"IL FINANZIAMENTO DELLA POLITICA"
26-10-2020 - CRONACHE SOCIALISTE
Il secondo libro di cui voglio parlarvi (Julia Cagé, Il prezzo della democrazia) tratta un aspetto che fa da pendant con quello proposto da T. Piketty (Capitale e ideologia). Si pone il problema di come si debba finanziare la democrazia e quali siano le condizione affinché non si abbia una distorsione a favore dei ricchi. Con coraggio e lucidità e dovizia di dati ci disvela le finzioni e i falsi moralizzatori che imperversano in questo campo. Alcune delle sue tesi sono tutte da verificare, come quando mette in relazione l'abbandono del finanziamento pubblico dei partiti in Italia con l'esplosione elettorale del Movimento 5 Stelle e della Lega.
L'idea che pervade tutto il libro è che senza un corretto finanziamento pubblico della politica sia impossibile superare “l'attuale crisi delle democrazie rappresentative” (p. 13). Queste si basano sull'eguaglianza di tutti i cittadini, ciò viene pesantemente inficiato dal sistema del finanziamento privato della politica. Da questa affermazione fa discendere l'omogeneità delle posizioni espresse dai diversi partiti tese, per lo più, a favorire gli interessi dei finanziatori. Maggiori sono i finanziamenti e maggiore è la possibilità di condizionare l'agire dei partiti e di conseguenza delle istituzioni. Sono abbastanza d'accordo con questa tesi, anche se non esaurisce le ragioni della crisi della sinistra. Non si può dimenticare l''”unicità del pensiero economico” che domina incontrastato le accademie e le principali organizzazioni finanziare internazionali iniziando dalla Comunità Europea. Da questa constatazione ne scaturisce un'altra, l'incapacità da parte della sinistra di individuare un modello sociale, in parte anche utopico, capace di formare quella massa critica di cittadini necessaria per qualsiasi forma di cambiamento
Poiché gli Stati spendono, in termini di minori introiti fiscali, una somma che serve di “ristoro” a coloro che versano i contributi ai partiti, l'autrice propone, abolendo i finanziamenti privati, che queste risorse non vengano aumentate ma attribuite, ciascun anno e per lo stesso importo, ai cittadini che al momento della dichiarazione dei redditi indicherebbero a quale partito destinarle.
Lo strumento che propone per raggiungere questo obbiettivo sono i “Buoni per l'eguaglianza democratica” (BUD) ed “una regolamentazione rigidissima di ogni forma di finanziamento privato” (p. 525). Su questa ultima affermazione ho molti dubbi. Se noi vogliamo restituire veramente un aspetto “democratico” al finanziamento della politica bisogna evitare ogni ulteriore forma di finanziamento privato e imporre una puntuale rendicontazione. Per i gruppi che vogliono partecipare alla competizione elettorale occorre l'obbligo di sottostare a queste regole e a incassare quanto dovuto. A questo punto si apre un ulteriore problema, che va normato ex ante, relativo a come ciascun partito gestisce le risorse pervenute.
Soluzione necessaria, ma, a mio avviso, insufficiente se non accompagnata da una accountability sempre dimostrabile e con una forte moralità per rendere nuova linfa alla vita dei partiti e delle Istituzioni perni di una democrazia rappresentativa.
Su un punto mi trovo in forte disaccordo con l'autrice quando propone un'Assemblea che lei chiama “Assemblea mista: sociale e politica”. Per evitare che i parlamentari siano condizionati dalle classi più ricche che provvedono alla sopravvivenza dei partiti attraverso il finanziamento privato de medesimi, prevede che ci siano presenti nelle liste, almeno per la metà, quelli che l'autrice chiama “rappresentanti sociali”, cioè “impiegati, operai e precari” (p. 526). Perché non le donne o gli studenti universitari, tanto per fare un esempio? Al di là di spiegare come concretamente si potrebbe esercitare l'elettorato attivo e quello passivo, e le procedure per poter presentare le liste, mi sembra che un sistema di questo genere non può che portare, nella migliore delle ipotesi ad un soggetto corporativo e ad una balcanizzazione della vita istituzionale.
Il problema non può che essere risolto, al di là del ceto sociale di appartenenza, con una partecipazione attiva e concreta alla vita politica che si può manifestare in molti modi.
Nonostante questo mio dissenso credo che questi due volumi abbiano il coraggio di lanciare una sfida nella morta gora della sinistra europea. Mi appaiono uno stimolo intellettualmente importante da cui ripartire. Occorre creare un “qualcosa” che senza occuparsi direttamente della politica quotidiana, né tantomeno con velleità di presentarsi a qualsiasi tipo di elezione, abbia la forza e l'autorevolezza di aprire un dibattito prima di tutto sulle proposte di carattere culturale e forse anche un po' utopiche, ma necessarie per riaprire un orizzonte attualmente troppo modesto.
Fonte: di ENNO GHIANDELLI