È ormai certo che a guidare il prossimo governo sarà Giorgia Meloni.
La prima notazione che ci sentiamo da fare è sulla indecorosa gestione dei risultati del voto. Se è vero che i ritardi inconcepibili in una democrazia matura (due settimane!) sono da addebitarsi in gran parte al famigerato ‘effetto flipper’ determinato da questo vergognoso sistema elettorale, questo non è che un altro degli ottimi motivi per i quali dovremmo liberarcene.
Giorgia Meloni si sta muovendo con estrema cautela sia sul piano interno che su quello internazionale. La coalizione vincente (FDI-LEGA-FI) può contare su una maggioranza chiara ma non schiacciante e i partiti che la compongono non sono coesi come la gravità della situazione richiederebbe. L’attuale presidente del Consiglio Mario Draghi con cui Meloni pare aver instaurato un fattivo dialogo cerca di favorire un passaggio dei poteri quanto più indolore possibile mentre sembra anche preparare il terreno nei consessi internazionali a colei che gli succederà.
Dunque tutto bene, madama la marchesa? Assolutamente no. Il governo che da qui a poco si dovrà installare mostra, ancora prima di essere selezionato e di entrare in carica, tutte le sue debolezze. Di queste, alcune riguardano proprio Giorgia Meloni, altre i nomi che sceglierà o che condividerà con i suoi alleati.
Cominciamo dai problemi di Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia, anche se ha molto attenuato i toni rispetto alle sue ultime uscite, è a capo di una forza politica che è stata certamente traghettata da Gianfranco Fini oltre il fascismo storico (anche per ragioni anagrafiche) e, in gran parte, anche oltre il neofascismo ma che, tuttavia, mantiene rapporti equivoci con talune realtà come Forza Nuova e, ancor più, Casa Pound, come anche recenti inchieste giornalistiche hanno svelato. Dal momento che simili formazioni politiche valgono elettoralmente una miseria (Forza Nuova alle elezioni politiche del 2018 ha raccolto lo 0,39 alla Camera e lo 0,50 al Senato mentre casa Pound nelle stesse consultazioni ha strappato lo 0,95 alla Camera e lo 0,86 al Senato) invitiamo caldamente Giorgia Meloni a disfarsene e ad abbandonarle al loro destino. Forse (ma non è certo) questo passo potrebbe portare FDI a riconfigurarsi nel medio-lungo periodo in una destra repubblicana cui poter affidare le sorti del paese con meno timore di quanto non si faccia ora.
L’altro serio problema riguarda la classe dirigente espressa da questo partito e dalle forze con questo alleate. Le convulse consultazioni di questi giorni testimoniano di un ristretto numero di nomi (sempre gli stessi) in ballo per i posti più diversi. Di questi soggetti solo pochi (o pochissimi se vogliamo stringere le maglie della selezione) possono aspirare a incarichi di alta responsabilità. Al momento, neanche candidati con alle spalle una solida carriera di amministratore sembrano avere le qualità per rivestire incarichi ministeriali. Per fortuna sono, in ultima analisi, nelle mani del Presidente Mattarella le scelte relative agli incarichi di maggior rilievo (Economia ed Esteri). Non va meglio con i nomi suggeriti dalle altre componenti la coalizione (un solo esempio: il nome di Licia Ronzulli costantemente rilanciato da Silvio Berlusconi per una poltrona purché sia). Questo balletto non fa ben sperare in vista della formazione di un esecutivo di alto profilo anche se la stessa Meloni ha dichiarato che la competenza sarà l’unico criterio che guiderà le sue scelte. Non se ne gioverebbe certo la credibilità internazionale del nostro paese che di tutto ha bisogno tranne che di un governo sotto tutela, sia essa nazionale o internazionale.
D’altra parte, voci in questo senso si sono già levate nell’arena europea; dichiarazioni incaute di esponenti di governi stranieri – pur rispedite al mittente dal Quirinale - hanno chiarito con quale spirito le azioni di questo nuovo governo saranno giudicate e non soltanto per ciò che attiene la politica europea.
Dall’altra parte c’è una sinistra (o qualcosa che dovrebbe assomigliarle) che si identifica nel Partito democratico e in quello che rimane dei 5 stelle a guida contiana. Sbaglierebbe chi dicesse che la crisi del PD è una crisi politica; quella del PD è una crisi culturale. Sono evaporati da tempo i riferimenti storici e ideologici che facevano tale una forza storicamente di sinistra. Il problema del lavoro è ormai residuale nel dibattito politico interno al PD. Siamo di fronte a un partito che, preso atto della sconfitta, pensa sia sufficiente, ancora una volta, cambiare segretario per cambiare il corso delle cose.
Tragicamente la soluzione che si staglia all’orizzonte sembra peggiore del male che si vuol combattere. Enrico Letta ha lanciato la candidatura alla segreteria del PD di Elly Schlein. Per carità, nulla contro la persona, ma come ha scritto di recente un commentatore: a un quarantenne precario che si chiede quando e con quanto potrà andare in pensione, non puoi parlare di maternità surrogata. Se lo fai i risultati sono facilmente immaginabili. Per un partito mai nato, con buona pace di Veltroni e Prodi, la fine più dignitosa sarebbe l’eutanasia prima di condannarsi all’irrilevanza seguendo l’esempio dei socialisti francesi. Un panorama di questo tipo riaprirebbe finalmente la prospettiva per l’azione di una forza autenticamente socialista.
Ricordiamoci sempre che gli anni Settanta, la famosa stagione dei diritti in cui abbiamo avuto leggi sul divorzio, sull’aborto e sul nuovo diritto di famiglia cominciarono con l’approvazione dello Statuto dei lavoratori che portava la democrazia e la Costituzione nelle fabbriche dopo quasi venticinque anni di storia repubblicana.