"L’ONU E LE MIGRAZIONI"

21-07-2019 -

L’agenzia per i rifugiati dell’ONU (UNHCR) segnala da tempo la penosa emergenza umanitaria – determinata da arretratezza, siccità, povertà, carestia, conflitti di vario genere, esplosione demografica – che sta espellendo milioni di persone dal continente africano e dall’Asia. Non v’è dubbio che, per le sue dimensioni, il fenomeno non è gestibile dai singoli stati o solo dall’Unione Europea o dagli Stati Uniti d’America verso i quali i migranti sono diretti in maggior parte e che, però, si possa negare la necessità di regolamentare, governare, incanalare un tale fenomeno anche secondo le esigenze dei paesi che dovrebbero riceverli.
Non è infatti ragionevole che di fronte ad esso si chiudano gli occhi facendo finta che non esista o pensando che la spinta migratoria non abbia conseguenze sugli assetti interni delle comunità ‘nazionali’ (e noi, in Italia, ne stiamo sperimentando gli effetti politici, sociali, economici) che l’assorbono o, infine, rassegnandosi all’idea che la migrazione sia del tutto incontrollabile, un dato di natura e che l’unica soluzione di un tale problema sia l’accoglienza illimitata come sostiene, per esempio, la Chiesa cattolica o chi, per mera convenienza politica o economica, ci pone di fronte al fatto compiuto delle cosiddette navi-soccorso che si presentano davanti ai nostri porti: se fosse un caso unico nessuno negherebbe loro di entrare in porto e farvi sbarcare i cosiddetti naufraghi. Ma è un caso che si ripete ogni giorno (quante volte, negli ultimi mesi, una nave ‘Sea Watch’, o similare, si è presentata nei porti siciliani, rifiutando di obbedire agli ordini dell’autorità e finanche speronando una motovedetta della GdF, come è accaduto a Lampedusa il 29 giugno scorso?).
Del resto, al di là della necessaria ospitalità e assistenza per chi ha avuto una disavventura in mare, non vi è alcuna norma di diritto internazionale che obblighi uno stato a tenersi chi, una volta soccorso in mare, venga fatto sbarcare in un determinato paese.
Solo uno dei tanti incongrui regolamenti europei, il Regolamento di Dublino, prevede una tale assurdità in forza del presupposto, sbagliato, che si debba dare accoglienza a chiunque voglia sbarcare in un paese rivierasco del Mediterraneo che faccia parte dell’U. E.: fermo restando che la stessa U. E. ha chiuso le frontiere degli Stati non rivieraschi – scaricando alla Turchia, a suon di miliardi, i migranti che seguivano il corridoio balcanico – e che molti degli stati che ne fanno parte hanno chiuso le proprie frontiere specialmente a quei migranti che siano già stati registrati in un altro paese (vedi la Francia, che da anni tiene decine di migranti sugli scogli di Ventimiglia o ce li restituisce sui valichi alpini, o la Germania che ci restituisce tutti i migranti che vi giungono dopo essere stati registrati in Italia a norma di quel regolamento europeo).
Le migrazioni incontrollate mettono a rischio la sicurezza mondiale perché, se è vero che la storia dell’uomo è una storia di migrazioni, bisogna pur far sì che queste non provochino catastrofi di vario genere, prima fra tutte quella dell’eterogenesi dei fini – la gente migra per migliorare la propria condizione ma, se lasciata a se stessa, la peggiora insieme a quella della società che li ospita – e, non ultima, l’altra, quella veramente catastrofica, dello scatenamento di un conflitto aperto, bellico, oltre quello razziale e sociale, qualora si determinasse un pressione migratoria insostenibile. La storia inoltre ci dice anche che le migrazioni sono spesso avvenute con modalità non pacifiche (vedi le invasioni barbariche seguite a lunghi anni di infiltrazioni attraverso i confini, o l’espansione islamica nel Medio Evo; o le varie conquiste coloniali delle potenze europee nell’età moderna) e che le conseguenze di tali eventi non sono state sempre positive. Certamente non possiamo venir meno al dovere di gestire nel modo più pacifico possibile le relazioni tra gli stati ma, per ciò stesso, dobbiamo far sì che le comunità nazionali regolino da sé le modalità dell’accoglienza. Possiamo solo auspicare, ma non imporre, che siano generose. O dobbiamo ammettere l’esistenza di un ‘diritto naturale’ a migrare in qualsiasi luogo, in qualsiasi caverna, senza il consenso del ‘primo occupante’? Vogliamo forse tornare all’uso della ‘clava’?
Insomma – fatta la dovuta distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici – non si può negare ai singoli paesi il potere di controllare e limitare i flussi migratori in ragione delle proprie capacità e disponibilità o di governare gl’ingressi nel proprio territorio con l’antico e funzionale sistema dei visti e dei permessi di soggiorno, vincolati a certe condizioni (di lavoro, di residenza, di garanzie varie che, fra l’altro, sono richieste anche ai cittadini).
Se ancora è permesso ragionare storicamente, bisogna ricordare che in Italia fu messa alla gogna politico-mediatica la legge Bossi-Fini che, secondo i suoi critici, aveva due torti principali: 1) l’avere stabilito il criterio dei flussi – quote annuali di immigrazione – secondo norme, abbastanza elastiche, che subordinavano i visti d’ingresso e i permessi di soggiorno ai contratti di lavoro; e 2) l’essere stata propedeutica alla successiva introduzione del reato di immigrazione clandestina.
Una tale fattispecie – prevista pure dalla legislazione di paesi, come l’Australia, venerati per la capacità d’accoglienza e cresciuti solo in virtù dell’immigrazione – forse è di difficile determinazione; si può anche ammettere che sia tale da causare ulteriori ingorghi giudiziari nel grande ingorgo che già paralizza i nostri tribunali e che sia difficile l’applicazione delle sanzioni previste, soprattutto quella dell’espulsione e del rimpatrio forzato stante il fatto che la grandissima parte dei cosiddetti immigrati clandestini sono sprovvisti di documenti d’identità: ma perché si dovrebbero ammettere sul territorio nazionale soggetti che non possano provare la propria identità?
Né si può lasciare ai singoli paesi l’onere di risolvere il problema delle migrazioni dall’Africa o dai paesi poveri dell’Asia verso l’Europa o l’Australia, e dall’America centrale verso gli Stati Uniti.
Un tale problema – proprio perché di dimensioni mondiali – dovrebbe essere affrontato dall’ONU in una visione globale: non si vede però perché i migranti debbano essere ‘addebitati’ soltanto all’Occidente e non anche, per esempio, a paesi come la Cina o la Russia: o nemmeno la Cina e la Russia sono ‘porti sicuri’?
L’UNHCR e altri vari soggetti – anche italiani – hanno denunciato il governo italiano per aver adottato, negli ultimi tempi, una politica restrittiva riguardo alla immigrazione obiettando che la cosiddetta ‘chiusura dei porti’ sarebbe una violazione dei diritti umani e, finalmente, chiedendo il ritiro o la modifica del Decreto Sicurezza bis – che prevede, fra l’altro, la possibilità di proibire a navi straniere di entrare nelle acque territoriali italiane per motivi di sicurezza nazionale – appena varato dal governo.
L’UNHCR giustamente denuncia che i migranti arrivano in Libia dai paesi africani sub-sahariani e dall’Africa orientale, incuranti dei pericoli che vi corrono perché spinti da varie ragioni (guerra e povertà) come rifugiati o come migranti in cerca di un posto migliore dove guadagnarsi da vivere. Pare infatti, che in questo paese, essi subiscano maltrattamenti al limite della tortura nei centri di detenzione, anche, a causa della guerra civile che vi imperversa da anni.
Che cosa fa l’UNHCR per i migranti?
Perché, data la situazione in Libia, fa poco o nulla per informare i migranti delle condizioni che troveranno in quel paese e per fermarli, prima che partano, per evitare che essi rischino la pelle nei malfamati centri di detenzione libici o sui barconi dei trafficanti? Perché si dichiara la Libia non sicura come porto cui affidare i naufraghi e si permette invece che venga eletta come base di partenza verso l’Europa da quelle migliaia di migranti che vi giungono volontariamente muovendo da tutte le parti del mondo (dal Bangladesh, alla Nigeria, dall’Eritrea al Ghana, etc.)?
Perché l’UNHCR – dopo un attacco aereo dell’aviazione del gen. Haftar che ha colpito un obiettivo a meno di 100 metri dal Centro di Tajoura, in cui erano raccolti oltre 500 rifugiati e migranti – si è limitata a lanciare appelli affinché i rifugiati e i migranti presenti nei Centri di raccolta nelle zone di Tripoli siano evacuati verso aree più sicure?
Perché, invece di fare appelli, l’ONU non interviene, anche militarmente, come prevede il suo Statuto (peace-enforcing e peace-keeping), per fare cessare la guerra civile in Libia o nei paesi che costringono alla migrazione di massa, per farvi cessare pulizie etniche, conflitti tribali, colpi di stato, etc.?
Perché non fa nulla per migliorare le condizioni dei migranti nei paesi di provenienza?
Non vi sono, in Libia o nei paesi di provenienza, violazioni dei diritti umani tali da giustificare un intervento di polizia internazionale o situazioni economiche che richiedano un intervento delle Nazioni Unite (tipo Piano Marshall) però assicurandosi che i capitali investiti non finiscano nelle tasche di qualche potentato locale o, anche, di qualche funzionario ONU?
O si deve aspettare che, come in Bosnia e in Kossovo, intervenga la NATO, visto che a Srebrenica i ‘caschi blu’ (olandesi) dell’ONU si voltavano dall’altra parte.
Dobbiamo ammettere che l’ONU è incapace di fare fronte alle sue responsabilità, paralizzata dalle manovre di grandi potenze (vedi la Francia con le sue aspirazioni da ‘mosca cocchiera’) che siedono, con diritto di veto, nel Consiglio di sicurezza?
Forse dobbiamo rassegnarci alla dura realtà della inesistenza di una comunità mondiale degna di questo nome.



NOTA

L’articolo di Giuseppe Buttà dice, molto bene, come la questione dell’immigrazione sia una grande questione politica internazionale e come proprio a livello internazionale dovrebbe essere impostata e gestita. In Italia, ma anche in Europa, la si è sempre letta come un’emergenza non comprendendo che quando i popoli si mettono in movimento non ci sono provvedimenti amministrativi che facciano loro da barriera. La legge Bossi-Fini, poi, si basava su un presupposto sbagliato: che il fenomeno immigratorio avesse solo motivazioni economiche – che pure ci sono, naturalmente – e che, quindi, chi voleva approdare in Italia dovesse dimostrare di esservi stato chiamato per lavorare. Quella legge è rimasta lettera morta poiché lo Stato italiano non ha attivato nessun meccanismo che andasse in questa direzione, se mai il problema fosse stato solo di natura economica. Buttà spiega bene come il problema debba essere impostato quale grande problema che investe il mondo occidentale a rischio di risucchiamento nel sovranismo razzista. (p.b.)




Fonte: di GIUSEPPE BUTTA'