"IL RISCHIO DELL’ IMPLOSIONE DELLA REPUBBLICA" di Paolo Bagnoli
28-01-2021 - EDITORIALE
Il secondo governo presieduto da Giuseppe Conte è caduto. Al momento non sappiamo cosa verrà dopo, ma a ben vedere, oltre l’oggettivo rilievo che il problema riveste, la sua rilevanza è relativa se non si tiene conto che la fine del gabinetto presieduto dall’ ex-avvocato del popolo non può dirsi solo l’effetto di una “crisi di governo”, bensì di una acuta e aspra “crisi politica.”. Le sue radici sono oramai tanto lontane quanto brucianti nelle carni vive della Repubblica; risalgono alla fine della cosiddetta “prima repubblica”, ma essa segna un paradigma che ha solcato tutto il mezzo secolo seguente risoltosi nell’affermazione del populismo, del sovranismo, della sublimazione dell’antipolitica certificato dagli “apritori delle scatolette di tonno” , ossia dai 5Stelle in compagnia della Lega con in coda il grigio e affannoso dimenarsi del berlusconismo nonché dal protagonismo nazionalistico, plebeo e scomposto, della compagine meloniana.
Questa legislatura è il frutto di tale decorso. Fin dall’inizio, con la nascita del governo Lega-5Stelle,incubato per ottanta giorni consumati nella stesura del contratto di governo alla cui conclusione, in ribaltamento delle norme costituzionali, è stato consegnato al Presidente Mattarella il nome i colui che lo avrebbe presieduto. Era il “maestro” di Alfonso Bonafede ed egli, nei limiti di tutto il possibile, si è dimostrato più accorto e “politico” del discepolo. Il periodo del Conte 1 è stato quello della presa di scena di Matteo Salvini, colui che ha addirittura invocato i pieni poteri e finito, per bramosia scomposta e compulsiva dell’agire, per travolgere se stesso aprendo la strada al Conte 2. Il Pd, considerato il quadro, ha fatto bene a starci; nessuno, però, avrebbe immaginato che sarebbe stato al governo nel modo in cui è stato, a partire dall’acquiescenza alla missione antiparlamentare del grillismo, dimentico che ogni attacco al Parlamento porta solo consensi alla Destra; costituisce una rinuncia alla difesa della democrazia; un qualcosa su cui occorre, al contrario del comportamento dei democratici, essere e restare ben fermi, qualunque costo comporti.
Dismessi i panni dell’avvocato del popolo Conte, con una capacità camaleontica veramente degna di ammirazione, ha ripreso la sua navigazione in un quadro parlamentare nel quale la gioia per il fatto di essere al governo saldava, seppur in una evidente carenza di clima per governare davvero, i 5Stelle e il Pd unitamente alla compagnia di Leu, una specie di “guardia del Pantheon”, sopravvivenza personale di un qualcosa che non c’è più; di un museo senza contenuti perché tutto ciò che è sinistra è consegnato alla storia. Ahimé, è triste, ma è così.
Poi è venuta la pandemia la cui gestione ha imposto al governo un ruolo preciso e non scartabile. La pandemia è divenuta il programma di un governo che un programma vero non l’aveva. Poteva annoverare solo il disinnesco della mina rappresentata da Salvini. Non era poco, ma non bastava. In un contesto nel quale l’attaccamento al governo ha sempre condizionato tutto, in un quadro nel quale il virus ha agito come uno tsunami sanitario, sociale ed economico, Conte ha trovato la sua sublimazione e ha dato vita al suo governo in un insieme di destrutturazione istituzionale e di mal funzionamento delle strutture pubbliche. Quelle sanitarie sono state capaci di dare risposte grazie alla competenza, capacità e sacrificio dei suoi lavoratori di ogni ordine e funzione. Alla fine tutti i modelli si logorano e come l’amore, che è eterno fino a quando non finisce, un giorno il folletto della rottamazione, dell’asfaltazione, lasciamo stare i motivi, si è rimesso in moto. Avendo i numeri dalla sua ha iniziato il proprio gioco; con quali fini veri nessuno ha capito bene, fatto si è che ha gridato la nudità del re; ha gridato che le cose non andavano. Lo ha fatto secondo il proprio temperamento, narcisismo e cinismo, ma lo ha fatto se pur con non poche contraddizioni; tutto così è venuto giù. Per salvare il ministro della giustizia e i suoi provvedimenti i 5Stelle hanno praticamente obbligato Conte a dimettersi mentre il Pd ha continuato a sproloquiare di governo a vocazione europea, patto di legislatura e poi – tutti insieme- no al rottamatore; hanno martellato sulla ricerca di volenterosi, costruttori, responsabili, europeisti; già, europeisti in un Paese il cui governo ha palesato una carenza grave delle strutture sanitarie e rifiuta di chiedere il Mes. Hanno cominciato, cioè, a fare un qualcosa che Silvio Berlusconi aveva saputo fare, sia chiaro che non è un’assoluzione, con ben altra professionalità, scaltrezza, eleganza e senso del concreto. E qui habet audias audiendi audiat! Il codicillo è che sui provvedimenti per la giustizia il rottamatore aveva ragione e il governo torto; in tutta buona fede, il ministro omonimo doveva essere fatto lasciare; ma, a ben vedere, la crisi ha fatto comodo a tanti, Pd compreso.
Una crisi politica, quindi, e non una semplice crisi di governo: la crisi di un sistema che ha smarrito, dai primi anni Novanta il senso, il significato e lo spirito della democrazia repubblicana che si fonda sui partiti politici, con tutto ciò che essi rappresentano. Quando poi si parla della questione partito non lo si fa per invocare il ritorno sulla scena di quelli scomparsi, ma di soggetti che, se pur di nuova generazione, siano geneticamente tali e, come tali, cioé corpi intermedi, capaci di rappresentare l’essere della gente nel farsi ed estrinsecarsi della politica e del suo processo; di generare, inoltre, una “classe politica” degna di questo nome, consapevole di cosa rappresenti e debba essere. Il tutto, nell’ambito della cultura repubblicana derivante della Costituzione.
La cultura politica – quando talora quella tout court – è del tutto assente. Ciò crea un procedimento di negazione nello stare del processo politico ridotto, miserevolmente, all’apparire, alla frasetta infantile che si ritiene porti consenso, alla depressione delle istituzioni. Molto spesso deficita anche la lingua italiana. Nessun uomo politico è perfetto, ma si distingue bene chi ha le qualità per essere definito tale e chi no: chi gettereste giù dalla torre tra Massimo D’Alema e Roberto Fico? A ognuno la non ardua sentenza!
La pavidità di certa classe politica di allora pensò che, demonizzando lo strumento partito, si sarebbe salvata; così non è stato ed essa ha la responsabilità di aver incubato, vezzeggiato e promosso l’antipolitica che poi, crescendo, ci ha dato quello che ci ha dato e da cui non sappiamo come uscirne perché dal quotidiano la politica non può esimersi, ma restando affogata in esso perde il coraggio del suo ruolo e, con ciò, il dovere della costruzione del futuro, del suo compito proprio. E’ vero che si raccoglie quanto si semina, ma pensare di raccogliere senza nemmeno seminare è stupidamente diabolico.
La Repubblica italiana è fondata sui soggetto partito, il suo vuoto crea quello della Repubblica e delle sue istituzioni; crea uno sbandamento generale cui non fanno rimedio i papocchi, gli inciuci, i giochi di prestigio, le combinazioni posticce oppure, ed è ancora peggio, le forzature del reale presentate come fatti veritieri della dinamicità della storia. Avallare tutto ciò significa rendersi complici del disfacimento; mancare del senso del limite, di quello dello stile s e pure di quello dell’ironia.
Dai recenti dibattiti parlamentari ci saremmo aspettati qualche volo alto; ma non ci possono essere voli se mancano le ali: lo spettacolo è stato all’altezza di un dramma politico ridotto a noiosa commedia buffa. E’ chiaro che una soluzione ci vuole ed è altrettanto chiaro che essa va valutata nella sua dimensione entro il reale, ma è anche vero che, se non si prende di petto la questione centrale prima che marcisca del tutto, qualunque soluzione venga adottata – se pur differenziata valorialmente l’una dall’altra – anche la migliore sarà solo la meno peggio e costituirà nient’altra cosa che un altro passo verso l’implosione della Repubblica.