Incontriamo Vittorio Agnoletto, già portavoce del Genoa social forum vent'anni fa, a margine dell'assemblea internazionale dei movimenti il 19 luglio, nella cornice delle iniziative per il ventennale di Genova, e con la solita pazienza ci dedica un'intervista, mentre stanno per iniziare i primi interventi e il suo telefono non smette di squillare.
La prima questione è questa: stai battendo molto nei tuoi interventi pubblici sul fatto che noi allora avessimo ragione. Di fronte a qualche critico, anche in buona fede, come potremmo rispondere rispetto al fatto che non siamo stati in grado di arrestare il declino politico-culturale in Italia, per cui sono state cancellate tutte le voci critiche e dissidenti e manchi una forza ben radicata di alternativa nelle istituzioni, anche rispetto all'affermazione nell'attuale Parlamento di una larghissima maggioranza al governo tecnico di Draghi, antitetica rispetto ai nostri valori e ai nostri obiettivi di allora?
Si può avere ragione, si può però anche contemporaneamente non essere in grado, non avere la possibilità o non avere il rapporto di forze necessario per far sì che queste ragioni diventino di dominio pubblico e si impongano.
Un banale errore dell'intervistatore, un tasto spento per sbaglio mentre il telefono di Vittorio continua a tenerlo occupato, non permette di riportare in modo integrale il lungo e denso colloquio. In realtà, le posizioni di Agnoletto sono recuperabili da altre interviste da lui rilasciate in quei giorni. Il movimento era la prima grande opposizione mondiale dal basso alla narrazione della “fine della storia”, dopo l'implosione del sistema sovietico (e la mancata rielaborazione del lutto per molti compagni di area comunista) e la crisi della stessa socialdemocrazia occidentale che aveva accettato più o meno passivamente l'economia di mercato, con qualche distinguo sulla società di mercato. Un movimento che aveva precocemente descritto gli aspetti disumani e insostenibili dell'assetto neoliberista nelle periferie del mondo – dove operavano già da tempo attivisti e religiosi che avevano costituito i primi nuclei del movimento – e che in modo talvolta profetico aveva previsto le contraddizioni e le conseguenze di quel sistema anche nei paesi del Nord: delocalizzazioni, disoccupazione di massa e compressione di diritti e salari per i lavoratori, espulsione di ogni alternativa da istituzioni sempre più svuotate di senso e sempre meno democratiche, potere incontenibile delle istituzioni finanziarie sulle economie reali e sui governi, per non tacere delle crisi ambientali e dell'ecatombe continua dei migranti dai Sud del mondo. Perfino alcuni avversari – a posteriori, a partire dalla crisi economica del 2007-2008 – hanno dovuto ammettere la validità di molti di quegli assunti e chiedere dei robusti correttivi al sistema: non già per consentire un'alternativa ma proprio per salvare le condizioni di sopravvivenza del sistema. Un po' meno bombe, un po' meno speculazione finanziaria, un po' meno devastazione ambientale, un po' meno emissioni di gas serra, un po' meno tagli alle spese sociali (per gli stati che possono ancora permettersele, beninteso).
Nel frattempo la situazione generale è peggiorata – e la pandemia non è stato altro che un catalizzatore-acceleratore di tendenze già in atto alle diseguaglianze (e in tal senso mi permetto di rinviare al volume collettivo che ho curato: Niente sarà come prima? Riflessioni al tempo del coronavirus fra crisi di sistema e possibilità socialista, La città del sole, Napoli 2020). I dati non ammettono repliche o interpretazioni. Come movimento denunciavamo, agli inizi del secolo “sudicio e sfarzoso”, un mondo dove il 20% della popolazione mondiale possedeva l'80% della ricchezza mondiale, oggi, vent'anni dopo, il 12% della popolazione possiede il 85% della ricchezza mondiale, il 55% della popolazione mondiale possiede solo 1,3% della ricchezza del mondo. La teoria dello sgocciolamento non ha affatto funzionato.
Solo in alcuni paesi del Sud del mondo si sono verificati sommovimenti di segno neosocialista e popolare: è soprattutto il caso dell'America latina e di alcuni parziali e instabili risultati nel continente africano. Le guerre o i golpe made in USA, col sostegno dei vari Blair e del PSE, hanno avvelenato larga parte del pianeta, mentre resta incancrenita l'eterna questione palestinese. Un fallimento del tutto prevedibile, le cui conseguenze si estenderanno per molto altro tempo, come testimonia la nuova fase della crisi afgana con la fuga degli eserciti occidentali e il ritorno dei talebani a Kabul. Una sorta di eterno ritorno, di sabba prolungato di forze infernali che “convertuntur et reciprocantur”, per dirla con il sublime Vico.
Il movimento doveva essere spezzato e represso. Alcuni magistrati hanno avuto il coraggio di ammettere le responsabilità delle forze dell'ordine, ma non sono arrivati al livello superiore: la politica nazionale, i servizi dei vari paesi interessati. Ma come movimento non possiamo solo recriminare sui nostri persecutori né dobbiamo ingenuamente rimproverare i sette o otto Grandi di non averci ascoltato: essi stavano e stanno lì a fare il loro compito. Dobbiamo finalmente impostare una salutare autocritica. Perché nel periodo di maggiore mobilitazione (dal 2001 al 2007 circa) non siamo stati in grado di darci una stabile organizzazione politica che servisse a dare continuità a dei movimenti per loro natura discontinui e non evocabili a bacchetta? Certo, i limiti vanno visti nelle rivalità di sigle, talvolta meri personalismi, e in alcuni snodi. La parabola discendente dei movimenti all'incirca coincide con la crisi del governo dell'Unione su cui tanto si era speso il gruppo dirigente di Rifondazione, allora il principale referente partitico dei movimenti. Seguirà poi la fase (disgustosa, anche per chi la visse da fuori) della divisione della stessa Rifondazione ad opera dell'ambizioso Nichi Vendola, il quale operò una scissione a destra, in cui parole d'ordine ribellistiche e poetiche si univano a accordi subalterni e venali col nascente PD e con certi potentati, come testimonia l'involuzione del decennale governo pugliese. Per non farci mancare nulla, non pochi attivisti dei movimenti, delusi da questa crisi, crederanno alle parole di un comico apparentemente anti-sistema, diventando così animatori dei primi Meet-up, dove retorica della democrazia dal basso si univa ad un sistema proprietario dei mezzi di comunicazione e dello stesso (non-)partito. L'esito è sotto i nostri occhi: dal 2008 le forze alternative di sinistra, socialista o comunista o comunque antiliberista, sono escluse dal Parlamento e da quasi tutti gli enti locali e tutti i tentativi si sono rivelati effimeri (con la parziale eccezione dell'Altra Europa per Tsipras): segno che la mera sommatoria di microapparati non serve né l'attesa di un “papa straniero”.
Forse, tuttavia, c'è un altro nodo che dobbiamo almeno provare, se non a sciogliere, almeno a presentare. I social forum – quell'esperienza nata dopo la repressione di Genova e capace di rinnovare la politica italica con nuovi temi e nuove prospettive – erano ascrivibili alla categoria di movimenti socialisti anonimi, inconsapevoli, “in direzione ostinata e contraria” rispetto alle “magnifiche sorti e progressive” del partito unico neoliberista e antipopolare che già allora si stava coagulando: Noam Chomsky ci aveva offerto un'immagine indelebile, quando parlò di “due cavalli, un unico fantino”. Che cosa mancava allora al ritorno (necessario) di un movimento politico socialista in Italia? Un gruppo dirigente capace e inserito negli stessi social forum. Agli antipodi, quindi, di quei sedicenti micropartiti satelliti ora di Berlusconi ora del PDS-DS-PD: uno di loro nel 2006 affossò la proposta di una Commissione d'inchiesta parlamentare sui fatti di Genova grazie ai voti di tali Cinzia Dato e Angelo Piazza. Sia ignominia su di loro. Per sempre.
Quanto a noi, fedeli agli ideali del movimento antiliberista e attivi nella costruzione di un più largo e inclusivo partito socialista di sinistra, valgano le parole di uno che se ne intendeva. “Erra chi crede che la vittoria delle imprese consista nello essere giuste o ingiuste, perché tutto dì si vede el contrario: che non la ragione, ma la prudenza [la tattica, ndr], le forze e la buona fortuna danno vinte le imprese” (F. Guicciardini, Ricordi, 147). Aver avuto ragione, senza un forte e coerente partito in Italia, non ha giovato né a noi né soprattutto a coloro che avrebbero avuto urgente bisogno di quel partito.