IL PRESIDENZIALISMO MITE di Marco Cianca
di Marco Cianca
28-05-2024 - EDITORIALE
Il male viene da lontano. Carlo Ghisalberti, concludendo il sesto capitolo della sua “Storia costituzionale d’Italia”, quello che affronta il periodo dall’ascesa di Crispi al caso della Banca Romana, asseriva: “Ma il deteriorarsi della situazione parlamentare e lo scandalismo dilagante nel paese, sempre più diffidente verso la classe politica accusata indiscriminatamente di corruzione, spinsero Giolitti alle dimissioni aprendo così la strada alla prima crisi del regime liberale italiano”. In pratica, la talpa della sfiducia nei confronti del sistema rappresentativo già nel 1893 aveva prodotti danni irreparabili.
Possiamo dire che lo scavo era cominciato subito dopo l’Unità d’Italia. Il trasformismo incarnato da Agostino De Pretis ha perso ogni connotazione di formula politica ed è diventato, in centocinquanta anni, sinonimo di tradimento del mandato popolare. Inciucio, si dice ora, con una parola di sommo disprezzo che tanto piace a Giorgia Meloni e che nega la suprema arte del compromesso, indispensabile metodo per conciliare interessi diversi e mutevoli salvaguardando un clima di convivenza. Insieme con un altro vocabolo, stabilità, contrapposto al presunto carosello di governi che si ritiene frutto sempre di foschi interessi personali e mai di mutate condizioni generali.
Gli italiani, con buona pace di Massimo D’Azeglio, non sono ancora stati fatti. E restano in uno stato di infantilismo politico che brama, per paura, viltà od egoismo, la protezione di un capo (o capa). Sembrava che dopo la tragedia del ventennio fascista e le rovine della guerra, il concetto di democrazia fosse sgorgato limpido e allegro allagando i cunicoli del personalismo. E invece no, la talpa ha continuato la sua opera demolitrice. Dall’Uomo Qualunque ai Cinquestelle, passando attraverso gli effetti collaterali della bomba Tangentopoli, il disprezzo e l’odio per la casta (ora si preferisce dire le élite) sono montati alla stregua di uno tsunami travolgendo i partiti, a loro volta pavidi, senza dignità, pusillanimi, in cerca di continui camuffamenti. Per salvare se stessi hanno buttato alle ortiche gloriose bandiere. E in parallelo è cresciuta quella che Francesco Pallante chiama la “Grande Ossessione”: la riforma costituzionale.
Bettino Craxi la pensava, Silvio Berlusconi, assieme a Massimo D’Alema dopo “il patto della crostata in casa di Gianni Letta, l’ha perseguita, finendo però con rovesciare il tavolo. Precedenti Bicamerali, sempre senza conclusioni pratiche, furono quella presieduta da Aldo Bozzi (1983- 1985) e quella che vide l’alternanza tra Ciriaco De Mita e Nilde Iotti (1993-1994). Matteo Renzi è andato fino in fondo (2016) e ha perso il referendum (subita la sconfitta aveva annunciato l’abbandono della scena ma eccolo ancora qui, sotto i riflettori).
Per la verità, qualche osso alla belva populista è stato gettato. Dal finanziamento pubblico all’insensato taglio dei parlamentari, prezzo pagato dal Pd alla demagogia di Beppe Grillo, quello che voleva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Ora Giorgia Meloni detta Giorgia vuole affondare il coltello, facendo a pezzi il tessuto della Costituzione e tagliando le radici antifasciste. Gli eredi del Msi perseguono il sogno di Almirante. I vinti del 1945 puntano a diventare i vincitori del 2024.
All’impraticabile pasticcio del premierato si accompagna il desiderio di una legge elettorale con un premio di maggioranza talmente indecente che nemmeno Giacomo Acerbo ebbe il coraggio di prevedere. Come andrà a finire? La speranza è che “la madre di tutte le riforme” non riesca a partorire. Ma il problema del discredito politico, dal quale prendono forza le Destre come Anteo dalla terra, permane.
La verità è che bisognerebbe restituire un’anima ai partiti, intesi non quali abiti di pronto uso per cinici leader ma nel senso di consessi volti al dialogo e alla partecipazione. Le sezioni erano anche presìdi del territorio, luoghi di riscatto, di impegno, di pedagogia democratica, di crescita civile. E i congressi, con le mozioni contrapposte, gli scontri sulla linea de tenere, il confronto ideologico, nel significato più nobile e creativo dell’espressione, avevano un ruolo di catartica maturazione. Il lavoro da fare è tanto e il tempo poco.
E allora, come volano di questa ricostruzione, si potrebbe pensare all’elezione diretta del Capo dello Stato. Badate bene: non uno stravolgimento dell’assetto istituzionale ma un suo rafforzamento. Basterebbe cambiare l’articolo 83 della Carta, il primo comma dell’articolo 84 e il secondo comma dell’85. I poteri del Presidente non andrebbero minimamente toccati, l’equilibrio complessivo di pesi e contrappesi resterebbe immutato, il parlamentarismo verrebbe salvaguardato e rilanciato (magari riproponendo il sistema proporzionale, con una soglia di sbarramento ma senza seggi in regalo a chi prende più voti, metodo che non garantisce la stabilità di governo bensì assicura la mortificazione delle minoranze).
Un presidenzialismo mite, con lo scopo di mobilitare ogni sette anni un grande movimento di opinione, rendendo la gente partecipe di un pronunciamento che avrebbe il sapore della nostra identità nazionale. I candidati andrebbero individuati tra insigne personalità, con il contributo essenziale di università, associazioni culturali, fondazioni, istituti di fama internazionale, appositi sondaggi d’opinione. Una sola lista, con al massimo cinque o sei candidati. E ballottaggio finale tra i due che hanno raccolto il maggior numero di consensi, sempre con la garanzia che vadano a votare almeno il settanta per cento degli aventi diritto. Altrimenti si ricomincia da capo. Una festa della democrazia.
L’attuale metodo, d’altronde, è già nel mirino. Paolo Pombeni, neodirettore de “Il Mulino”, in un articolo dell’omonima rivista afferma che sarebbe necessario rafforzare la legittimità del Quirinale, soprattutto nella prospettiva del premierato, allargando la platea degli elettori a ceti politici esterni al Parlamento (sindaci, deputati regionali, rappresentanti del mondo sociale). La nostra sommessa proposta è, al contrario, di stralciare l’improponibile e perniciosa riforma Meloni e procedere con il suffragio universale per l’inquilino del Colle.
Un presidenzialismo di tipo americano, fondato sul federalismo e sulle autonomie locali, era la proposta elaborata dal Partito d’Azione per il nuovo assetto istituzionale, dopo la caduta del fascismo e la soppressione della monarchia. Emilio Lussu disse che, in quel caso, il candidato naturale sarebbe stato Ferruccio Parri, a favore del quale avrebbe fatto votare “anche i paracarri”.
“Oggi sappiamo che, alla Costituente, di repubblica presidenziale nemmeno si parlò, Il PdA fu isolato su questa posizione”, ha scritto Paolo Vittorelli. Il ricordo della dittatura era troppo fresco e l’idea di un uomo solo al comando, pur con tutti i correttivi e le garanzie, faceva orrore. Chissà come sarebbero andate le cose nel nostro tormentato Paese se si fosse trovato il coraggio per compiere una tale scelta.
Riproviamoci con il presidenzialismo mite.
Possiamo dire che lo scavo era cominciato subito dopo l’Unità d’Italia. Il trasformismo incarnato da Agostino De Pretis ha perso ogni connotazione di formula politica ed è diventato, in centocinquanta anni, sinonimo di tradimento del mandato popolare. Inciucio, si dice ora, con una parola di sommo disprezzo che tanto piace a Giorgia Meloni e che nega la suprema arte del compromesso, indispensabile metodo per conciliare interessi diversi e mutevoli salvaguardando un clima di convivenza. Insieme con un altro vocabolo, stabilità, contrapposto al presunto carosello di governi che si ritiene frutto sempre di foschi interessi personali e mai di mutate condizioni generali.
Gli italiani, con buona pace di Massimo D’Azeglio, non sono ancora stati fatti. E restano in uno stato di infantilismo politico che brama, per paura, viltà od egoismo, la protezione di un capo (o capa). Sembrava che dopo la tragedia del ventennio fascista e le rovine della guerra, il concetto di democrazia fosse sgorgato limpido e allegro allagando i cunicoli del personalismo. E invece no, la talpa ha continuato la sua opera demolitrice. Dall’Uomo Qualunque ai Cinquestelle, passando attraverso gli effetti collaterali della bomba Tangentopoli, il disprezzo e l’odio per la casta (ora si preferisce dire le élite) sono montati alla stregua di uno tsunami travolgendo i partiti, a loro volta pavidi, senza dignità, pusillanimi, in cerca di continui camuffamenti. Per salvare se stessi hanno buttato alle ortiche gloriose bandiere. E in parallelo è cresciuta quella che Francesco Pallante chiama la “Grande Ossessione”: la riforma costituzionale.
Bettino Craxi la pensava, Silvio Berlusconi, assieme a Massimo D’Alema dopo “il patto della crostata in casa di Gianni Letta, l’ha perseguita, finendo però con rovesciare il tavolo. Precedenti Bicamerali, sempre senza conclusioni pratiche, furono quella presieduta da Aldo Bozzi (1983- 1985) e quella che vide l’alternanza tra Ciriaco De Mita e Nilde Iotti (1993-1994). Matteo Renzi è andato fino in fondo (2016) e ha perso il referendum (subita la sconfitta aveva annunciato l’abbandono della scena ma eccolo ancora qui, sotto i riflettori).
Per la verità, qualche osso alla belva populista è stato gettato. Dal finanziamento pubblico all’insensato taglio dei parlamentari, prezzo pagato dal Pd alla demagogia di Beppe Grillo, quello che voleva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Ora Giorgia Meloni detta Giorgia vuole affondare il coltello, facendo a pezzi il tessuto della Costituzione e tagliando le radici antifasciste. Gli eredi del Msi perseguono il sogno di Almirante. I vinti del 1945 puntano a diventare i vincitori del 2024.
All’impraticabile pasticcio del premierato si accompagna il desiderio di una legge elettorale con un premio di maggioranza talmente indecente che nemmeno Giacomo Acerbo ebbe il coraggio di prevedere. Come andrà a finire? La speranza è che “la madre di tutte le riforme” non riesca a partorire. Ma il problema del discredito politico, dal quale prendono forza le Destre come Anteo dalla terra, permane.
La verità è che bisognerebbe restituire un’anima ai partiti, intesi non quali abiti di pronto uso per cinici leader ma nel senso di consessi volti al dialogo e alla partecipazione. Le sezioni erano anche presìdi del territorio, luoghi di riscatto, di impegno, di pedagogia democratica, di crescita civile. E i congressi, con le mozioni contrapposte, gli scontri sulla linea de tenere, il confronto ideologico, nel significato più nobile e creativo dell’espressione, avevano un ruolo di catartica maturazione. Il lavoro da fare è tanto e il tempo poco.
E allora, come volano di questa ricostruzione, si potrebbe pensare all’elezione diretta del Capo dello Stato. Badate bene: non uno stravolgimento dell’assetto istituzionale ma un suo rafforzamento. Basterebbe cambiare l’articolo 83 della Carta, il primo comma dell’articolo 84 e il secondo comma dell’85. I poteri del Presidente non andrebbero minimamente toccati, l’equilibrio complessivo di pesi e contrappesi resterebbe immutato, il parlamentarismo verrebbe salvaguardato e rilanciato (magari riproponendo il sistema proporzionale, con una soglia di sbarramento ma senza seggi in regalo a chi prende più voti, metodo che non garantisce la stabilità di governo bensì assicura la mortificazione delle minoranze).
Un presidenzialismo mite, con lo scopo di mobilitare ogni sette anni un grande movimento di opinione, rendendo la gente partecipe di un pronunciamento che avrebbe il sapore della nostra identità nazionale. I candidati andrebbero individuati tra insigne personalità, con il contributo essenziale di università, associazioni culturali, fondazioni, istituti di fama internazionale, appositi sondaggi d’opinione. Una sola lista, con al massimo cinque o sei candidati. E ballottaggio finale tra i due che hanno raccolto il maggior numero di consensi, sempre con la garanzia che vadano a votare almeno il settanta per cento degli aventi diritto. Altrimenti si ricomincia da capo. Una festa della democrazia.
L’attuale metodo, d’altronde, è già nel mirino. Paolo Pombeni, neodirettore de “Il Mulino”, in un articolo dell’omonima rivista afferma che sarebbe necessario rafforzare la legittimità del Quirinale, soprattutto nella prospettiva del premierato, allargando la platea degli elettori a ceti politici esterni al Parlamento (sindaci, deputati regionali, rappresentanti del mondo sociale). La nostra sommessa proposta è, al contrario, di stralciare l’improponibile e perniciosa riforma Meloni e procedere con il suffragio universale per l’inquilino del Colle.
Un presidenzialismo di tipo americano, fondato sul federalismo e sulle autonomie locali, era la proposta elaborata dal Partito d’Azione per il nuovo assetto istituzionale, dopo la caduta del fascismo e la soppressione della monarchia. Emilio Lussu disse che, in quel caso, il candidato naturale sarebbe stato Ferruccio Parri, a favore del quale avrebbe fatto votare “anche i paracarri”.
“Oggi sappiamo che, alla Costituente, di repubblica presidenziale nemmeno si parlò, Il PdA fu isolato su questa posizione”, ha scritto Paolo Vittorelli. Il ricordo della dittatura era troppo fresco e l’idea di un uomo solo al comando, pur con tutti i correttivi e le garanzie, faceva orrore. Chissà come sarebbero andate le cose nel nostro tormentato Paese se si fosse trovato il coraggio per compiere una tale scelta.
Riproviamoci con il presidenzialismo mite.