IL RITORNO DEGLI ETRUSCHI di Marco Cianca
di Marco Cianca
21-02-2024 - EDITORIALE
Paolo Vittorelli, da fine intellettuale qual era, la metteva così: “Chiunque osservi la storiografia italiana, dedicata alle fonti ideali e politiche dell'Italia democratica e repubblicana scaturita dalla Resistenza, scopre che il parlare di GL e dei giellisti è come parlare degli Etruschi nell'Italia antica, ossia di un popolo del quale si è costretti ad ammettere l'esistenza storica e magari pure l'importanza, dato che ha lasciato tracce di sé da tutte le parti; ma, non conoscendone la lingua, si finge di non sapere da dove venga, che cosa abbia prodotto, dove sia andato a finire”.
Lo stesso vale per gli azionisti, ormai ridotti a figure mitiche di un passato leggendario. Come era possibile che fossero così coerenti, incorruttibili, lucidi, senza paura? Alieni in un'Italia dedita al compromesso, alla faciloneria, alla scorciatoia, alla pigrizia, all'invidia, all'avidità. Intrisa di egoistico opportunismo. E priva di una vera coscienza democratica. Prima, durante e dopo il ventennio. Diceva Umberto Calosso: “Noi siano indietro di tre rivoluzioni. La rivoluzione protestante, che ha restituito la responsabilità dell'individuo davanti a Dio. La rivoluzione francese, che gli ha restituito il senso della libertà e dell'uguaglianza. La rivoluzione bolscevica, che gli ha dato la coscienza di classe. Alla prima, noi abbiamo opposto la Controriforma. Alla seconda, i Savoia. Alla terza, il fascismo”.
Lo stesso Vittorelli ammetteva che c'era del vero in queste parole. E aggiungeva: “Se la guerra partigiana non avesse saputo fare propri i motivi di quelle tre rivoluzioni, sia pure in termini moderni ed eliminandone i difetti, dal settarismo al giacobinismo e allo stalinismo, saremmo rimasti ancora una volta a rimorchio di chi fosse andato più veloce di noi”.
Eppure, nemmeno la Resistenza ha reso compatibili i valori dell'azionismo con la maggioritaria subcultura italiota. Mai disposta ad ammettere i propri errori e sempre incline a dimenticare il passato per tendere ad un futuro ipocrita. Come Pinocchio, i nostri ineffabili compatrioti tirano il martello al grillo parlante perché non vogliono ascoltare i suoi saggi consigli.
Tornano alla mente le potenti immagini usate da Carlo Levi, nel settimo capitolo de “L'Orologio”, per descrivere le dimissioni di Ferruccio Parri. Gli uscieri del Viminale “avevano le facce distese di chi si è tolto un gran peso dal cuore: essi sentivano che era l'ultimo giorno nel quale degli sconosciuti senza titolo, con facce e vestiti che parevano di un'altra razza, penetravano in quella loro casa; che essa non sarebbe mai più stata profanata; che quel Palazzo, che aveva resistito imperturbabile a tante bufere, sarebbe finalmente tornato in loro possesso, per loro, per loro soli. Non avrebbero più dovuto trepidare al pensiero di folli riforme, di insensati cambiamenti, di crudeli epurazioni, di ridicole pretese di efficienza: non avrebbero più dovuto salutare qualcuno che non si peritava di umiliarli schivando gli onori, che li insultava rifiutando persino il titolo di Eccellenza, così dolce sulla bocca. Non si sarebbero più nascosti, con senso di colpa …Via i profani dal tempio! “.
Il Presidente “era diverso, come straniero; tra gente esuberante, era schivo; in un Paese amante della retorica e delle frasi, era scarno e ritroso; dove si ammira l'affermazione di sé, sceglieva la parte più oscura, la sedia più modesta”. Nel concludere il suo discorso stilò una diagnosi “dura ed esatta”: “Ritorno di un vecchio mondo, tentativo di annullare tutto quello che era stato fatto, e, infine, la grande parola. Colpo di stato”.
Un giudizio eccessivo? Era il novembre del 1945, sono passati 79 anni, da Palazzo Chigi domina un partito che ha nel simbolo la fiamma ardente sul cenotafio di Mussolini. E allora sì, aveva ragione Parri. Il dolore espresso dal suo volto, “impastato della materia impalpabile del ricordo, costruito col pallido colore dei morti, con la dolente immagine dei giovani morti, dei fucilati, degli impiccati, dei torturati, con le lacrime e i freddi sudore dei feriti, dei rantolanti, degli angosciati, dei malati, degli orfani, nelle città e sulle montagne”, aveva un connotato profetico. La Resistenza stava finendo in un museo, come gli Etruschi.
Gente di un altro mondo. Quando, febbraio del 1946, bisognava indicare ad Alcide De Gasperi, un nome per il Commercio Estero, nel comitato centrale del PdA fu proposto Aurelio Peccei, uno dei fondatori torinesi del Partito d'Azione, uomo di specchiata onestà e dalle indubbie capacità tecniche, politiche e diplomatiche, qualcuno, tra i quali Vittorio Foa, eccepì che venendo dalla Fiat potesse avere una fisionomia criticabile. Tutto doveva essere adamantino. Altro che conflitto di interessi! Oggi, i cognati diventano ministri.
Sì. C'è bisogno di un nuovo Partito d'Azione.
Lo stesso vale per gli azionisti, ormai ridotti a figure mitiche di un passato leggendario. Come era possibile che fossero così coerenti, incorruttibili, lucidi, senza paura? Alieni in un'Italia dedita al compromesso, alla faciloneria, alla scorciatoia, alla pigrizia, all'invidia, all'avidità. Intrisa di egoistico opportunismo. E priva di una vera coscienza democratica. Prima, durante e dopo il ventennio. Diceva Umberto Calosso: “Noi siano indietro di tre rivoluzioni. La rivoluzione protestante, che ha restituito la responsabilità dell'individuo davanti a Dio. La rivoluzione francese, che gli ha restituito il senso della libertà e dell'uguaglianza. La rivoluzione bolscevica, che gli ha dato la coscienza di classe. Alla prima, noi abbiamo opposto la Controriforma. Alla seconda, i Savoia. Alla terza, il fascismo”.
Lo stesso Vittorelli ammetteva che c'era del vero in queste parole. E aggiungeva: “Se la guerra partigiana non avesse saputo fare propri i motivi di quelle tre rivoluzioni, sia pure in termini moderni ed eliminandone i difetti, dal settarismo al giacobinismo e allo stalinismo, saremmo rimasti ancora una volta a rimorchio di chi fosse andato più veloce di noi”.
Eppure, nemmeno la Resistenza ha reso compatibili i valori dell'azionismo con la maggioritaria subcultura italiota. Mai disposta ad ammettere i propri errori e sempre incline a dimenticare il passato per tendere ad un futuro ipocrita. Come Pinocchio, i nostri ineffabili compatrioti tirano il martello al grillo parlante perché non vogliono ascoltare i suoi saggi consigli.
Tornano alla mente le potenti immagini usate da Carlo Levi, nel settimo capitolo de “L'Orologio”, per descrivere le dimissioni di Ferruccio Parri. Gli uscieri del Viminale “avevano le facce distese di chi si è tolto un gran peso dal cuore: essi sentivano che era l'ultimo giorno nel quale degli sconosciuti senza titolo, con facce e vestiti che parevano di un'altra razza, penetravano in quella loro casa; che essa non sarebbe mai più stata profanata; che quel Palazzo, che aveva resistito imperturbabile a tante bufere, sarebbe finalmente tornato in loro possesso, per loro, per loro soli. Non avrebbero più dovuto trepidare al pensiero di folli riforme, di insensati cambiamenti, di crudeli epurazioni, di ridicole pretese di efficienza: non avrebbero più dovuto salutare qualcuno che non si peritava di umiliarli schivando gli onori, che li insultava rifiutando persino il titolo di Eccellenza, così dolce sulla bocca. Non si sarebbero più nascosti, con senso di colpa …Via i profani dal tempio! “.
Il Presidente “era diverso, come straniero; tra gente esuberante, era schivo; in un Paese amante della retorica e delle frasi, era scarno e ritroso; dove si ammira l'affermazione di sé, sceglieva la parte più oscura, la sedia più modesta”. Nel concludere il suo discorso stilò una diagnosi “dura ed esatta”: “Ritorno di un vecchio mondo, tentativo di annullare tutto quello che era stato fatto, e, infine, la grande parola. Colpo di stato”.
Un giudizio eccessivo? Era il novembre del 1945, sono passati 79 anni, da Palazzo Chigi domina un partito che ha nel simbolo la fiamma ardente sul cenotafio di Mussolini. E allora sì, aveva ragione Parri. Il dolore espresso dal suo volto, “impastato della materia impalpabile del ricordo, costruito col pallido colore dei morti, con la dolente immagine dei giovani morti, dei fucilati, degli impiccati, dei torturati, con le lacrime e i freddi sudore dei feriti, dei rantolanti, degli angosciati, dei malati, degli orfani, nelle città e sulle montagne”, aveva un connotato profetico. La Resistenza stava finendo in un museo, come gli Etruschi.
Gente di un altro mondo. Quando, febbraio del 1946, bisognava indicare ad Alcide De Gasperi, un nome per il Commercio Estero, nel comitato centrale del PdA fu proposto Aurelio Peccei, uno dei fondatori torinesi del Partito d'Azione, uomo di specchiata onestà e dalle indubbie capacità tecniche, politiche e diplomatiche, qualcuno, tra i quali Vittorio Foa, eccepì che venendo dalla Fiat potesse avere una fisionomia criticabile. Tutto doveva essere adamantino. Altro che conflitto di interessi! Oggi, i cognati diventano ministri.
Sì. C'è bisogno di un nuovo Partito d'Azione.