Nel novembre dell’anno scorso, il presidente Emmanuel Macron ha rilasciato una intervista a Le Grand Continent, la rivista del ‘Groupe d'études géopolitiques’, in cui si è detto anti-multiculturalista e sovranista: nel tentativo, non riuscito, di evitare la caduta dei consensi al suo partito nelle elezioni regionali del 20 giugno, le sue dichiarazioni avevano e hanno una evidente finalità elettoralistica ma, a ben guardare, come ‘una voce dal sen fuggita’, rivelano le risposte a molti dei perché che oggi ci poniamo riguardo all’UE.
Nessuno ha dato grande peso a questa ‘esternazione’ o se ne è accorto: per due motivi. Il primo è che oggi, almeno in Italia, egli gode, insieme con la Cancelliera Merkel, di un ‘pregiudizio favorevole’ e, pertanto, non gli si applica il marchio d’infamia con cui solitamente vengono bollati i ‘sovranisti’, specialmente quelli nostrani; il secondo, strettamente connesso con il primo, è che tutto ciò che toccano francesi e tedeschi viene considerato come europeismo puro.
In questa intervista, Macron prende le mosse dal processo storico che, a suo avviso, avrebbe portato alla crisi del quadro multilaterale del 1945, causata non soltanto dalla «crisi della sua efficacia, ma, da una crisi più grave … una crisi dell’universalità dei valori portati avanti dalle sue strutture ... Elementi come la dignità della persona umana, che erano allora ritenuti intangibili e a cui aderivano fondamentalmente tutti i popoli delle Nazioni Unite e tutti i Paesi rappresentati, vengono ora messi in discussione, relativizzati. Il relativismo contemporaneo che sta emergendo segna davvero una frattura e fa il gioco di potenze che non sono a proprio agio nell’ambito dei diritti umani delle Nazioni Unite. Su questo tema è evidente il gioco portato avanti dalla Cina e dalla Russia».
La sua interpretazione è lungi dall’essere convincente: una cosa è dire che il relativismo, etico in primo luogo, sia il carattere distintivo della nostra epoca, altro è affermare che la frattura sui diritti umani – al cui riconoscimento si erano impegnate le Nazioni Unite nel 1948 con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – «è molto recente; … è il frutto di scelte ideologiche portate avanti con convinzione da potenze che in esse vedono il mezzo per elevarsi, e di una forma di stanchezza, di collasso»: francamente non si capisce bene che cosa Macron intenda dire riguardo alla Cina o alla Russia che promuoverebbero «un relativismo dei valori e dei principi e un gioco che cerca di ri-culturizzare, di rimettere questi valori in un dialogo di civiltà, o in un conflitto di civiltà, per esempio contrapponendoli alla dimensione religiosa. Sono tutti strumenti che frammentano l’universalità dei valori». Non si capisce come egli possa affermare che si tratti di una frattura recente giacché, certamente, la Cina e la Russia o molti altri paesi che siedono al ‘Palazzo di vetro’ non sono mai stati, né prima né ora, campioni dei diritti umani. Inoltre, come vedremo più avanti, egli vuole disegnare un quadro multipolare in cui la sua Francia dovrebbe trattare da pari a pari – ma, a mio avviso, in posizione subordinata – proprio con questi due stati, oggi alla ricerca di una maggiore influenza mondiale. E ciò puzza di contraddizione.
Il manifesto ideologico di Macron rivela tre punti focali tutti incentrati sull’illuminata politica del Presidente. Anzitutto, egli affronta le crisi che travagliano oggi il mondo con una ricetta semplice: ‘reinventare’ la cooperazione tra le nazioni per sconfiggere i mostri che ci hanno aggredito, la pandemia e il terrorismo, «definito islamista ma che agisce in nome di un’ideologia che distorce una religione».
Macron, nel tentativo di recuperare consensi a destra, esibisce altresì una forte avversione per il multiculturalismo, un rifiuto quasi totale della globalizzazione e una presa di distanza dalla sinistra immigrazionista: «cosa potrebbe complicare ulteriormente il rapporto dell’Europa con l’Africa? Le migrazioni, ecco cosa. Il problema è che noi guardiamo all’Africa solo attraverso questa lente. Penso che sia un errore ... Oggi assistiamo ad un uso profondamente indebito del diritto d’asilo, che perturba tutto il resto. Gruppi di trafficanti, che spesso sono anche trafficanti di armi e di droga e sono legati al terrorismo, hanno organizzato la tratta di esseri umani. Offrono una vita migliore in Europa ... Ci sono centinaia di migliaia di uomini e donne che ogni anno arrivano sul nostro territorio, che vengono da Paesi in pace: questo non è diritto di asilo. O meglio, nel 90% dei casi, non si tratta di diritto di asilo. C’è chiaramente un abuso».
E, infatti, La Francia di Macron, campione dei diritti umani, respinge i migranti ai valichi di frontiera italo-francesi, li rimette sui treni scortandoli fino a Ventimiglia o riportandoceli semicongelati sulle Alpi.
Di quale cooperazione parla Macron?
Di quella già sperimentata con la lotta contro il virus con il meccanismo dell’Act-A, contro il terrorismo con le coalizioni tra le nazioni Occidentali, principali sue vittime, e con i grandi accordi riguardanti il cambiamento climatico e lo sviluppo del potenziale nucleare da parte dell’Iran? Quando Macron rilasciò l’intervista questa riposta aveva un senso anti-trumpiano: oggi ne ha molto meno nel clima di disarmo ‘politico-morale’ dell’Occidente che, in fondo in fondo, Macron senza accorgersene nutre nel suo petto.
L’altra priorità, che egli si dà e indica ai partner dell’U.E., è quella di rafforzare e strutturare un’Europa politica forte e capace, soprattutto, di porsi come polo di un nuovo multilateralismo, di un dialogo tra le varie potenze che superi l’incapacità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di produrre soluzioni utili e, per esempio, degli organismi come l’OMS di svolgere un ruolo imparziale ed efficace.
Chi potrebbe dargli torto soprattutto riguardo alla penosa performance dell’OMS nella pandemia originata dal grande, e misterioso, ‘focolaio’ cinese?
A tali emergenze egli aggiunge anche il cambiamento climatico, la svolta ‘green’, la trasformazione digitale, la lotta contro le disuguaglianze interne alle nostre società ma anche contro quelle tra le nostre società e il resto del mondo, che producono a loro volta fratture molto profonde nella nostra vita.
Macron ha in animo un grande progetto, quello del ‘Paris consensus’ che dovrebbe essere il ‘consenso di tutti’, per superare e sostituire il ‘Washington consensus’ che – a suo dire – avrebbe mutato il «paradigma delle economie aperte, di un’economia sociale di mercato, come si diceva nell’Europa del dopoguerra, che però è diventata sempre meno sociale e sempre più aperta e che, dopo questo ‘Consenso’ [wahingtoniano-trumpiano], è divenuta un dogma le cui verità sono: diminuzione del ruolo dello Stato, privatizzazioni, riforme strutturali, apertura delle economie attraverso il commercio, finanziarizzazione delle nostre economie, il tutto all’interno di una logica monolitica basata sul profitto».
Macron, nato liberista e dopo avere inseguito a destra la Le Pen, si spaccia anche per socialista; egli riconosce bensì che il ‘Washington consensus’ «ha consentito il benessere a centinaia di milioni di abitanti del mondo … e molti Paesi poveri ne hanno beneficiato», ma rileva come vi sia, nel campo Occidentale, una profonda frattura a fronte di una delle questioni prioritarie del momento, il cambiamento climatico, considerata da Washington, all’epoca d Trump, semplicemente come un’esternalità del mercato.
Macron, infatti, affronta il problema della disuguaglianza partendo da presupposti infondati o, quanto meno, parziali quando la sua analisi sociologica rileva che, «al momento in cui la classe media non ha più possibilità di progresso e vive un continuo declino, sorgono dubbi sulla democrazia». Ciò sarebbe dimostrato da Trump negli Stati Uniti e dalla Brexit, frutto finale, egli dice, della crisi delle società occidentali causata dopo il 1989 da un neoconservatorismo crescente che rimette in discussione le idee del 1968 – da Macron innalzate a progresso decisivo nella storia umana – «cioè dello stato di maturità raggiunto dalla nostra democrazia – riconoscimento delle minoranze, movimento di liberazione dei popoli e delle società, etc. – e c’è il ritorno del potere della ‘maggioranza’ e, in un certo senso, di una forma di verità dei popoli. Sta riemergendo nelle nostre società … una vera e propria frattura che non dobbiamo trascurare, perché è uno strumento di riframmentazione».
Pur dimenticando il ruolo svolto dagli Stati Uniti, egli su questo punto introduce anche un elemento importante qual è quello di una caduta della tensione intellettuale, politica e morale che ha portato alla fine del totalitarismo: «Le generazioni nate dopo il 1989 non hanno vissuto l’ultima grande lotta che ha strutturato la vita intellettuale occidentale e le nostre relazioni: l’anti-totalitarismo. Queste si sono strutturate per molti, così come il loro accesso alla vita accademica e politica, sulla finzione che era la “fine della storia” e sul sottinteso che era l’estensione permanente delle democrazie, delle libertà individuali, ecc. Ci rendiamo conto che non è più così».
Ma in realtà, e in sostanza, Macron intende sottolineare come tutto ciò si sia risolto in un «inganno della storia [rivelatosi] senza dubbio al momento delle primavere arabe, in cui ciò che secondo questo stesso approccio viene visto come elemento di liberazione è risultato in realtà un indicatore del ritorno dello spirito di certi popoli e della religione all’interno della politica ... sulla scena politica in molti di questi Paesi». Un ritorno ai regimi autoritari-teocratici che non disdegnano la soppressione dei diritti umani e il terrorismo.
Un ragionamento certamente ‘cartesiano’ – da École nationale d’administration – ma che, partendo da presupposti errati, lo porta a conclusioni discutibili anzitutto perché esclude la Francia – o, meglio, se stesso e il suo governo – dalla fenomenologia della crisi appalesata a suo avviso da «segnali di avvertimento che captiamo nel nostro paese e in molti altri paesi europei … per cui si comincia a dire: dal momento che non ho più alcun progresso, per tornare a progredire, beh, devo ridurre la democrazia e accettare una qualche forma di autorità … molti sostengono, “sciogliamo la sovranità nazionale, lasciamo che siano le grandi imprese a decidere il corso del mondo” ... Altri, invece, dicono: “la sovranità popolare liberamente espressa è meno efficace di un dittatore illuminato o della legge di Dio!”… per me l’elemento più importante è sempre la sovranità dei popoli. La sovranità popolare è un tesoro da custodire gelosamente ... oppure devo accettare un qualche grado di chiusura delle frontiere, perché il mondo non funziona più in questo modo».
Dobbiamo dare atto a Macron di avere colto il problema ma solo parzialmente; qui infatti il filo della sua logica cartesiana si rompe: egli rivendica per sé la sovranità popolare e la nega agli altri.
Per esempio, egli non vuole vedere come la vittoria di Trump ieri e, oggi, la sua sconfitta siano il sintomo di una democrazia funzionante così come lo è la Brexit, decretata da un referendum popolare e da una scelta consapevole sia della classe dirigente sia degli elettori britannici non più disponibili ad accettare una Unione Europea egemonizzata dall’asse franco-tedesco, dalla ‘Framania’. Così come sono sintomo di democrazia funzionante altre scelte politiche in quei paesi europei cosiddetti ‘sovranisti’-‘populisti’.
Secondo Macron, la sua ricetta dovrebbe favorire non soltanto il multilateralismo per la cooperazione mondiale ma anche l’unità politica di un’Europa forte, strategicamente autonoma, in grado di mantenere i propri principi in uno scenario così rifondato.
Fin qui siamo alla scoperta dell’acqua calda, all’ovvietà pura e semplice. Ancora più ovvia è l’idea di Macron sul rafforzamento dell’unità politica d’Europa ma qualche dubbio circa le sue reali intenzioni sorge a proposito di ciò che egli intende per «autonomia strategica» e per l’uso della forza che «l’Europa può avere per proprio conto». Egli crede che «l’Europa non dissolva la voce della Francia: la Francia ha la sua concezione, la sua storia, la sua visione degli affari internazionali, ma la sua azione risulta molto più utile e forte se portata avanti attraverso l’Europa. Penso addirittura che questo sia l’unico modo per imporre i nostri valori, la nostra voce comune, per evitare il duopolio sino-americano, la dislocazione e il ritorno di potenze regionali ostili».
Dunque egli vuole affermare un multilateralismo fondato sulla frattura dell’Occidente – sovranità europea (ovvero franco-tedesca) e autonomia strategica dagli Stati Uniti – come ci dice senza peli sulla lingua con queste parole: «[vogliamo] poter contare da soli e non diventare il vassallo di questa o quella potenza senza avere più voce in capitolo … In termini geostrategici, ci eravamo dimenticati di pensare, perché pensavamo le nostre relazioni geopolitiche attraverso la NATO; diciamolo chiaramente: la Francia storicamente meno di altri, ma questo Super-Io è ancora presente … Quindi l’ideologia che si può stabilire in Europa … è un primo punto essenziale … il Forum per la Pace, il Consenso di Parigi e la nostra azione per la politica francese ed europea … sono essenziali».
Macron, ponendo sullo stesso piano Stati Uniti e Cina, pensa alle relazioni con gli Stati Uniti e all’Alleanza atlantica da un’ottica parziale che è quella dell’affermazione della leadership francese – sia pure in condominio con la Germania – anche in contrasto con gl’interessi e con la strategia generali di tutti gli altri membri dell’alleanza. Perché, infatti, una cosa è rivendicare per ciascuno di questi una voce paritaria nella definizione della strategia atlantica, un’altra cosa è pretendere per la Francia anche un ruolo di indipendenza assoluta dai vincoli della NATO o da una UE che fosse fatta da stati con eguale dignità e peso.
Ciò che non dice Macron è che egli intenderebbe vietare agli americani di assumere decisioni unilaterali in difesa dei propri interessi e, invece, permetterlo alla Francia, cioè ottenere i vantaggi dell’alleanza senza subirne gli oneri e avere mano libera, specialmente in Africa.
La Francia non è nuova all’antiamericanismo e a volontà egemonica sull’Europa cui, spesso, sembra soggetta anche una parte della classe dirigente italiana. Ma, in Francia, era come abbiamo visto ancora più radicata: per esempio Chirac arrivò a ipotizzare un asse sino-europeo alternativo al rapporto con l’America per fare scudo contro il “liberalismo anglosassone”, forse uno scudo a vantaggio di Germania e Francia ma non degli altri paesi dell’Unione.
È chiaro però che una tale scelta, anziché favorire l’equilibrio multipolare, porterebbe all’indebolimento complessivo dell’Occidente, a un ritorno alla vecchia vocazione europea al rovesciamento delle alleanze, alla politica dei giochi diplomatici senza un chiaro disegno, senza una chiara percezione del movimento attuale delle ‘zolle’ tettoniche alla ricerca di equilibrio: una Europa divisa, ma anche un’Europa unificata, che facesse una politica pendolare tra Est e Ovest, sottoposta alle tendenze centrifughe e agli spericolati giochi di equilibrio – di un falso equilibrio – sarebbe causa di urti e frizioni più che di stabilità e pace. In realtà, l’Europa non ha un interesse strategico distinto da quello degli Stati Uniti né sarebbe in grado di equilibrarsi con la Cina o con la Russia separatamente dall’America: il multipolarismo non esclude l’unità dell’Occidente anzi la impone.
Né il recente summit del G7 in Cornovaglia – tra un Biden dialogante ma senza una chiara strategia e i leader europei ringalluzziti per l’apparente abbandono da parte degli Stati Uniti della linea reaganiana-trumpiana intesa a un riequilibrio degli oneri strategico-finanziari della NATO – ci può tranquillizzare riguardo alla linea seguita da Macron che è quella solita della Francia ‘mosca cocchiera’: quella che affossò la CED; che uscì dal Comando integrato della NATO; che si oppose all’ingresso della Gran Bretagna nella CEE; quella che, per tre anni, ha pasticciato i negoziati sulla Brexit per fare pagare a Londra un prezzo salatissimo e che ora, insieme con la Germania, la molesta sui vaccini e sul confine irlandese.
È la Francia che ha sempre minato dall’interno la capacità della NATO di avere una strategia unitaria e di stabilire l’unità dell’Occidente e che, nell’Unione Europea, con l’asse franco-tedesco cerca di stabilire una propria egemonia: ciò che egli non coglie (o non vuole cogliere) è che una cosa è la costruzione dell’UE su base paritaria e federalista – o, anche, confederalista – un’altra è costruirla sotto il tallone franco-tedesco.
La teoria macroniana è infatti un de profundis per ogni speranza di costruzione di un’Europa politica fatta bensì da stati che, piccoli o grandi, siano pari in dignità e capacità di tutela dei propri interessi: un’Europa sottratta all’egemonia di qualcuno di questi stati. Macron pensa infatti – come i suoi predecessori, da De Gaulle a Mitterand a Chirac – a una Francia sovrana, anzi ‘sovranista’, che proietta la sua ombra sull’Europa nel perseguimento di una nuova grandeur, a un ‘impero neo-carolingio’ da interporre tra Est e Ovest.
«Sì – dice Macron – perché non ho trovato un sistema migliore di quello della sovranità westfaliana … I sistemi basati sulla sovranità ‘westfaliana’ e le democrazie che li accompagnano stanno attraversando una duplice crisi. Molti dei problemi non nascono al livello dello Stato-nazione; è vero, e ciò presuppone la cooperazione, ma la cooperazione non implica la dissoluzione della volontà del popolo … Presuppone anzi il saperla articolare … Ogni volta che abbiamo cercato di sostituirla, si sono creati squilibri … Le grandi trasformazioni devono portarci ad essere continuamente molto inventivi. Inventare nuove forme di cooperazione, assumersi dei rischi, capire e pensare alle grandi transizioni di questo mondo, senza però rinunciare ai nostri principi fondamentali: la sovranità del popolo, i diritti e le libertà che ci hanno reso ciò che siamo. Perché sono minacciati».
Ça va sans dire, le parole di Macron – il ribelle contro quel Super-Io che per decenni ci avrebbe imposto di pensare solo in funzione ‘atlantica’ – sono un vero ‘pistolotto’ pseudo-europeista e anti-americano che sarebbe un’arma scarica se, invece, non fosse piena di quella polvere da sparo fornita dalla sua teoria dello stato e della sovranità che è un vero peana al sovranismo westfaliano – «non credo affatto che [ci sia] una crisi della sovranità westfaliana. Ci tengo davvero, e credo che non ci sia niente di meglio... tengo profondamente a questo principio. Profondamente» – radice storica dello stato-nazione e dei conflitti che hanno insanguinato l’Europa per più di 300 anni.
Almeno su questo punto, Marine Le Pen non avrebbe potuto trovare parole migliori per esprimere il proprio pensiero.