"LA TREGUA" di Paolo Bagnoli
26-05-2021 - EDITORIALE
E’ arrivata, dopo la guerra, la tregua tra Israele e Hamas, ma il processo di pace sembra allontanarsi sempre più in un futuro piano di incognite. La guerra è stata di attacco da parte di Hamas e di difesa da quella di Israele il quale, nella sua storia, non ha mai attaccato nessuno e quando è stato chiamato alla guerra si è dovuto necessariamente difendere.
Come sia andato il conflitto è stato largamente documentato; le vittime e le distruzioni che ha provocato ci hanno riempito di sofferenza, ma crediamo che la tregua non porti la rinascita di una politica che garantisca la pace tra due popoli che sono uno nell’ altro fino a che si continuerà a ritenere lo Stato di Israele come abusivo chiedendone la distruzione. Questo ci sembra anche il primo fondamentale passo perché il popolo palestinese, costretto ad una dura esistenza, acquisti piena autonomia politica e non sia, come è sempre stato, strumentalizzato da vari Paesi arabi per fini diversi dalla sua causa.
Svanita la speranza dei primi anni Novanta di due popoli e due Stati riteniamo che la guerra tornerà anche perché questo scontro ha rafforzato sia il radicalismo di Hamas che la destra israeliana rappresentata dal suo primo ministro. Il radicalismo del primo soggetto reso più forte dalla debolezza dell’Autorità Nazionale Palestinese che su Gaza non ha nessuna presa e dal sostegno che ad esso porta l’Iran e il disegno neottomano del presidente turco, dietro il quale non è difficile intravedere l’ombra dei Fratelli Mussulmani, acerrimi nemici della dirigenza egiziana che la tregua ha contrattato. I radicalismi, per ragioni diverse e convergenti, devono sempre avere un nemico verso cui muovere. Sul versante israeliano il premier Netanyhau, che stava per essere mandato a casa, rimarrà dov’è e con lui continueranno a fare corpo gli interessi delle frazioni ortodosse e quelli dei coloni la cui occupazione dei territori è irresponsabile; probabilmente Metanyhau pensa a un Israele senza arabri, ma sono aspirazioni, a ben vedere, contrarie agli interessi vitali dello Stato. Quella israeliana è una brutta destra, arrogante e provocatoria che, sul piano internazionale, erode il consenso verso gli israeliani finendo per coniugare un’impropria e pericolosa equazione tra sionismo ed ebraismo con il conseguente risultato di allargare il sentimento antisemita che è già largamente e pericolosamente diffuso.
La politica dei coloni non è sionismo che, storicamente, è un fenomeno legato al ritorno degli ebrei in una terra ove ci sono sempre stati. Tornare, tuttavia, non significa prepotenza verso le altre popolazioni del luogo; in ogni caso è un fenomeno diverso dall’essere popolo ebraico cui la comunità internazionale, nel 1948, ha riconosciuto la legittimità di avere uno Stato così come lo riconobbe, contestualmente, al popolo arabo che stava allora sotto i giordani nella Cisgiordania e gli egiziani a Gaza. Lì cominciò lo scontro; i paesi arabi mossero guerra al nuovo Stato – peraltro non impedente a chi non è ebreo di farne parte e ,perdendola, persero lo Stato loro, quello non nato, ma che, se fosse stato creato, avrebbe impedito il consumarsi di una tragedia che dura da quasi quattro decenni. Certo che c’è la spinosa questione di Gerusalemme, là dove i due popoli si incastrano per motivi religiosi e riferimenti simbolici. La questione è complicatissima.ma certo senza l’applicarsi della ragione politica la città, che dovrebbe rappresentare il senso della pace e della speranza, sarà sempre destinata a essere il centro focale di ogni conflitto. Forse, per Gerusalemme, occorrerebbe un disegno internazionale.
La politica è idealità e concretezza. Possiamo sforzarci di comprendere tutto, ma ci è impossibile trovare una plausibile motivazione che giustifichi gli sfratti di quattro famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah in base a documenti di due secoli orsono. Per le stesse ragioni anche le case abitate dai palestinesi, passate agli israeliani in seguito ai conflitti perduti, dovrebbero tornare agli eredi dei proprietari originari. Insomma, per costruire bisogna dare senso alle cose, quando questo non c’è, tutto può succedere e la guerra, magari in un escalation di tensioni e di interessi geopolitici complessi, non si sa che piega possa prendere. Non ha senso richiamarsi alla pace se non si dà senso alle cose che realmente costruiscono i processi di pace e, quindi, di convivenza anche se difficile e complicata perché tutto non si può realizzare in un sol attimo, ma solo con la pazienza e la volontà di smussare con ragione i motivi per conflitti sempre più pericolosi e sempre più coinvolgenti larghe fasce di una zona molto delicata e a rischio permanente. Come quasi sempre l’Europa non batte colpo.