C’è un rimedio per rendere l’Europa continentale “libera e felice”, diceva Winston Churchill nel 1946: ricreare “una famiglia europea”, “una specie di Stati Uniti d’Europa”. Dieci anni dopo, nel 1957, con il Trattato di Roma nasce la Comunità Economica Europea, con l’obiettivo eliminare i dazi doganali, introdurre politiche comunitarie per quanto riguarda l’agricoltura e sviluppare relazioni più strette fra i sei Stati membri: Francia, Germania Ovest, Paesi Bassi, Belgio, Italia e Lussemburgo. Nel 1961 la Gran Bretagna inizia i negoziati per aderire alla CEE. Ma per due volte - nel 1963 e nel 1967 - Charles de Gaulle pone il veto. Il suo successore, Georges Pompidou, acconsente invece all’accesso, che si formalizza il primo gennaio 1973. Quel giorno i britannici, ascoltando la Nona di Beethoven, si abbandonano a un entusiasmo incontenibile: “adesione” significa ampliare mente e cultura. Significa gemellaggio di città, scambio di studenti, concorsi all’Eurofestival e Coppa europea. L’euforia è però di breve durata. L’anno seguente, il laburista Harold Wilson vince le elezioni di ottobre. Ma l’opposizione è forte abbastanza da obbligarlo a promettere un referendum, che vedrà il 67% della popolazione favorevole a rimanere. La campagna referendaria del 1975 fu un’inquietante anticipazione di quanto accadrà nel 2016. Gli argomenti pro e contro l’UE sono infatti analoghi a quelli che si verificheranno fra Boris Johnson e Kenneth Clarke: sovranità contro sudditanza, politica contro economia. In vista dell’introduzione dell’euro, intanto, il sistema monetario europeo cerca di stabilizzare inflazione e tassi di cambio delle nazioni aderenti al Mercato Comune. La Gran Bretagna opta per rimanerne fuori, ma l’adesione all’UE è ormai un fatto compiuto, anche se fonte di infiniti ripensamenti. Dagli anni settanta in poi, quasi tutti i leader arriveranno al potere col dimostrarsi anti CEE e se ne andranno difendendola, inclusi Wilson, Major, Blair, Cameron e May. Solo la Thatcher ne fu una sostenitrice dall’inizio a quando fu costretta a dimettersi. Quando la Thatcher entrò in carica nel 1979 con l’economia in caduta libera, i sondaggi davano al 65% coloro che volevano lasciare l’Europa. Il Regno Unito era all’epoca uno dei più grossi contribuenti del budget della CEE: questione che la Thatcher affrontò con risoluta determinazione e non mollò fino a quando riuscì a ottenere una riduzione del 70%. Poi affrontò i problemi relativi all’Atto unico europeo, la struttura di quello che sarebbe diventato il Mercato comune, promettendo di eliminare “tutti gli ostacoli al libero movimento di capitali, beni, servizi e persone”. L’Atto unico europeo diede sussidi alle politiche sociali e aprì la strada a un “parlamento” eletto e a una valuta comune, sulla quale però la Thatcher esitò. Vedeva nell’atto, la creazione di un mercato europeo in grado di competere con quello americano. Rivolgendosi agli inglesi, li incoraggiò a “sfruttare il potere d’acquisto del popolo più ricco del mondo”: i 300 milioni di europei. Non poteva essere più lontana da quanto sosterrà Boris Johnson. La Thatcher sa che un’isola deve poter godere di un libero mercato con la vicina terraferma. Sa che il mercato ha bisogno di normative, sa che le normative devono essere equilibrate, che non si deve deviare in politica interna, sociale o estera. E che se si tende all’unificazione politica, i britannici si sarebbero ribellati. Se l’Atto unico europeo era un argomento chiuso, la CEE non lo era. Bruxelles fa pressione per avere più potere. Lo scetticismo dilaga. La Thatcher litiga con i suoi più fedeli consiglieri su come o se la Gran Bretagna debba modificare i tassi di scambio in Europa. I Tory si spaccano in due. La Thatcher si sente intrappolata. Sebbene ciò che provocò la sua caduta nel 1990 sia il tentativo impopolare di introdurre la cosiddetta poll tax, un’imposta patrimoniale calcolata in base alla popolazione e non al reddito, furono le divisioni sull’Europa che la distrussero. Intanto, la nuvola nera dell’eurofobia diventava sempre più minacciosa.
Il 1 gennaio 1993 entra in vigore il Trattato di Maastricht, inaugurando l’Unione Europea e il mercato unico con libero movimento di beni, servizi, persone e moneta. Il che alimenta la divisione fra i Tory, perché temono il concretizzarsi di un Unione Europea centralizzata e federale. Major, succeduto alla Thatcher, si dissocia dall’euro e dalla politica sociale e nel luglio 1993 riesce a far passare con soli tre voti di maggioranza una versione edulcorata del trattato di Maastricht alla Camera dei Comuni. I politici ribelli nei ranghi dei conservatori – o “bastardi”, come li definisce Major – non si rassegnano e continuano a far sentire la loro voce alimentando un euroscetticismo crescente.
Blair va al governo nel 1997 con il Paese spaccato a metà sull’Europa. Si era sempre dichiarato contrario all’UE, una volta a Downing Street però cambia bandiera: vorrebbe diventare il leader d’Europa, ma il sogno evapora presto. Il 1 gennaio 2002 entra in circolazione l’euro. Il 1 maggio 2004 fanno il loro ingresso nell’UE dieci nuovi Paesi, fra cui Polonia, Lettonia e Ungheria – trasformando così, a detta degli euroscettici, un “club ristretto” in “un ‘accozzaglia”. Con l’apertura di nuove frontiere, comincia a soffiare sull’Europa il velenoso sentimento anti-immigrazione, e l’Europa ne diventa il capro espiatorio. La Gran Bretagna non impone restrizioni all’accesso del mercato del lavoro – e lavoratori iniziano a affluire dalle nazioni dell’Est: nel Regno Unito gli immigrati passano da una media di 35.000 all’anno a 127.000. Dopo vari tentativi per creare una “costituzione”, nel 2007 l’UE approva il Trattato di Lisbona, che precisa i poteri dell’UE e dà all’UE “personalità giuridica”. Cresce intanto il risentimento anti-immigrati, che favorisce l’ascesa di Nigel Farage, leader dell’Ukip (UK Independence Party), un partito impegnato a lasciare l’UE, che poco alla volta prosciuga linfa vitale dai locali partiti tory. Alle elezioni del 2015, solo il sistema maggioritario è di aiuto a David Cameron. Ma è costretto a promettere un referendum sull’Europa. Dopo aver a lungo esitato, Boris Johnson, l’allora sindaco di Londra, annuncia che appoggerà la campagna politica per la Brexit. Il 23 giugno 2016, i britannici vanno alle urne. Contro ogni previsioni, la nazione vota con un’affluenza del 72% per lasciare l’UE sia pure con uno stretto margine - 52% contro 48% . Il 31 gennaio 2020, il Regno Unito esce ufficialmente dall’UE.
La maggioranza dei britannici esulta: finalmente, hanno “riconquistato la piena sovranità” sul loro Paese. Finalmente con Boris Johnson, un leader che “trasuda energia, ottimismo e buon umore”, il partito conservatore, come il Paese del resto, inizia una “nuova era della sua storia”. La minoranza, viceversa, è affranta. Coloro che temono il disintegrarsi del Regno Unito non sono pochi. Fino a quando infatti Scozia, Galles e Irlanda non rivendicheranno il diritto alla propria sovranità, alla propria autonomia?