"IL MONDO CHE CI ASPETTA E L’ILLUSIONE DELLA DIFESA COMUNE EUROPEA"
24-04-2022 - DIARIO POLITICO di Giuseppe Butta'
Massimo Cacciari, nel suo articolo sulla ‘Stampa’ del 12 aprile, dice di detestare «lo Zar che ha portato la guerra civile dentro l’Europa» perché ha affidato alle armi il suo tentativo di «diventare forza reale dell’agire politico», anziché ai «foedera, ai patti inter pares … alla grande cultura russa … nello spirito del suo cristianesimo».
Cacciari aggiunge che gli ‘stenterelli’ – cioè i realpolitiker «senza idee, ridotti a miope calcolo di interessi, a egoismi nazionalistici» – giudicherebbero utopico quanto da lui sognato.
Ha ragione: non v’è dubbio che si tratti di utopia, di ‘sogno’, che è poi il sogno di tutti (o della maggior parte degli ‘uomini di buona volontà’) che svanisce non appena svegli.
La crisi ucraina ha dato una scossa alla dormiente NATO e, d’altra parte, ha riproposto, in grande, il dibattito sull’esigenza che l’Europa si dia una politica estera e di difesa comune. È un’esigenza che noi condividiamo sinceramente ma che, proprio per questo, ci induce a porci domande che richiedono risposte immediate e non ambigue.
Non occorre andare indietro fino alla CED – abortita per volontà francese dopo che, nel 1952, il suo concepimento era stato fatto, sempre per volontà francese, allo scopo di mimetizzare il deciso rifiuto opposto da Robert Schuman al riarmo della Germania – per temere che anche ora i buoni propositi non vadano, anzi non possano andare oltre il ridicolo dispiegamento di una ‘forza di pronto intervento’ di 5.000 uomini (in media 192 uomini per ognuno dei 26 paesi dell’Alleanza).
Ma il riferimento alla vicenda della CED è assai utile per renderci conto dell’illusione cui ora rischiamo di andare incontro: per approntare un esercito comune efficiente, occorre molto tempo e anche realizzare condizioni tecnico-militari e strategico-politico-istituzionali ancora di là da venire.
Le ragioni del fallimento della CED sono presto spiegate: a parte il voltafaccia francese, era chiaro che un esercito comune – a meno che non lo si concepisca come autonomo, anzi indipendente, dalla volontà politica – dovesse avere alle spalle un sistema di governo politico comune, una capacità economico-finanziaria-fiscale comune, una volontà politica espressa e implementata univocamente: nessun esercito comune può essere gestito da molti governi con politiche divergenti tra loro. E questo era evidente nel 1952 come ora è evidente che, senza una ‘costituzione’ e un governo europeo, un tale strumento militare non è pensabile.
Né è possibile che l’U. E. abbia una politica internazionale unitaria.
Per dirla in breve, tutte codeste buone intenzioni sono destinate a naufragare sullo scoglio del ministro europeo degli esteri e della difesa. Siamo rimasti esterrefatti dall’ipotesi che, per costruire l’esercito comune europeo, si dovrebbe attribuire, per venti anni, alla Francia il ministro della difesa avendone in cambio la sua force de frappe nucleare. Una ipotesi che, da sola, dice di quanto siamo lontani dalla realizzazione della difesa comune europea. Delle due l’una: o si ha una difesa comune europea o si ha un esercito ‘comune’ comandato dalla Francia.
Nell’ambito di tale questione, si discute accanitamente se ottemperare o no all’impegno, preso ormai molti anni fa da tutti i paesi membri della NATO, di contribuire con il 2% del proprio PIL alle spese dell’Alleanza. I ‘resistenti’ oppongono varie ragioni – opportunità di un aumento delle spese militari sia nel contesto dell’attuale sfavorevole quadro sociale ed economico sia in termini etico-politici – fino a porre questa alternativa: la NATO o l’esercito comune? Qualche intellettuale di sinistra/5S giunge a lamentare che non potrà mai esserci un esercito europeo fino a quando pagheremo una NATO a servizio degli Stati Uniti.
È vero invece il contrario, cioè che un forte esercito comune europeo, fornito solo di armi convenzionali, è possibile solo se è strategicamente connesso con la capacità nucleare degli Stati Uniti, a meno che l’Europa non voglia diventare essa stessa una potenza nucleare e missilistica.
A parte il sospetto avanzato da alcuni che l’improvvisa riemersione dell’ipotesi di un esercito europeo sia in funzione anti-NATO e antiamericana – per esempio, la signora Le Pen, annuncia che, se verrà eletta all’Eliseo, ritirerà la Francia dal comando integrato della NATO per costruire una più stretta Unione Europea filorussa – non si vede come l’Unione Europea possa ora superare gli ostacoli che impediscono questo che sarebbe un progresso decisivo del federalizing process dell’U. E.
La guerra in Ucraina ci sta facendo assistere a uno spettacolo veramente stupefacente.
Uniti in un solo blocco, qualunquisti di tutte le risme, accusatori assatanati dei guerrafondai americani, vecchi arnesi della contestazione, venerandi generali italiani, mistici politicanti, etc., saltano a piè pari le responsabilità russe della guerra per accusare invece gli Stati Uniti di servirsi dell’Ucraina per colpire la Russia.
Li abbiamo sentiti, negli incessanti ‘talk show’ sulla guerra ucraina, pontificare quotidianamente contro Stati Uniti e Gran Bretagna, responsabili a loro avviso di voler prolungare la guerra fornendo armi all’Ucraina e di non voler promuovere trattative per la pace, che dovrebbero a loro avviso arrivare a concedere i territori pretesi da Mosca e, in sostanza, la dissoluzione dell’Ucraina.
Qualcuno è giunto financo a dire che al tavolo delle trattative con la Russia dovrebbero sedere gli Stati Uniti e non l’Ucraina. Pronto naturalmente ad accusare gli americani di sentirsi padroni di quel paese.
Costoro tacciono invece del fatto che è la Russia a non volere trattative fino a quando non avrà conseguito i suoi scopi.
Antiamericanismo puro, rinascente dalla lunga battaglia ideologica del pacifismo di lungo corso che in Italia affonda le sue radici nel pregiudizio favorevole alla patria sovietica del comunismo e, singolare convergenza, nell’odio per l’America nutrito dai nostalgici vendicatori della sconfitta del fascismo in Italia.
Dire che la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina sia in realtà una guerra tra Russia e Stati Uniti è una semplificazione inaccettabile.
È invece un’altra cosa dire che le conseguenze di questa aggressione mettono in giuoco la pace mondiale e che, quindi, ci sia il rischio concreto di una guerra globale: è chiaro che oggi gli Stati Uniti non vogliano ripetere l’errore commesso da Obama che, nel 2014, chiuse occhi e orecchi di fronte all’annessione russa dell’Ucraina e al secessionismo del Donbass che Putin fomenta da otto anni.
Le ultime notizie confermano infatti il sospetto che la guerra ucraina è solo un tassello di un disegno molto più vasto, e non solo russo.
È in movimento tutto lo scacchiere orientale. Se l’atteggiamento mostrato dalla Cina nella crisi ucraina non bastasse a dimostralo, nuove evidenze si aggiungono a partire da qualche accenno di Pechino alla questione di Taiwan.
La Cina si muove ormai anche in Europa: la ‘via della seta’, il 5G, i ‘container’ sono solo la parte manifesta e più melliflua – ma, per questo, anche la più pericolosa – della penetrazione cinese.
Per esempio, nell'ambito del progetto ‘Via della seta' che è un progetto di penetrazione nel tessuto economico dell'Europa, la Cina di Xi Jinping sta attuando in Serbia, e non solo, forti investimenti soprattutto nei settori industriale, minerario e metallurgico e in quello delle infrastrutture (in particolare, la linea ferroviaria veloce fra Belgrado e Budapest). Ma il vero colpo a sorpresa, inquietante, minaccioso, è la fornitura di armi alla Serbia che non possiamo valutare come un mero ‘scambio’ commerciale.
Qual è il significato di un tale atto?
Con l'invio alla Serbia dei suoi sofisticati sistemi di difesa aerea HQ-22 SAM (missili terra-aria paragonabili gli americani Patriot o ai russi S-300), la Cina ha confermato di avere «progetti di cooperazione e di regolari forniture militari» con i paesi europei disposti a fare da ‘cavallo di Troia’; il ministro degli esteri cinese ha avuto anche la cortesia di informarci che «i progetti di cooperazione annuale Cina-Serbia non sono rivolti contro terzi e non hanno nulla a che fare con la crisi ucraina». La Serbia, principale alleato di Mosca nell'area, ha un conto in sospeso con la NATO e ora – mentre la Russia sotto Vladimir il terribile avvia la sua ascesa imperiale ingoiando l’Ucraina – riapparendo sulla scena riarmata dalla Cina, potrebbe riaprire la perenne questione ‘slava’.
È ormai chiaro che la Cina voglia favorire il disegno imperiale di Putin, certo non per rafforzare la Russia quanto, piuttosto, per incatenarla a un confronto con la NATO e, quindi, per trarre vantaggio dalla reciproca neutralizzazione dei due contendenti: il ‘celeste impero’ non solo avrà così mano libera in Oriente ma acquisterà una posizione egemonica: il mondo che ci aspetta non è quello dei foedera, della cultura e della fratellanza.
La ‘realpolitik’ impone una scelta. A chi guarderebbe una UE rafforzata? All’ Occidente o alla Russia-Cina?
La scelta per l’Europa non può essere che la koinè con gli Stati Uniti: una comunità con tutti i suoi difetti ma anche con i suoi valori, interessi e idee, che sappia difendersi e imporre la pace, sia pure nell’equilibrio del terrore.
Cacciari aggiunge che gli ‘stenterelli’ – cioè i realpolitiker «senza idee, ridotti a miope calcolo di interessi, a egoismi nazionalistici» – giudicherebbero utopico quanto da lui sognato.
Ha ragione: non v’è dubbio che si tratti di utopia, di ‘sogno’, che è poi il sogno di tutti (o della maggior parte degli ‘uomini di buona volontà’) che svanisce non appena svegli.
La crisi ucraina ha dato una scossa alla dormiente NATO e, d’altra parte, ha riproposto, in grande, il dibattito sull’esigenza che l’Europa si dia una politica estera e di difesa comune. È un’esigenza che noi condividiamo sinceramente ma che, proprio per questo, ci induce a porci domande che richiedono risposte immediate e non ambigue.
Non occorre andare indietro fino alla CED – abortita per volontà francese dopo che, nel 1952, il suo concepimento era stato fatto, sempre per volontà francese, allo scopo di mimetizzare il deciso rifiuto opposto da Robert Schuman al riarmo della Germania – per temere che anche ora i buoni propositi non vadano, anzi non possano andare oltre il ridicolo dispiegamento di una ‘forza di pronto intervento’ di 5.000 uomini (in media 192 uomini per ognuno dei 26 paesi dell’Alleanza).
Ma il riferimento alla vicenda della CED è assai utile per renderci conto dell’illusione cui ora rischiamo di andare incontro: per approntare un esercito comune efficiente, occorre molto tempo e anche realizzare condizioni tecnico-militari e strategico-politico-istituzionali ancora di là da venire.
Le ragioni del fallimento della CED sono presto spiegate: a parte il voltafaccia francese, era chiaro che un esercito comune – a meno che non lo si concepisca come autonomo, anzi indipendente, dalla volontà politica – dovesse avere alle spalle un sistema di governo politico comune, una capacità economico-finanziaria-fiscale comune, una volontà politica espressa e implementata univocamente: nessun esercito comune può essere gestito da molti governi con politiche divergenti tra loro. E questo era evidente nel 1952 come ora è evidente che, senza una ‘costituzione’ e un governo europeo, un tale strumento militare non è pensabile.
Né è possibile che l’U. E. abbia una politica internazionale unitaria.
Per dirla in breve, tutte codeste buone intenzioni sono destinate a naufragare sullo scoglio del ministro europeo degli esteri e della difesa. Siamo rimasti esterrefatti dall’ipotesi che, per costruire l’esercito comune europeo, si dovrebbe attribuire, per venti anni, alla Francia il ministro della difesa avendone in cambio la sua force de frappe nucleare. Una ipotesi che, da sola, dice di quanto siamo lontani dalla realizzazione della difesa comune europea. Delle due l’una: o si ha una difesa comune europea o si ha un esercito ‘comune’ comandato dalla Francia.
Nell’ambito di tale questione, si discute accanitamente se ottemperare o no all’impegno, preso ormai molti anni fa da tutti i paesi membri della NATO, di contribuire con il 2% del proprio PIL alle spese dell’Alleanza. I ‘resistenti’ oppongono varie ragioni – opportunità di un aumento delle spese militari sia nel contesto dell’attuale sfavorevole quadro sociale ed economico sia in termini etico-politici – fino a porre questa alternativa: la NATO o l’esercito comune? Qualche intellettuale di sinistra/5S giunge a lamentare che non potrà mai esserci un esercito europeo fino a quando pagheremo una NATO a servizio degli Stati Uniti.
È vero invece il contrario, cioè che un forte esercito comune europeo, fornito solo di armi convenzionali, è possibile solo se è strategicamente connesso con la capacità nucleare degli Stati Uniti, a meno che l’Europa non voglia diventare essa stessa una potenza nucleare e missilistica.
A parte il sospetto avanzato da alcuni che l’improvvisa riemersione dell’ipotesi di un esercito europeo sia in funzione anti-NATO e antiamericana – per esempio, la signora Le Pen, annuncia che, se verrà eletta all’Eliseo, ritirerà la Francia dal comando integrato della NATO per costruire una più stretta Unione Europea filorussa – non si vede come l’Unione Europea possa ora superare gli ostacoli che impediscono questo che sarebbe un progresso decisivo del federalizing process dell’U. E.
La guerra in Ucraina ci sta facendo assistere a uno spettacolo veramente stupefacente.
Uniti in un solo blocco, qualunquisti di tutte le risme, accusatori assatanati dei guerrafondai americani, vecchi arnesi della contestazione, venerandi generali italiani, mistici politicanti, etc., saltano a piè pari le responsabilità russe della guerra per accusare invece gli Stati Uniti di servirsi dell’Ucraina per colpire la Russia.
Li abbiamo sentiti, negli incessanti ‘talk show’ sulla guerra ucraina, pontificare quotidianamente contro Stati Uniti e Gran Bretagna, responsabili a loro avviso di voler prolungare la guerra fornendo armi all’Ucraina e di non voler promuovere trattative per la pace, che dovrebbero a loro avviso arrivare a concedere i territori pretesi da Mosca e, in sostanza, la dissoluzione dell’Ucraina.
Qualcuno è giunto financo a dire che al tavolo delle trattative con la Russia dovrebbero sedere gli Stati Uniti e non l’Ucraina. Pronto naturalmente ad accusare gli americani di sentirsi padroni di quel paese.
Costoro tacciono invece del fatto che è la Russia a non volere trattative fino a quando non avrà conseguito i suoi scopi.
Antiamericanismo puro, rinascente dalla lunga battaglia ideologica del pacifismo di lungo corso che in Italia affonda le sue radici nel pregiudizio favorevole alla patria sovietica del comunismo e, singolare convergenza, nell’odio per l’America nutrito dai nostalgici vendicatori della sconfitta del fascismo in Italia.
Dire che la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina sia in realtà una guerra tra Russia e Stati Uniti è una semplificazione inaccettabile.
È invece un’altra cosa dire che le conseguenze di questa aggressione mettono in giuoco la pace mondiale e che, quindi, ci sia il rischio concreto di una guerra globale: è chiaro che oggi gli Stati Uniti non vogliano ripetere l’errore commesso da Obama che, nel 2014, chiuse occhi e orecchi di fronte all’annessione russa dell’Ucraina e al secessionismo del Donbass che Putin fomenta da otto anni.
Le ultime notizie confermano infatti il sospetto che la guerra ucraina è solo un tassello di un disegno molto più vasto, e non solo russo.
È in movimento tutto lo scacchiere orientale. Se l’atteggiamento mostrato dalla Cina nella crisi ucraina non bastasse a dimostralo, nuove evidenze si aggiungono a partire da qualche accenno di Pechino alla questione di Taiwan.
La Cina si muove ormai anche in Europa: la ‘via della seta’, il 5G, i ‘container’ sono solo la parte manifesta e più melliflua – ma, per questo, anche la più pericolosa – della penetrazione cinese.
Per esempio, nell'ambito del progetto ‘Via della seta' che è un progetto di penetrazione nel tessuto economico dell'Europa, la Cina di Xi Jinping sta attuando in Serbia, e non solo, forti investimenti soprattutto nei settori industriale, minerario e metallurgico e in quello delle infrastrutture (in particolare, la linea ferroviaria veloce fra Belgrado e Budapest). Ma il vero colpo a sorpresa, inquietante, minaccioso, è la fornitura di armi alla Serbia che non possiamo valutare come un mero ‘scambio’ commerciale.
Qual è il significato di un tale atto?
Con l'invio alla Serbia dei suoi sofisticati sistemi di difesa aerea HQ-22 SAM (missili terra-aria paragonabili gli americani Patriot o ai russi S-300), la Cina ha confermato di avere «progetti di cooperazione e di regolari forniture militari» con i paesi europei disposti a fare da ‘cavallo di Troia’; il ministro degli esteri cinese ha avuto anche la cortesia di informarci che «i progetti di cooperazione annuale Cina-Serbia non sono rivolti contro terzi e non hanno nulla a che fare con la crisi ucraina». La Serbia, principale alleato di Mosca nell'area, ha un conto in sospeso con la NATO e ora – mentre la Russia sotto Vladimir il terribile avvia la sua ascesa imperiale ingoiando l’Ucraina – riapparendo sulla scena riarmata dalla Cina, potrebbe riaprire la perenne questione ‘slava’.
È ormai chiaro che la Cina voglia favorire il disegno imperiale di Putin, certo non per rafforzare la Russia quanto, piuttosto, per incatenarla a un confronto con la NATO e, quindi, per trarre vantaggio dalla reciproca neutralizzazione dei due contendenti: il ‘celeste impero’ non solo avrà così mano libera in Oriente ma acquisterà una posizione egemonica: il mondo che ci aspetta non è quello dei foedera, della cultura e della fratellanza.
La ‘realpolitik’ impone una scelta. A chi guarderebbe una UE rafforzata? All’ Occidente o alla Russia-Cina?
La scelta per l’Europa non può essere che la koinè con gli Stati Uniti: una comunità con tutti i suoi difetti ma anche con i suoi valori, interessi e idee, che sappia difendersi e imporre la pace, sia pure nell’equilibrio del terrore.
Fonte: di Giuseppe Butta'