"IL TARLO DELLA PACE" di Paolo Bagnoli
di Paolo Bagnoli
23-01-2024 - EDITORIALE
Il tarlo che corrode, con inflessibile tenacia, la convivenza civile dell’umanità disgregandola e portando gli uomini alla guerra, non smette mai di lavorare. Mai, come in questo momento, sembra essersi messo all’opera. Quello che succede in Ucraina e in Medio-Oriente è, più o meno, se pur con una troppo abbondante approssimazione, a conoscenza di tutti; di quante siano le altre guerre che infestano il mondo si ha una conoscenza più che superficiale.
Le diplomazie sono come disorientate, le organizzazioni internazionali incapaci di operare per soluzioni che blocchino almeno i troppi massacri in atto; si invoca la pace, ma cosa in effetti essa sia, nessuno sembra sapere.
Già, la pace: parola magica, invocazione nobile, aspirazione perenne e limitata nei tempi della storia; un qualcosa che definisce la mancanza di guerra. Certo che essa è negazione della pace, ma ridurla solo a ciò non aiuta a capire il problema e, quindi, a governarla. Infatti, per fare una politica della pace bisogna che essa faccia parte della politica. Vale a dire che, prima che una condizione della realtà divenga un concetto della politica medesima; fine esplicito e implicito nel governo delle umane genti; una conquista che presuppone un’ideologia che ispiri un operare che tenda alla coesione sociale e al bene comune. Quest’ultimo riguarda anche le relazioni internazionali. Trattandosi di un concetto essa richiede una cultura politica che la interpreti e sia sostegno alla sua realizzazione; vale a dire, una cultura politica che riguardi l’aspetto della politica interna dei vari Stati e quello della politica estera, ossia tra i vari Stati. La politica estera, infatti, è quella che uno Stato fa con un altro Stato; quella internazionale concerne, invece, un vasto ordine riguardante più Stati in relazione al quadro complessivo rappresentato da tutti gli Stati della terra.
Se si imposta la questione tenendo conto di tali fattori si comprende come la pace all’interno sia aconflittuale poiché il perseguimento di politiche di giustizia rende possibile la coesione sociale e, all’esterno, il governo delle differenze tra i vari Stati in un insieme di rispetto, cooperazione e realismo praticando una politica che correli realismo e convivenza civile. Ancora una volta siamo alla questione della giustizia; nello specifico fortemente legata alla libertà dei popoli. I fatti ci dicono che la deterrenza garantita dalle armi alla lunga non regge.
Ci sembra già di sentire le obbiezioni alle nostre osservazioni; la più semplice è che la questione è più complessa: vale a dire, l’osservazione canonica di chi non ha idee chiare in proposito e pensa di cavarsela con un atteggiamento ultronico. Essendo tutto più complesso, tutto è più avanti e, nel frattempo, il presente ci scappa di mano.
Per dirla con parole povere dove c’è ingiustizia non c’è pace: vale in senso generale. Ce lo dice la condizione di un mondo in bilico e vicino a un terzo conflitto mondiale. Papa Francesco lo dice da tempo denunciando la nudità del Re così come il segretario generale delle Nazioni Unite parla a proposito di fronte alla tragedia di Gaza, ma anche lui è inascoltato.
Il ragionamento va, tuttavia, allargato. Siamo immersi, infatti, dentro un capitalismo sfrenato, senza ritegno e senza regole con la deificazione del mercato quale luogo di libertà; il problema, sembra essere solo soddisfare, eccitandoli, i consumi, creare rendite passive e, quindi, profitti spropositati. Il risultato è che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Certo che occorre andare a vedere dentro tali categorie poiché la questione è politica e non sociologica.
A Davos, ogni anno, il capitalismo celebra se stesso, le proprie glorie, il mercatismo quale unica filosofia possibile. Quest’ anno sembra non poter sfuggire alla propria crisi cercando di individuare le strade non solo per superarla, ma per far sì che i processi accumulativi riprendano fiato e, quindi, la rendita e i profitti siano ancora più ampi di prima. Infatti punta sulla questione dell’Intelligenza artificiale pensando solo ai profitti che un mondo governato dagli algoritmi può generare senza porsi il problema della sorte dell’umanità anche se non mancano voci autorevoli le quali, non negando il progresso, mettono in guardia sulle ricadute sociali – e quindi di civiltà – che tali scelte possono comportare. In tutto siffatto complesso groviglio di problemi la categoria della pace, quale concetto della politica, è del tutto assente al pari di quello della sorte ambientale del pianeta, della Terra che implode con toni dal sapore biblico.
Nell’Occidente capitalistico, in crisi anche per l’incalzare sempre più forte di un geopoliticismo fattore di divisione e di sovranismo populistico, si registra così la decadenza della democrazia con l’acuirsi dei contrasti interni e nel confronto armato riapertosi tra l’Europa dell’Ovest e quella dell’Est. Naturalmente c’è il mondo orientale, socialmente più arretrato, in cui il vivere civile prescinde dalla lex e dallo jus, ove le plebi povere sono alla mercé della propria disperazione; i popoli quasi sempre incastrati l’uno nell’altro con conflitti che affondano le radici nella notte del tempi e per i quali il dato religioso rappresenta l’unica identificazione e può essere sfruttato, come avviene, per fini politici: qui la rivolta prende talora la forma del terrorismo. L’Occidente degli algoritmi finisce sotto schiaffo: accanto alla propria debolezza e aspirazione a un consumo che sia sempre più consumo, aggiunge una paura che incide, vigorosamente, nel depotenziamento dei sistemi democratici. Insomma , è il caso di dire, che tout se tient poiché alla fine i fili si ricollegano e si intrecciano in una complessità ancor più intricata.
Alla crisi della democrazia si accompagna sempre quella del diritto. Per non andare troppo lontano, nella nostra Europa, i casi della Polonia e dell’Ungheria fanno testo. Ma anche in Italia avvertiamo segnali preoccupanti. Per esempio, quando si prospetta di cambiare la legge per favorire il gioco di relazione tra i partiti di governo come nel caso sul cosiddetto terzo mandato dei presidenti di Regione oppure da quanto emerge dalla sentenza della Cassazione che, in merito ai saluti romani, in aperta negazione con l’art.5 della legge Scelba, non riconosce nei saluti romani della falange schierata ad Acca Larenzia un reato poiché non è detto che alzare il braccio destro gridando “presente” secondo un macabro rituale che ha un preciso riferimento e significato, voglia dire che quelli avevano in mente di ricostituire un partito fascista. Quella della Cassazione ci sembra una sentenza politica. La sentenza della Cassazione ci dice che per accertare se fare il saluto romano sia un reato occorrerebbe una macchina capace di fare i raggi alle intenzioni! Ma insomma, scherziamo. La verità è che il peso del sovranismo autoritativo comincia a farsi sentire in modo serio anche ai piani alti della giurisdizione ;non pensavamo che si fosse giunti a questo punto, ma quando poi sentiamo il vice-presidente del CSM affermare che l’organo che siede a Palazzo dei Marescialli ha deragliato, allora cominciamo a pensare che il tarlo abbia lavorato in più direzioni e continui alacremente a lavorare.
Speriamo naturalmente di peccare in pessimismo. I fatti lo diranno. Quello che sappiamo è che i tarli creano infezione e siamo sempre più convinti che inserire la pace tra i concetti della politica concreta e non utopica conferisce motivo per non mollare e ricordarci che, in fondo, il presente e il futuro dipendono solo da noi. E che, ricordando il segretario fiorentino, sulla libertà bisogna tenerci le mani sopra.
Le diplomazie sono come disorientate, le organizzazioni internazionali incapaci di operare per soluzioni che blocchino almeno i troppi massacri in atto; si invoca la pace, ma cosa in effetti essa sia, nessuno sembra sapere.
Già, la pace: parola magica, invocazione nobile, aspirazione perenne e limitata nei tempi della storia; un qualcosa che definisce la mancanza di guerra. Certo che essa è negazione della pace, ma ridurla solo a ciò non aiuta a capire il problema e, quindi, a governarla. Infatti, per fare una politica della pace bisogna che essa faccia parte della politica. Vale a dire che, prima che una condizione della realtà divenga un concetto della politica medesima; fine esplicito e implicito nel governo delle umane genti; una conquista che presuppone un’ideologia che ispiri un operare che tenda alla coesione sociale e al bene comune. Quest’ultimo riguarda anche le relazioni internazionali. Trattandosi di un concetto essa richiede una cultura politica che la interpreti e sia sostegno alla sua realizzazione; vale a dire, una cultura politica che riguardi l’aspetto della politica interna dei vari Stati e quello della politica estera, ossia tra i vari Stati. La politica estera, infatti, è quella che uno Stato fa con un altro Stato; quella internazionale concerne, invece, un vasto ordine riguardante più Stati in relazione al quadro complessivo rappresentato da tutti gli Stati della terra.
Se si imposta la questione tenendo conto di tali fattori si comprende come la pace all’interno sia aconflittuale poiché il perseguimento di politiche di giustizia rende possibile la coesione sociale e, all’esterno, il governo delle differenze tra i vari Stati in un insieme di rispetto, cooperazione e realismo praticando una politica che correli realismo e convivenza civile. Ancora una volta siamo alla questione della giustizia; nello specifico fortemente legata alla libertà dei popoli. I fatti ci dicono che la deterrenza garantita dalle armi alla lunga non regge.
Ci sembra già di sentire le obbiezioni alle nostre osservazioni; la più semplice è che la questione è più complessa: vale a dire, l’osservazione canonica di chi non ha idee chiare in proposito e pensa di cavarsela con un atteggiamento ultronico. Essendo tutto più complesso, tutto è più avanti e, nel frattempo, il presente ci scappa di mano.
Per dirla con parole povere dove c’è ingiustizia non c’è pace: vale in senso generale. Ce lo dice la condizione di un mondo in bilico e vicino a un terzo conflitto mondiale. Papa Francesco lo dice da tempo denunciando la nudità del Re così come il segretario generale delle Nazioni Unite parla a proposito di fronte alla tragedia di Gaza, ma anche lui è inascoltato.
Il ragionamento va, tuttavia, allargato. Siamo immersi, infatti, dentro un capitalismo sfrenato, senza ritegno e senza regole con la deificazione del mercato quale luogo di libertà; il problema, sembra essere solo soddisfare, eccitandoli, i consumi, creare rendite passive e, quindi, profitti spropositati. Il risultato è che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Certo che occorre andare a vedere dentro tali categorie poiché la questione è politica e non sociologica.
A Davos, ogni anno, il capitalismo celebra se stesso, le proprie glorie, il mercatismo quale unica filosofia possibile. Quest’ anno sembra non poter sfuggire alla propria crisi cercando di individuare le strade non solo per superarla, ma per far sì che i processi accumulativi riprendano fiato e, quindi, la rendita e i profitti siano ancora più ampi di prima. Infatti punta sulla questione dell’Intelligenza artificiale pensando solo ai profitti che un mondo governato dagli algoritmi può generare senza porsi il problema della sorte dell’umanità anche se non mancano voci autorevoli le quali, non negando il progresso, mettono in guardia sulle ricadute sociali – e quindi di civiltà – che tali scelte possono comportare. In tutto siffatto complesso groviglio di problemi la categoria della pace, quale concetto della politica, è del tutto assente al pari di quello della sorte ambientale del pianeta, della Terra che implode con toni dal sapore biblico.
Nell’Occidente capitalistico, in crisi anche per l’incalzare sempre più forte di un geopoliticismo fattore di divisione e di sovranismo populistico, si registra così la decadenza della democrazia con l’acuirsi dei contrasti interni e nel confronto armato riapertosi tra l’Europa dell’Ovest e quella dell’Est. Naturalmente c’è il mondo orientale, socialmente più arretrato, in cui il vivere civile prescinde dalla lex e dallo jus, ove le plebi povere sono alla mercé della propria disperazione; i popoli quasi sempre incastrati l’uno nell’altro con conflitti che affondano le radici nella notte del tempi e per i quali il dato religioso rappresenta l’unica identificazione e può essere sfruttato, come avviene, per fini politici: qui la rivolta prende talora la forma del terrorismo. L’Occidente degli algoritmi finisce sotto schiaffo: accanto alla propria debolezza e aspirazione a un consumo che sia sempre più consumo, aggiunge una paura che incide, vigorosamente, nel depotenziamento dei sistemi democratici. Insomma , è il caso di dire, che tout se tient poiché alla fine i fili si ricollegano e si intrecciano in una complessità ancor più intricata.
Alla crisi della democrazia si accompagna sempre quella del diritto. Per non andare troppo lontano, nella nostra Europa, i casi della Polonia e dell’Ungheria fanno testo. Ma anche in Italia avvertiamo segnali preoccupanti. Per esempio, quando si prospetta di cambiare la legge per favorire il gioco di relazione tra i partiti di governo come nel caso sul cosiddetto terzo mandato dei presidenti di Regione oppure da quanto emerge dalla sentenza della Cassazione che, in merito ai saluti romani, in aperta negazione con l’art.5 della legge Scelba, non riconosce nei saluti romani della falange schierata ad Acca Larenzia un reato poiché non è detto che alzare il braccio destro gridando “presente” secondo un macabro rituale che ha un preciso riferimento e significato, voglia dire che quelli avevano in mente di ricostituire un partito fascista. Quella della Cassazione ci sembra una sentenza politica. La sentenza della Cassazione ci dice che per accertare se fare il saluto romano sia un reato occorrerebbe una macchina capace di fare i raggi alle intenzioni! Ma insomma, scherziamo. La verità è che il peso del sovranismo autoritativo comincia a farsi sentire in modo serio anche ai piani alti della giurisdizione ;non pensavamo che si fosse giunti a questo punto, ma quando poi sentiamo il vice-presidente del CSM affermare che l’organo che siede a Palazzo dei Marescialli ha deragliato, allora cominciamo a pensare che il tarlo abbia lavorato in più direzioni e continui alacremente a lavorare.
Speriamo naturalmente di peccare in pessimismo. I fatti lo diranno. Quello che sappiamo è che i tarli creano infezione e siamo sempre più convinti che inserire la pace tra i concetti della politica concreta e non utopica conferisce motivo per non mollare e ricordarci che, in fondo, il presente e il futuro dipendono solo da noi. E che, ricordando il segretario fiorentino, sulla libertà bisogna tenerci le mani sopra.