E’ stata una pornostar a incastrarlo. Nell’ ottobre 2016, a un mese dalle elezioni presidenziali, Trump è in coda nei sondaggi dietro Hillary Clinton. Il suo vantarsi di afferrare le donne "per la figa" gli ha allontanato gli elettori, le donne in particolare. I repubblicani lo stanno sconfessando. Quando salta fuori un'altra storia: un presunto incontro sessuale con una porno star, Stormy Daniels – alias Stephanie Clifford - in Nevada nel 2006, pochi mesi dopo che sua moglie, Melania, ha dato alla luce il loro figlio, Barron. La notizia arriva alle orecchie di David Pecker, proprietario del National Enquirer, una rivista scandalistica. Pecker, che è in ottimi rapporti con Trump, allerta l’allora avvocato di Trump, Michael Cohen. Undici giorni prima delle elezioni del 2016, Cohen ottiene da Daniels la firma su un accordo di non divulgazione. Prezzo del silenzio: $ 130.000. E Trump diventa presidente. Nel 2018, il Wall Street Journal pubblica tutta la storia, compresi i pagamenti in contanti a Daniels. I pubblici ministeri federali e l'FBI aprono un'indagine. Spendendo i propri soldi per mantenere Daniels zitta, Cohen ha dato l’equivalente di un contributo illegale alla campagna presidenziale di Trump allo scopo di influenzare le elezioni. Cohen si dichiara colpevole, è condannato a tre anni di carcere per violazione del finanziamento della campagna elettorale. Mentre Trump, anche se risulta abbia versato degli assegni al suo ex avvocato presumibilmente per rimborsarlo dei soldi dati a Daniels, non è perseguito a causa delle linee guida del Dipartimento di Giustizia che mettono in guardia dal perseguire un presidente in carica. Le cose cambiano quando lascia l'incarico. Le indagini continuano e saltano fuori: presunti tentativi di interferire nel conteggio dei voti elettorali del 2020 nello stato della Georgia; documenti riservati nella sua casa di Mar-a-Lago in Florida; numerosi tentativi per invertire la sconfitta elettorale del 2020. A investigare sul caso Stormy Daniels è il democratico Alvin Bragg, 49 anni, primo procuratore distrettuale nero di Manhattan, il quale raccoglie le prove e a gennaio le presenta a un gran giurì, che le ritiene sufficienti per incriminare formalmente Donald Trump. Il 30 marzo Bragg emette l’atto d'accusa e Donald Trump diventa il primo ex presidente degli Stati Uniti a dover affrontare accuse penali. Mai, infatti, nei 247 anni di storia della repubblica americana un presidente o un ex presidente è stato incriminato. Il 4 aprile Donald Trump si presenta al tribunale di New York, a Manhattan, in stato di arresto. Gli prendono le impronte digitali, gli leggono le imputazioni. Gli vengono contestate “34 conteggi di falsificazione di documenti aziendali di primo grado” in relazione a pagamenti in contanti che occulterebbero condotte criminose. Alla domanda come si dichiara, risponde: "Non colpevole". Ed esce dal tribunale circondato da avvocati e guardie del corpo minacciando di scatenare violenze in tutto il paese. L'arresto di un uomo che poco più di due anni fa era il presidente del suo paese è l'affermazione di uno dei principi fondamentali di una democrazia: l'uguaglianza davanti alla legge. Principi democratici che Donald Trump dimostra di ignorare oggi come già nel gennaio 2021, quando una folla di suoi sostenitori, con il suo tacito consenso, ha devastato il Campidoglio nel tentativo di sovvertire i risultati elettorali che lo davano perdente. Al di là dell’Atlantico, c’è un altro primo ministro che deve fare i conti con la legge: il premier israeliano Benjamin Netanyahu, formalmente incriminato, il 21 novembre 2019, per corruzione, frode e abuso d’ufficio. Il 29 dicembre scorso, dopo un anno all’opposizione, Netanyahu è riuscito a rioccupare la carica di Primo Ministro in seguito alle elezioni parlamentari del 1° novembre, che hanno visto imporsi il blocco quadripartitico di destra: Likud, Partito Sionista Religioso, Giudaismo Unito nella Torah e Shas. Nel mese di febbraio il ministro della giustizia Yariv Levin presenta il piano di "riforma legale" del governo. Che prevede: il controllo governativo sulla nomina dei giudici sia alla Corte Suprema che alle corti inferiori; il diminuito potere della Corte Suprema di abolire le leggi approvate dal parlamento; la facoltà del parlamento di annullare con voto a maggioranza semplice le decisioni della Corte Suprema. Netanyahu pensa che, avendo appena vinto le elezioni, l'opposizione non sarà in grado di organizzare una campagna contro la sua politica. Sbaglia. Il piano è accolto con proteste furiose in tutto Israele, con la partecipazione di centinaia di migliaia di cittadini, che temono di veder cancellate le tradizioni liberali e laiche del paese a favore di un governo di estrema destra e ultrareligioso. Con i dimostranti, si schierano alti dirigenti d'azienda. Migliaia di ufficiali e piloti delle unità di riserva. Membri del partito Likud, il partito politico di Netanyahu, e di altri partiti della sua coalizione. I lavoratori dell'industria tecnologica, parte fondamentale dell'economia israeliana. I guai del governo peggiorano quando, per la prima volta nella storia di Israele, i leader sindacali e gli amministratori delegati delle principali aziende uniscono le forze minacciando uno sciopero generale. Centri commerciali, scuole, università e banche iniziano a chiudere, come l’aeroporto internazionale di Israele. Dopo tre mesi di disordini e proteste, che hanno portato il paese sull’orlo del caos, il premier israeliano decide di sospendere le riforme della Corte Suprema. Sospendere, non annullare: perché se fa marcia indietro sulla questione della legislazione, rischia di perdere la maggioranza alla Knesset. Le riforme della Corte Suprema sono state infatti una richiesta chiave dei partiti di estrema destra e ultrareligiosi del suo governo; abbandonarle potrebbe distruggere la sua coalizione, faticosamente assemblata dopo una serie di elezioni inconcludenti. Netanyahu si impegna quindi sia a reintrodurre la legislazione sia, per convincere il recalcitrante ministro della sicurezza nazionale Ben-Gvir, il politico più estremista di Israele, condannato per istigazione all'odio razziale e sostegno a organizzazioni terroristiche ebraiche, a dargli il controllo di una nuova "guardia nazionale" di volontari, in pratica una milizia privata. Mossa condannata dall’opposizione che accusa Netanyahu di portare Israele alla dittatura. A 73 anni, Netanyahu sta lottando per la sua sopravvivenza politica e personale, con il suo caso di corruzione in corso che pesa su di lui. È bloccato tra i tribunali, la sua coalizione, l'esercito e la strada. E’ precipitato nei sondaggi. Se si tenesse un'elezione ora, perderebbe. Sperava di tirarsi fuori dai guai limitando i poteri della Corte Suprema. E ha precipitato il paese nel caos. Pur di salvarsi, si è dimostrato pronto a far scivolare Israele sulla strada della dittatura. Non molto diversamente da quanto sta tentando Donald Trump.