L’EUROPA DELLE CONTRADDIZIONI TRA MACRON E ORBÁN
22-07-2024 - CRONACHE SOCIALISTE
Le ultime settimane sono state dense di eventi. Almeno tre di questi rivestono notevole importanza. Abbiamo avuto i due turni delle elezioni legislative in Francia indette dal presidente Macron a seguito del deludente risultato che il suo partito aveva riportato alle europee, la vittoria del partito laburista guidato da Keir Starmer nelle elezioni anticipate per il rinnovo della Camera dei Comuni indette dal primo ministro uscente Rishi Sunak nel regno Unito e, ultima ma non certo per importanza, la presidenza di turno del Consiglio dell'UE al leader sovranista ungherese Viktor Orbán.
Tutto questo andrà senz'altro a incidere sull'inizio della decima legislatura del Parlamento europeo. Nel momento in cui scriviamo sono ancora in corso le manovre per la composizione dei vari gruppi presenti nell'assemblea. Vediamo più da vicino cos'è successo.
In Francia la scelta di Macron di portare il paese al voto non aveva convinto neanche il suo mentore Jacques Attali né in Italia una personalità che certo non gli è ostile come Romano Prodi. L'idea era considerata un azzardo anche se qualche commentatore aveva parlato di “mossa del cavallo”, ossia la mossa che scombina i piani. In pochi davano credito a quest'ipotesi. L'idea che vi stava dietro era quella di costringere il Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella, una volta giunto al governo, a misurarsi con la gestione quotidiana del potere, in una situazione resa difficile dall'alto debito pubblico e dalla necessità di varare una legge di bilancio impegnativa e così logorarlo. I risultati del primo turno delle elezioni sembravano aver obbedito agli istinti della Francia profonda, stanca delle élites e prigioniera di pulsioni sovraniste ma i ballottaggi hanno cambiato le carte in tavola con le due sinistre, la moderata e la radicale che ritrovano uno spirito unitario nella comune volontà di bloccare l'avanzata della destra. È il consueto barrage républicain, il cordone sanitario che viene steso intorno alla destra ogni volta che sembra avvicinarsi al governo? Sì e no. Normalmente a questo escamotage si ricorreva nel secondo turno delle elezioni presidenziali, ad esempio nel 2002, quando Chirac travolse al ballottaggio Jean-Marie Le Pen. In questo caso era in ballo la maggioranza assoluta dei seggi all'Assemblea nazionale e accordi di desistenza scattati in numerosi collegi hanno permesso di far convergere i voti di un'ampia maggioranza sul candidato meglio piazzato opposto alla destra portando così anche elettori di centrodestra moderato a votare candidati di sinistra e viceversa. Tutto questo, naturalmente, favorito dal sistema elettorale uninominale maggioritario a doppio turno.
Stavolta questo fronte si è aperto a tutti gli oppositori del Rassemblement National. Il “fronte repubblicano” ha imbarcato anche i candidati della France insoumise di Jean-Luc Mélenchon il cui programma comprende una serie di misure economiche difficilmente compatibili con i conti dello Stato francese. I risultati del secondo turno hanno dato ragione a Macron e al fronte repubblicano, peccato solo che il fronte sia un cartello elettorale ma non una coalizione di governo. Nel momento in cui è stata annunciata la vittoria a sinistra, Mélenchon con i toni tribunizi e declamatori che gli sono propri ha immediatamente reclamato per sé la carica di Primo ministro, richiesta che è stata subito respinta al mittente come irricevibile.
A una settimana ormai dalla proclamazione dei risultati non si vedono all'orizzonte soluzioni utili a risolvere la crisi. Il Rassemblement National è stato, sì, battuto ma la strada per la governabilità sembra ancora lunga. Il partito del presidente non ha la maggioranza parlamentare ma neppure gli altri partiti ce l'hanno. Per una volta, pur avendo scampato al pericolo costituito dal duo Le Pen-Bardella, la Francia dovrà incamminarsi sul sentiero dei governi di coalizione tornando ai tempi bui della Quarta Repubblica, un tipo di governo al quale il paese è ormai disabituato dal 1958. Resta da valutare se la scommessa di Macron abbia avuto un esito positivo. Il risultato ci sembra ci sembra di segno ambivalente. Certamente essa ha raggiunto l'obiettivo di bloccare la destra ma era nei disegni del presidente di tagliare entrambe le ali estreme – a destra come a sinistra – del quadro politico. Sotto questo profilo, invece, l'iniziativa presidenziale ha sortito l'effetto di risvegliare (e con un ottimo risultato!) il partito di Mélenchon composto anche di personaggi in odor di putinismo e di antisemitismo. In questo modo ha ridotto ma non spento il pericolo a destra (anche se il RN sta cercando il modo di mostrarsi più presentabile in vista delle presidenziali del 2027 in cui correrà ancora una volta la domina Marine Le Pen) riaccendendo, allo stesso tempo, pericolosi focolai di protesta anche a sinistra. Forse il redivivo François Hollande, ricandidatosi con successo, potrà avere l'occasione da Macron di far dimenticare il suo opaco settennato all'Eliseo con un incarico da Primo ministro.
Nel Regno Unito, dopo sedici anni di ininterrotto governo conservatore, i tories hanno dovuto abdicare al nuovo leader del partito laburista Sir Keir Starmer. Il partito conservatore ha pagato a caro prezzo le convulsioni degli ultimi quattordici anni in cui si sono succeduti cinque premier alcuni dei quali sono stati nettamente al di sotto delle aspettative come il giocherellone Boris Johnson e Liz Truss che sembrava capitata per caso al 10 di Downing Street. Le amenità di Johnson e il suo comportamento irresponsabile ai tempi della pandemia hanno contribuito a minare la fiducia dei britannici nel partito conservatore. Di Starmer si dice sia un uomo grigio sostanzialmente privo di qualità da cui forse è lecito aspettarsi più di quello che si sarebbe portati a credere, del resto ha il vantaggio di essere succeduto a Jeremy Corbyn la cui leadership ha coinciso con il più basso numero di seggi ottenuti dal partito laburista da prima della Seconda guerra mondiale.
L'ultimo elemento di questa sommaria analisi è la presidenza di turno dell'UE nelle mani di Orbán. Non era certo una sorpresa che il leader ungherese avrebbe avuto la carica. Il meccanismo della rotazione fra i paesi membri è in uso fin dal 1958. Molte cancellerie europee tremavano all'idea e non a torto visto che appena investito, Orbán ha pensato bene di recarsi in visita a Kiev, Mosca e Pechino per forzare la situazione della guerra in Ucraina. Quel che ha fatto, però, l'ha fatto senza un mandato dell'UE e in rappresentanza solo di se stesso e del suo paese. Si pone ora un problema molto serio anche di ordine giuridico oltre che politico. È legittimo che il leader di un paese sotto sorveglianza da sei anni per violazione dei valori comuni dell'UE (art. 7, par. 1 del Trattato sull'Unione europea) possa ricoprire la presidenza del Consiglio dell'UE? È compatibile questo ruolo con un politico che fregia con orgoglio dell'aggettivo illiberale? Possono questi presupposti garantire l'osservanza dei principi della Rule of law che sono alla base dell'Unione europea?
Tutto questo andrà senz'altro a incidere sull'inizio della decima legislatura del Parlamento europeo. Nel momento in cui scriviamo sono ancora in corso le manovre per la composizione dei vari gruppi presenti nell'assemblea. Vediamo più da vicino cos'è successo.
In Francia la scelta di Macron di portare il paese al voto non aveva convinto neanche il suo mentore Jacques Attali né in Italia una personalità che certo non gli è ostile come Romano Prodi. L'idea era considerata un azzardo anche se qualche commentatore aveva parlato di “mossa del cavallo”, ossia la mossa che scombina i piani. In pochi davano credito a quest'ipotesi. L'idea che vi stava dietro era quella di costringere il Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella, una volta giunto al governo, a misurarsi con la gestione quotidiana del potere, in una situazione resa difficile dall'alto debito pubblico e dalla necessità di varare una legge di bilancio impegnativa e così logorarlo. I risultati del primo turno delle elezioni sembravano aver obbedito agli istinti della Francia profonda, stanca delle élites e prigioniera di pulsioni sovraniste ma i ballottaggi hanno cambiato le carte in tavola con le due sinistre, la moderata e la radicale che ritrovano uno spirito unitario nella comune volontà di bloccare l'avanzata della destra. È il consueto barrage républicain, il cordone sanitario che viene steso intorno alla destra ogni volta che sembra avvicinarsi al governo? Sì e no. Normalmente a questo escamotage si ricorreva nel secondo turno delle elezioni presidenziali, ad esempio nel 2002, quando Chirac travolse al ballottaggio Jean-Marie Le Pen. In questo caso era in ballo la maggioranza assoluta dei seggi all'Assemblea nazionale e accordi di desistenza scattati in numerosi collegi hanno permesso di far convergere i voti di un'ampia maggioranza sul candidato meglio piazzato opposto alla destra portando così anche elettori di centrodestra moderato a votare candidati di sinistra e viceversa. Tutto questo, naturalmente, favorito dal sistema elettorale uninominale maggioritario a doppio turno.
Stavolta questo fronte si è aperto a tutti gli oppositori del Rassemblement National. Il “fronte repubblicano” ha imbarcato anche i candidati della France insoumise di Jean-Luc Mélenchon il cui programma comprende una serie di misure economiche difficilmente compatibili con i conti dello Stato francese. I risultati del secondo turno hanno dato ragione a Macron e al fronte repubblicano, peccato solo che il fronte sia un cartello elettorale ma non una coalizione di governo. Nel momento in cui è stata annunciata la vittoria a sinistra, Mélenchon con i toni tribunizi e declamatori che gli sono propri ha immediatamente reclamato per sé la carica di Primo ministro, richiesta che è stata subito respinta al mittente come irricevibile.
A una settimana ormai dalla proclamazione dei risultati non si vedono all'orizzonte soluzioni utili a risolvere la crisi. Il Rassemblement National è stato, sì, battuto ma la strada per la governabilità sembra ancora lunga. Il partito del presidente non ha la maggioranza parlamentare ma neppure gli altri partiti ce l'hanno. Per una volta, pur avendo scampato al pericolo costituito dal duo Le Pen-Bardella, la Francia dovrà incamminarsi sul sentiero dei governi di coalizione tornando ai tempi bui della Quarta Repubblica, un tipo di governo al quale il paese è ormai disabituato dal 1958. Resta da valutare se la scommessa di Macron abbia avuto un esito positivo. Il risultato ci sembra ci sembra di segno ambivalente. Certamente essa ha raggiunto l'obiettivo di bloccare la destra ma era nei disegni del presidente di tagliare entrambe le ali estreme – a destra come a sinistra – del quadro politico. Sotto questo profilo, invece, l'iniziativa presidenziale ha sortito l'effetto di risvegliare (e con un ottimo risultato!) il partito di Mélenchon composto anche di personaggi in odor di putinismo e di antisemitismo. In questo modo ha ridotto ma non spento il pericolo a destra (anche se il RN sta cercando il modo di mostrarsi più presentabile in vista delle presidenziali del 2027 in cui correrà ancora una volta la domina Marine Le Pen) riaccendendo, allo stesso tempo, pericolosi focolai di protesta anche a sinistra. Forse il redivivo François Hollande, ricandidatosi con successo, potrà avere l'occasione da Macron di far dimenticare il suo opaco settennato all'Eliseo con un incarico da Primo ministro.
Nel Regno Unito, dopo sedici anni di ininterrotto governo conservatore, i tories hanno dovuto abdicare al nuovo leader del partito laburista Sir Keir Starmer. Il partito conservatore ha pagato a caro prezzo le convulsioni degli ultimi quattordici anni in cui si sono succeduti cinque premier alcuni dei quali sono stati nettamente al di sotto delle aspettative come il giocherellone Boris Johnson e Liz Truss che sembrava capitata per caso al 10 di Downing Street. Le amenità di Johnson e il suo comportamento irresponsabile ai tempi della pandemia hanno contribuito a minare la fiducia dei britannici nel partito conservatore. Di Starmer si dice sia un uomo grigio sostanzialmente privo di qualità da cui forse è lecito aspettarsi più di quello che si sarebbe portati a credere, del resto ha il vantaggio di essere succeduto a Jeremy Corbyn la cui leadership ha coinciso con il più basso numero di seggi ottenuti dal partito laburista da prima della Seconda guerra mondiale.
L'ultimo elemento di questa sommaria analisi è la presidenza di turno dell'UE nelle mani di Orbán. Non era certo una sorpresa che il leader ungherese avrebbe avuto la carica. Il meccanismo della rotazione fra i paesi membri è in uso fin dal 1958. Molte cancellerie europee tremavano all'idea e non a torto visto che appena investito, Orbán ha pensato bene di recarsi in visita a Kiev, Mosca e Pechino per forzare la situazione della guerra in Ucraina. Quel che ha fatto, però, l'ha fatto senza un mandato dell'UE e in rappresentanza solo di se stesso e del suo paese. Si pone ora un problema molto serio anche di ordine giuridico oltre che politico. È legittimo che il leader di un paese sotto sorveglianza da sei anni per violazione dei valori comuni dell'UE (art. 7, par. 1 del Trattato sull'Unione europea) possa ricoprire la presidenza del Consiglio dell'UE? È compatibile questo ruolo con un politico che fregia con orgoglio dell'aggettivo illiberale? Possono questi presupposti garantire l'osservanza dei principi della Rule of law che sono alla base dell'Unione europea?
Fonte: di Andrea Becherucci