21 Novembre 2024

"I PARTITI ITALIANI
TRA TRASFORMAZIONE E TRASFORMISMO"

Ciò che sta succedendo ai nostri partiti politici non è una sorpresa anche se può apparire singolare il fatto che forze politiche importanti come il M5S, FI, e, ora, anche il PD abbiano come capi persone non elette in Parlamento – Grillo/Conte, Berlusconi, Letta – che non prenderanno mai la parola nelle Camere dove, per Costituzione, si decide il nostro destino politico, e che, dal 1993 a oggi, abbiamo avuto capi del governo non eletti in Parlamento, Ciampi, Dini, Monti, Renzi, Conte, Draghi: ciò non ci deve meravigliare poiché è la conferma della vecchia legge michelsiana della natura oligarchica dei partiti politici e della classe politica. Tuttavia, se non dobbiamo meravigliarci, siamo legittimati a pensare che c'è del marcio in Danimarca'!
L'autonominatosi avvocato del popolo, Conte, lasciando Palazzo Chigi ha promesso che non ci avrebbe lasciato privi del suo ‘alto' patrocinio: un patrocinio appunto da avvocato che sa cambiare le carte in tavola, etc..
Il suo futuro è tutto da scrivere; l'ormai ex premier ha detto che «È davvero necessario che ognuno di noi partecipi attivamente alla vita politica del nostro Paese e si impegni a distinguere la buona Politica, quella con la P maiuscola, dalla cattiva politica … il mio impegno e la mia determinazione saranno votati a proseguire questo percorso. La chiusura di un capitolo non ci impedisce di riempire fino in fondo le pagine della storia che vogliamo scrivere». Insomma, il professore-avvocato non intende ritirarsi a vita privata e, da par suo cioè da uomo che può scegliere indifferentemente tra due opzioni contrastanti, si pone davanti a questo dilemma: un ruolo nel M5S o la formazione di un partito proprio.
Il dilemma è stato risolto da Grillo, l'elevato, che, dopo averlo assolto da ogni colpa di governo, ha assunto Conte come capo politico disarcionando il direttorio a 5 appena messo a statuto dalla piattaforma Rousseau e accettando la condizione posta da Conte per farsi arruolare: mano libera, cioè ‘pieni poteri', per rifondare il Movimento a sua immagine e somiglianza.
Alla faccia del bicarbonato di sodio, direbbe Totò (la citazione del grande Principe non sembri blasfema visto che il Grillo comico non potrebbe lucidargli le scarpe); noi più modestamente diciamo: alla faccia della democrazia diretta!
Riferendosi al tentativo di formare il governo Conte ter, il professor Sabino Cassese – al contrario di Scalfari che dipinge Conte come nuovo Cavour – ha detto che questi «è il padre di tre gemelli diversi. Conte è un unicum in Italia, ha firmato i decreti Salvini e l'esatto contrario. Più che un premier è uno e trino. I 5 stelle? Finiranno col digerire anche quello che è, attualmente, il più grande panettone di maggioranza di governo mai pensato».
Questa è una definizione scultorea del trasformismo ma c'è di più: Conte – personaggio che sembrava essere di pura invenzione o un ‘trovatello', come lo definisce Vittorio Sgarbi – pare invece che venga da lontano e goda della copertura di qualche tonaca: egli può prolificare gemelli diversi facilmente e impunemente perché dietro di sé ha un solido potere.
In effetti, il partito di cui si è parlato come possibile supporto di questo nuovo leader si sarebbe chiamato Insieme. Concepito più di un anno fa, con l'expertise autorevole del Professore Stefano Zamagni, cattolicissimo ex presidente dell'Agenzia per il Terzo settore, questo partito – i cui possibili seguaci dovrebbero essere, in gran parte, quelli dei vari gruppi cattolici che si erano intruppati nel PD – sarebbe «di ispirazione cristiana, autonomo e non confessionale che parta dal basso, di centro, autonomo dalla destra e dalla sinistra ... capace di trovare una strada alternativa alla contrapposizione fallimentare tra liberismo e statalismo e che promuova una economia civile di mercato, in cui la famiglia sia soggetto, e non oggetto di mere elargizioni».
Le qualità funamboliche di Conte lo rendono capace di pistolotti che, ripetendo le stesse parole di Zamagni da dietro la ‘bancarella' di piazza Colonna, annunciano il suo programma: «Sarà l'economia civile a dare un grande contributo alla rinascita del Paese. È un tempo di rinnovamento: non possiamo tornare alla normalità. La rigenerazione dell'economia è un fil rouge di un processo che mira a collocare al centro il cittadino e la persona umana».
Ma sono parole che sembrano del tutto vuote perché quello che abbiamo visto fin qui, nei due governi Conte, non è altro che statalismo, anti-autonomismo, assistenzialismo e debito pubblico. Ed è in quest'ottica che, forse, viene vista la simbiosi politica con il terzo settore, potente gruppo di interessi economici; non è un caso che la rinascita, si fa per dire, di un partito formato da cattolici ma non dei cattolici – mentre il papato dà indirizzi politici assai discutibili tanto che anche il PD vuole seguirli come nuove vie della sinistra – sia affidata a un accrocchio cattolico-terzosettorista, a un terzo settore che, divenendo backstage o piedistallo di un partito politico, snatura se stesso e apre un conflitto d'interessi.
Anche se, con questa evoluzione contiana, il M5S avrà cambiato completamente pelle (ma che gliene importa all'elevato, il cui unico scopo è quello di fare battute comiche?), dobbiamo ammettere però che Grillo non ne sbaglia una: la cooptazione dell'avvocato, dopo che si è sparsa la notizia di sondaggi che, ai 5S sotto la leadership di Conte, attribuirebbero un buon 20% dei voti così superando un PD crollato al 14%, ha messo in crisi questo partito.
Zingaretti, seguendo i consigli del suo guru Bettini, aveva inchiodato il PD al dilemma o ‘Conte o morte'; ora, pur negando di averlo mai fatto, si è dimesso da segretario accusando il suo partito di essere impegnato solo in una delle tante battaglie della lunga guerra ‘per il potere' intrapresa fin dalla sua nascita, frutto di un connubio catto-comunista, e affermando che le sue dimissioni vogliono essere un atto d'amore verso il partito nella speranza di scuoterlo, una specie di respirazione bocca a bocca. Non per scoraggiarlo, lo informiamo che Massimo Cacciari – certamente non sospettabile di pregiudizio sfavorevole nei confronti della sinistra – ha confermato le preoccupazioni per le quali egli si è dimesso: «il PD, nato dal formidabile equivoco di una "spontanea" conciliabilità tra un welfare di ispirazione paleo-socialdemocratica e modelli politici liberisti, è da tempo non un insieme ma un mucchio di forze eterogenee il cui denominatore comune è la strenua ‘volontà di governo'».
Il PD è al governo ininterrottamente dal 2011, senza vittorie elettorali tranne quella stentata del 2013 quando ottenne la maggioranza alla Camera ma non al Senato, intestandosi battaglie ideologiche (anti-berlusconismo, anti-sovranismo) tanto generiche quanto non in sintonia con i problemi del paese. Per tenerci solo al passato recente, ricorderemo come, nell'agosto del 2019, questa gioiosa macchina da guerra di occhettiana memoria sferrò quella che potremmo chiamare la sua ‘undicesima battaglia dell'Isonzo', quella appunto d'agosto, per rientrare nel governo sottoscrivendo un inusitato accordo con i 5S: un'operazione di puro trasformismo che poi ha così tanto infatuato il gruppo dirigente Pdino da fargli perseguire il progetto dell'annessione di Conte e, possibilmente, di quell'elettorato pentastellato che potrebbe seguirlo; un progetto che ha permesso a un Casalino qualsiasi di dire oggi «noi del Movimento abbiamo anche attaccato il PD, che forse merita di essere attaccato, ma alcune persone sono straordinarie, come Zingaretti e Franceschini, e poi ci sono alcuni cancri … elementi devastanti che riescono a distruggere anche il bello del PD. Bisognerebbe estirpare questi cancri».
Insomma, Casalino salva soltanto gli spasimanti dei 5S; a sua volta, la ‘sardina' Santori – che credevamo già sotto sale – dichiara altezzosamente: «Le dimissioni [di Zingaretti] sono state un grido di aiuto. Noi abbiamo risposto. Il PD ha un marchio tossico». Forse la riccioluta sardina – il cui grande contributo al pensiero politico è la liberalizzazione della coltivazione della marijuana sulle terrazze di casa – voleva aiutare a ‘estirpare i cancri' e rinverdire la ‘piazza grande', incolpevole contributo alla diffusione del virus con il giro per le piazze d'Italia fatto dal ‘banco di sardine' dal dicembre 2019 al febbraio 2020 e poi e una puntata a settembre, per ‘ricostruire' la sinistra, sedicente ‘progressista', con ‘adunate oceaniche' di venerata memoria.
Dopo l'apparente vittoria della conquista del governo – che Zingaretti, Bettini e Franceschini, e tutti gli altri che oggi cercano qualche paravento dietro cui nascondersi, hanno sostenuto strenuamente fino ad elevare Conte a demiurgo della ‘sinistra' e a non riconoscere i limiti, le colpe gravissime del suo governo – è venuto per il PD il bagno di sangue del gennaio 2021 quando si mostrò disposto a tutto, anche a consegnare la democrazia al duo Lonardo-Mastella piuttosto che alle urne. L'essersi affidato alla sommatoria di vari ‘responsabili' parlamentari – i ‘costruttori' messi in campo da qualcuno che gode d'ufficio della qualifica di ‘saggio', ma che è meglio chiamare ‘raccogliticci uniti', i fabbri del ‘trasformismo' – non poteva portare che al fallimento di quel penoso tentativo di Conte, appoggiato dal PD usque ad sanguinem, e all'invenzione del governo d'emergenza con Draghi, dal quale il PD e i 5S, pur accettando FI, s'illudevano di poter tenere fuori la Lega.
Poi c'è sempre Bettini che ora, perduto Conte e vedendo disperato il tentativo di annettersi l'elettorato 5S, non si straccia le vesti per le dimissioni di Zingaretti – da lui guidato e fuorviato in questa ricerca ossessiva dell'alleanza con i 5S – e, per superare la crisi apertasi nel PD, propone una soluzione geniale: una ‘agorà' che fondi su tre gambe (una di sinistra, una liberal-democratica e i 5S “di Conte, quindi non più il ‘quadrupede' teorizzato a gennaio con i ‘costruttori') un nuovo imperialismo partitico con un PD guidato da un segretario di ‘sinistra' per riprendersi LEU e Sinistra italiana e con il programma di ‘civilizzare il capitalismo globalizzato'. In bocca al lupo!
Anche in questa crisi il PD mostra la corda perché dobbiamo rilevare che, dietro la guerra per il potere interno, nel partito vi era pure un forte dissenso contro la linea filo-5S: le dimissioni di Zingaretti sono venute sostanzialmente per sfuggire a questo dissenso. Anche in questa occasione il PD non ha fatto altro che confermare la sua crisi di identità. Senza prima avere messo ai voti la linea politica, senza un ‘Congresso' chiarificatore (tuttavia a giustificare tutto ciò bisogna ricordare che il PD è anche l'erede di un partito che non ha avuto mai una sua Bad Godesberg), il PD ha messo il carro davanti ai buoi perseguendo soltanto nuovi equilibri (più avanzati?) di potere, poi si potrà pure fare, più in là, un Congresso che li ratifichi, un congresso a tesi (filosofiche?) di alta cultura politica (ci saranno pure le ‘sardine'?). Addio primarie!
Ora il buco è stato tappato con la pezza del nuovo segretario, Letta, richiamato da Parigi dopo 7 anni: una chiamata unanime – come unanime fu la sua cacciata nel 2014, con la pesante accusa di immobilismo e insufficienza del governo da lui guidato – un coro rumorosamente plaudente per silenziare questo dissenso o per mimetizzare quello che sarebbe necessario e fisiologico dibattito di idee: a quando la resa dei conti?
Possiamo concludere che la simbiosi con i 5S e Grillo – che, da solo, decide il rinvio dei famosi ‘stati generali' e nomina i ‘capi politici' – fa effetto?
In un impeto di modestia, nel suo discorso all'Assemblea del partito che lo ha eletto quasi all'unanimità, Letta ha affermato che al PD «non serve un nuovo segretario … serve un nuovo PD» così facendo il paio con Zingaretti, che disse di vergognarsi del suo partito, e dando ragione a quanti hanno fin qui visto il PD come un partito inaffidabile. E, a dire il vero, non si sa come egli intenda costruire questo partito ‘nuovo' di togliattiana memoria: basterà che sia andato a concionare i ‘compagni' della sezione del Testaccio?
Egli ha fatto un discorso pieno di buone intenzioni procedurali, vuoto di programmi sostanziali salvo la sparata sullo ius soli e sul voto ai sedicenni (Delrio, commosso per così poco, dice di essere rimasto colpito «dalla solidità e forza» di un tale sermone) e accolto da un coro assembleare e giornalistico plaudente; un discorso che evita i veri nodi che stringono il Paese e rivela la non molto nascosta idea di mettere in crisi le larghe intese che sorreggono il governo Draghi, da lui definito governo del PD in modo da spingere Lega e FI a prenderne le distanze: il consiglio dei ministri di San Giuseppe – da ricordarsi per la resistenza sulle cartelle esattoriali in gran parte inesigibili – ne è la prova.
Letta ora vuole risuscitare la politica delle ‘coalizioni' guidate dal PD e dovrà scegliere tra ‘vocazione maggioritaria' e ‘vocazione egemonico-piratesca', tra il suggerimento piuttosto contraddittorio di Veltroni – «il PD allarghi la sinistra e stia con Draghi» – e quello di Elly Schlein: «ci vuole un fronte progressista e corsaro». Egli parlerà «con Speranza, Bonino, Calenda, Renzi, Bonelli, Fratoianni» – già, però, c'è l'alt di Calenda, che ha ricordato come questi personaggi abbiano una visione diversa della società, e quello di Bersani che ha declinato l'invito formulando uno dei suoi celebri aforismi: «Non possiamo tirarci su per le stringhe delle scarpe da soli. Caro Enrico, facciamo una nuova Cosa. Io nei Dem non torno» – e pianterà il nuovo Ulivo sui 5S.
Pare che Letta abbia già dato il primo colpo di zappa telefonando a Conte, dal quale avrebbe ricevuto l'impegno per un confronto sui comuni obiettivi mentre il buon Fico ha elogiato l'accenno che Letta ha fatto al rispetto dei diritti umani in Egitto: una bella svolta preparata dai suoi studi parigini; infatti, dopo avere aborrito i 5S e, soprattutto, l'alleanza con essi, Letta l'ha teorizzata come via per conquistarne l'elettorato (Zingaretti gli ha dato un buon viatico, la nuova giunta laziale con i 5S – che, nel lontano 2018, lo avevano combattuto – e Di Maio pare sia pronto ad andare oltre l'alleanza elettorale: forse una fusione?).
Comunque, se Ulivo deve essere, Letta ricordi che il vecchio Ulivo vinse con il ‘mattarellum' e rinunci alla deriva proporzionalista, promossa dal PD soprattutto da quando si è visto sfuggire la prospettiva della conquista della maggioranza e della leadership: l'avere abbandonato quella parvenza di legge elettorale semi-maggioritaria, già in sé un ircocervo, e i vari ‘porcellum', ‘rosatellum' ha causato la confusa situazione di oggi. Forse però, da quanto non detto da Draghi nel suo discorso davanti alle Camere e per il nuovo Ulivo che dovrebbe nascere, possiamo sperare che non si compia il misfatto di quel ritorno: al contrario del proporzionale, 'mattarellum', ‘porcellum' e ‘rosatellum', per quanto pasticciati, forse salvano l'alternanza, sale della democrazia.
Pare che Letta abbia capito tutto ciò; anzi è bastato il discorso del parigino per far cambiare idea al PD – e a quanti, anche sulla stampa, ci stavano impiccando al proporzionale – esortanto a imparare che le elezioni si possono pure perdere; a non andare al governo per fare da ‘protezione civile', per impedire che gli altri portino l'Italia fuori dall'Europa (a impedirlo ci penserà lui). Il professore di ‘Science Po' ha anche dato al suo partito la prima lezione sulla riforma costituzionale che intende proporre contro il trasformismo; temo però che, parlando di corda in casa dell'impiccato, potrebbe fare la fine dei 5S che volevano introdurre il vincolo di mandato e ne uscirono ‘suonati'.
La Lega, a sua volta, dovrà rimpiangere l'accordo verticistico fatto nel 2018 con i 5S accettando di rompere la coalizione di centro-destra. Non doveva farlo; non doveva sottoscrivere il cosiddetto contratto di governo: sarebbe stata così di altri la responsabilità di non fare ricorso a nuove elezioni; allora non sarebbero state valide le scuse – i ‘pieni poteri' di Salvini prima e, ora, la pandemia – che, poi, sono state accampate per non farlo.
Ora il centro-destra – una parte del quale appoggia il governo Draghi e un'altra è all'opposizione (situazione che si ebbe col governo Lega-5S e Forza Italia e Fratelli d'Italia all'opposizione) – dovrà ritrovare una politica e una leadership unitarie: una difficile sintesi tra un Berlusconi al tramonto, una Meloni rampante e un Salvini delegittimato da anni di attacchi politici e ‘giudiziari'. Anche se ci riuscisse e a legge elettorale ora vigente, il centro-destra potrebbe non conquistare la maggioranza a causa della corsa al centro di Azione, Più Europa, Italia Viva con in testa il PD, che, dimentico della sua origine catto-comunista, pretende al ruolo di partito riformista/liberale, e i 5S, che ora si definiscono moderati e liberali e non più rousseauviani.
Un pasticcio poco appetibile, da grande calderone.



Fonte: di GIUSEPPE BUTTA'
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