussi del Donbass – in realtà mai rispettati da nessuno, a cominciare dalla Russia che, dal 2014, ha continuato ad armare e finanziare gl’indipendentisti del Donbass – e ha detto che, essendo l’Ucraina «parte integrante della storia russa», egli ha dovuto accorrere per proteggere le popolazioni russe del Donbass contro i ‘nazisti’ ucraini. Dopo 22 giorni di guerra, Putin si è presentato in uno stadio stracolmo, in una adunata oceanica stile Pyongyang, nell’anniversario dell’annessione della Crimea, ad accusare l’Ucraina di genocidio delle genti ‘russe’ del Donbass ed esaltando, nel contempo, la gloriosa federazione russa capace di tenere in sé le nazionalità più diverse.
Nel discorso – molto simile a quello del lupo all’agnello – che il satrapo russo ha fatto la sera prima dell’entrata delle truppe russe in Ucraina (naturalmente allo scopo di mantenere la pace), abbiamo potuto cogliere tutte le sfumature della violenza, della mistificazione della storia, della ὕβϱις.
L’altro obiettivo, quello di denazificare l’Ucraina, è quello solito usato dall’aggressore che si nasconde dietro lo spauracchio del nazismo e del fascismo.
Ma questa non è soltanto una delle tante falsificazioni cui siamo abituati anche nella nostra politica interna; questa denazificazione putiniana sembra essere qualcosa di più: tutti si chiedono cosa significhi la Z con cui sono sinistramente contrassegnati i carri armati russi. Non c’è nessun mistero, significa obiettivo Zelensky.
Una volta che i russi avranno preso Kiev, vedremo in azione il boia e i gulag saranno riaperti, se già non lo sono. Oggi infatti Putin affida la presa delle città ucraine – Kiev, Odessa, Mariupol, Kharkiv – già martoriate dai bombardamenti, alla ferocia terroristica di mercenari siriani, centro-africani e ceceni con un triplice scopo: 1) sfregiare il volto dell’Ucraina con una violenza incontrollata; 2) approntare un camouflage per nascondere al suo fronte interno la verità sanguinaria della pur impari lotta con gli ucraini, mandando al massacro questi scherani anziché i soldati russi; 3) lasciare all’Europa un’eredità di qualche migliaio di terroristi bene addestrati.
In queste ultimi giorni abbiamo pure sentito un programma agghiacciante riassunto in queste eleganti parole pronunziate da Dmitry Peskov, il portavoce di Putin: «L'operazione in Ucraina porterà alla luce i "traditori" all'interno della Russia. Il popolo russo sarà in grado di distinguere i veri patrioti dalla feccia e dai traditori … In queste situazioni, molte persone si mostrano come traditori … Svaniscono dalle nostre vite da soli. Alcuni lasciano i loro posti, altri lasciano il Paese. È così che sta avvenendo la purificazione».
A proposito: dov’è finito Navalny? Il 25 gennaio scorso l’oppositore di Putin è stato dichiarato ‘terrorista’; ma ora egli ha avuto ora il coraggio di fare uscire dalle sue prigioni un appello ai Russi perché si oppongano alla guerra in Ucraina. Sarà lasciato ancora in vita?
Sovviene qualche ‘soluzione finale’ tra staliniana e hitleriana.
Parole, atteggiamenti, menzogne, facce inquietanti che ricordano molto quelli tracotanti della vecchia nomenklatura dei comunisti sovietici.
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Il mattino dopo l’invasione, abbiamo appreso che la reazione immediata all’aggressione russa è stata quella delle sanzioni americane.
Quella dei paesi dell’UE si è avuta solo qualche giorno dopo. Non ci avrebbe meravigliato se essi, anche in questa occasione, fossero andati in ordine sparso e, forse, Putin ci contava. Invece dobbiamo compiacerci del fatto che l’Unione Europea – fino allo scoppio della crisi, impreparata e paralizzata dalla sua dipendenza dalle forniture energetiche russe – ha reagito unitariamente anche sotto la pressione delle minacce atomiche di Putin. Ma vi è ancora qualche differenza nei toni e negli atteggiamenti sia tra i governi dell’UE che tra i leader politici: Lituania, Estonia e Lettonia, temendo di essere il prossimo obiettivo dei russi, chiedevano coraggiosamente sanzioni più dure contro Mosca senza attendere "ulteriori aggressioni" – «non dobbiamo aspettare nessun attacco, perché l’Ucraina è già sotto attacco» – ma gli altri, ritenendo accettabile se Putin si fermasse all'annessione di Donetsk e Lugansk, ponevano il dubbio amletico: SWIFT o no?
Purtroppo, qualche giorno dopo, abbiamo dovuto sentire Biden annunziare il blocco delle importazioni di gas e petrolio dalla Russia negli Stati Uniti e che, avendo proposto agli alleati europei di unirsi nell’applicazione di questa misura, aveva ricevuto una risposta negativa, seppur comprensibile: l’Alto Rappresentante dell’UE ha detto infatti di non potere essere della partita per le note ragioni di dipendenza dal gas e dal petrolio della Russia, offrendosi così al ricatto. Non ci meraviglia che ora Putin, soprattutto nell’intento di mettere un cuneo tra gli Stati Uniti e l’Europa, intimi, per prima all’Italia, di ritirare le sanzioni se vorrà avere ancora il suo gas.
Sorge il dubbio che gli europei vogliano come al solito lasciare tutto il peso sugli Stati Uniti; la Gran Bretagna è stata l’unica potenza Occidentale ad essere d’accordo con il progressivo aggravamento delle sanzioni alla Russia – blocco delle importazioni di petrolio, revoca della clausola della nazione più favorita – deliberate dagli Stati Uniti: forse avremo una nuova ‘Carta Atlantica’.
La storia dei rapporti euro-americani è segnata dal perdurante sottrarsi degli europei agli oneri finanziari ma anche militari e strategici della NATO; una storia punteggiata di antiamericanismo di cui l’Italia non ha difettato – a partire da quello, ammantato di falso pacifismo, del filosovietico PCI – e poi dai conati di Francia e Germania che, per perseguire interessi temporanei e non strategici e nella illusione che, egemoni in Europa, potessero contare qualcosa, cercavano un filo diretto con Russia e Cina: Chirac, per esempio, poneva USA e Cina sullo stesso piano pensando a una Unione Europea, guidata da Francia e Germania, che usasse Mosca o Pechino contro Washington.
La Russia non sembra minimamente intimorita da queste sanzioni; del resto, molti anni fa, qualcuno meno potente di Putin si faceva beffa delle inique sanzioni. Lo dice chiaro e tondo il ministro degli esteri russo, Lavrov: «Ci minacciano con ogni sorta di sanzioni o, come si dice ora, con 'la madre di tutte le sanzioni’. Beh, ci siamo abituati». L’ex-presidente russo Medvedev – la famosa controfigura di Putin, ora degradato a vicepresidente del Consiglio di sicurezza – annuncia la vendetta immediata: «nazionalizzeremo proprietà e imprese di cittadini americani, europei o del mondo anglosassone».
È vero; Putin può infischiarsene dei sacrifici cui sarà costretto il suo popolo, educato a sopportarli da 70 anni di comunismo e da 20 di putinismo. C’è quindi da dubitare che – se le sanzioni non saranno adeguate, e non lo saranno perché già si sentono allarmi per i costi da sopportare – siano sufficienti a fermare il programma di restaurazione imperiale che Putin persegue con l’annessione di tutti i territori russofoni, ovunque si trovino, con le sue ambigue relazioni con l’Iran, con gli arsenali atomici installati in Siria – dove finalmente, dopo 150 anni, ha trovato basi per le sue flotte nel Mediterraneo grazie alla fuga di Obama da questo nodo strategico dell’equilibrio mondiale – e con la presenza in Libia.
Le ‘anime belle’, dicendosi preoccupate per le vite degli ucraini, chiedono di non rifornirli di armi. In nome della pace, qualche politologo illustre sostiene che sarebbe stato meglio per tutti che l’Ucraina non opponesse alcuna resistenza e qualche giornalista di grido si chiede se l’Occidente sia «prigioniero dell’eroismo di Volodymyr Zelensky e degli ucraini».
Non c’è bisogno di questi pseudo-Ghandi per sapere che fornire di armi una delle parti in lotta espone a molti rischi sia i fornitori che i rifornti: già se ne sono avute le prime avvisaglie con il siluramento della nave panamense nel Mar Nero o con il bombardamento del deposito di armi nelle vicinanze di Leopoli.
Ma lasciare disarmato chi viene aggredito e vuole difendersi non porta alla pace, porta alla sopraffazione degl’inermi: porgere l’altra guancia non sempre convince l’aggressore a rinunciare alla violenza senza prima avere raggiunto i suoi scopi.
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Ci eravamo illusi che l’ONU potesse essere diversa dalla Società delle Nazioni. Rassegniamoci.
L’ONU purtroppo ha un ruolo molto marginale se non inesistente: dopo la riunione del Consiglio di sicurezza, andata a vuoto per l’immancabile veto della Russia, il Segretario generale dell’ONU non si è mosso di casa, si è limitato a recitare una preghiera: «In nome dell’umanità, riporta le tue truppe in Russia … non permettere di iniziare in Europa quella che potrebbe essere la peggiore guerra dall’inizio del secolo».
L’Assemblea generale dell’ONU non poteva fare più che approvare – con le molto significative astensioni di Cina, India, Pakistan, Algeria, Cuba, etc. – una simbolica risoluzione di condanna dell’aggressione. Sappiamo bene che l’ONU ha le mani legate, che non può imporre il ‘cessate il fuoco’ né ordinare operazioni di peace keeping e, tantomeno, di peace enforcing per fermare la guerra in Ucraina; non ne ha il potere: i russi non glielo permetterebbero. Tuttavia l’ONU avrebbe potuto tentare di gestire il negoziato invece di lasciare gli ucraini all’umiliazione di dovere andare da Lukashenko; avrebbe potuto inviare gli osservatori della sua onnipresente – ma non in Ucraina – UNHCR per impedire la velenosa tattica putiniana di concedere cosiddetti corridoi umanitari che porterebbero i profughi ucraini dritti dritti nei gulag russi: corridoi di deportazione.
L’Ucraina, disposta ad accettare la neutralità sotto garanzia internazionale, chiede giustamente che venga rispettata la sua integrità territoriale. Putin invece alza la posta ogni volta che si riaprono le defatiganti trattative con l’Ucraina che spesso si risolvono, come ad Antalya, in una penosa propaganda. Secondo la bozza di accordo pubblicata dal ‘Financial Times’, egli mira non solo all’annessione del Donbass e del territorio che lo collega alla Crimea e fino ad Odessa ma anche a mettere sotto il suo controllo quel che resterà dell’Ucraina dopo il suo smembramento, se non con un vero e proprio anschluss, con l’instaurazione di qualche quisling che porterà a compimento il suo disegno.
Questo sarebbe il primo passo verso quel Lebensraum di venerata memoria – l’Ucraina e il Caucaso erano nel mirino di Hitler 80 anni fa come oggi lo sono in quello di Putin – che la Russia intende assicurarsi con la finlandizzazione di una lunga fascia che va dalla Scandinavia alla Bulgaria e, perché no, agli stati della ex-Jugoslavia in una logica tra panslavista e sovietica. A prescindere dallo scontro di civiltà che qualcuno vede profilarsi dietro questa guerra e che è pure possibile – per semplificare: democrazia v. autocrazia, ma vi sarebbe dell’altro – non v’è dubbio che essa mette in causa l’equilibrio mondiale. Possiamo chiudere gli occhi?
Putin ha messo in stato di massimo allerta il sistema di deterrenza nucleare e Lavrov ha ordinato agli USA di rimuovere le armi atomiche dall’Europa mentre la Russia, forte di un plebiscito farsa fatto in due giorni da Lukashenko, ne colloca di nuove in Bielorussia; in un crescendo di intimidazioni, i russi hanno cominciato a lanciare i nuovi missili ‘ipersonici’ armandoli ora solo di una testata convenzionale e sottintendendo che potrebbe essere atomica. Il ricatto nucleare non è stato fatto a caso serve a Putin per estendere gli effetti intimidatori dell’invasione dell’Ucraina a tutti gli stati dell’ex URSS se non per ottenerne un controllo diretto: una nuova Yalta.
Dobbiamo chiederci dunque se, per fermare la guerra in Ucraina o almeno per impedirne l’allargamento, basti l’aiuto che stiamo dando ai combattenti e al popolo ucraini con l’invio di armi, equipaggiamenti e viveri, o il segnale, poco più che simbolico, dell’invio di qualche aereo e di qualche migliaio di soldati NATO in Polonia, Lituania, Romania.
Speriamo di si. Comunque, meglio di niente.
Fino a che punto possiamo fidarci della Cina, da molti invocata come possibile pacificatrice, ora che accusa la NATO e gli USA di avere provocato la guerra e ora che riceve richieste di aiuto dalla Russia? Temiamo che, se anche Xi Jinping fosse convinto, come Putin, che l’Occidente è diviso e impotente, vedremmo Russia e Cina schierati sullo stesso fronte – forse a ruoli invertiti: subordinato quello della Russia e egemone quello della Cina – o, comunque, vedremmo la Cina sedersi sulla riva del fiume ad aspettare che passi il cadavere degli Stati Uniti o della Russia o, preferibilmente, di entrambi: allora si potrebbe infrangere la speranza che la Cina ricordi che il suo nemico storico è stato l’imperialismo (russo ed europeo) e possa tornare a quella intesa con gli Stati Uniti degl’inizi del ‘900 prima contro l’invasione russa della Manciuria e, poi, contro l’imperialismo giapponese: che ricordi, insomma, che le ‘vie della seta’ sono più convenienti della via delle armi.
Macron e Scholtz, dopo aver telefonato a Putin, ci hanno fatto sapere che questi non intende dare tregua né, tantomeno, fermarsi. «La via del dialogo con la Russia resta essenziale», ha detto il presidente Draghi.
Bene.
Nessuno può volere la guerra. Tuttavia, per sviluppare con la Russia un dialogo utile sull’Ucraina, dovremmo decidere anzitutto quali costi intendiamo sopportare e avere una visione chiara del limite insuperabile delle concessioni che è possibile fare senza mettere in pericolo la nostra sicurezza; dovremmo porre termine alle fratture che impediscono l’unità dell’Occidente, a cominciare dalla dipendenza dell’UE dalle velleità dei singoli stati e dalle importazioni di gas, petrolio e altre importanti materie prime russi e dei prodotti cinesi in settori strategici; ma non sarà facile né rapido. Dovremmo rinunciare finalmente ai vantaggi – che oggi si rivelano effimeri o controproducenti – delle aperture commerciali, scientifiche e politiche, quasi a senso unico, che hanno permesso ai nostri avversari avanzamenti decisivi: la Stazione spaziale ‘internazionale’ condivisa da americani, giapponesi, europei, canadesi e russi, ora è divenuta un’arma nelle mani dei russi che minacciano di lasciarla cadere su New York o Londra o Roma; forse, come invocano molte voci, si dovrebbero ripensare le modalità della globalizzazione, le cui implicazioni oggi non riusciamo a percepire per intero e a governare, in modo che si riesca a rendere l’interdipendenza tra le varie parti del mondo una garanzia anziché un pericolo.
Finita la guerra, purtroppo con una prevedibile occupazione russa dell’Ucraina, per mantenere la pace bisognerà far comprendere ai russi che questa sarà stata una vittoria di Pirro; che, con l’imperialismo, essi hanno molto meno da guadagnare di quanto fino ad oggi gli hanno assicurato i ricchi rapporti economici, scientifici e politici con l’Occidente.
Servirà soprattutto mostrarsi risoluti a difendersi e a difendere gli aggrediti, anche se non formalmente alleati. Dobbiamo dunque essere pronti a ogni sacrificio e sperare che non ci sia tra noi un nuovo Chamberlain perché, qualora la Russia si sentisse incoraggiata a non fermarsi, potremmo essere trascinati in una guerra devastante.
Fonte: di GIUSEPPE BUTTA'