NO AL PREMIERATO di Paolo Bagnoli
di Paolo Bagnoli
28-05-2024 - EDITORIALE
La Costituzione è quanto di più serio esprime la Repubblica che da essa è motivata e regolata. Ne consegue che dovrebbe essere trattata con il rispetto dovuto; se esso viene meno anche il senso della Repubblica ne risente come pure quello delle sue pratiche pubbliche che dovrebbero essere aderenti alla sua lettera e al suo spirito.
La Costituzione prevede la propria modifica. Ciò è avvenuto, spesso con il presappochismo confuso de tatticismo quando, invece, sarebbe saggio e “repubblicano” intervenirci il meno possibile e solo con motivate ragioni strategiche di ammodernamento strategico del nostro impianto istituzionale. Le questioni istituzionali, infatti, non ammettono leggerezza, ma ponderatezza, responsabilità e concettualizzazione storico-politica. Per esempio, la riduzione dei parlamentari ha testimoniato come la nostra classe politica sia andata in senso del tutto opposto rispetto a quanto sopra.
Ora siamo al premierato: vale a dire, al tentativo della destra di cambiare la Costituzione introducendo l'elezione diretta del capo del governo. Su tale opzione la presidente del consiglio sta spendendo tutta se stessa, con tanta foga, visto che, se in Parlamento la proposta dovesse passare, il referendum sarebbe inevitabile e su quel voto è disposta a giocarsi il tutto per tutto, tanto da dire: ”o la va o spacca”.
Libera di dire quello che pensa – compreso il fatto che se il referendum dovesse essere bocciato non ci pensa nemmeno a lasciare il governo come fece ,a suo tempo, Matteo Renzi - liberi noi di dire ciò che pensiamo: in primo luogo la nostra preoccupazione per il modo con il quale affronta il problema. Sbaglieremmo, tuttavia, a ritenere che per la Meloni ciò non rappresenti un passaggio al pari dei tanti della propria presidenza perché se dovesse farcela non solo per lei sarebbe andata, ma avrebbe anche spaccato. Che cosa? Facile: la Repubblica e quanto storicamente e fattualmente la giustifica. La vittoria del premierato, infatti, richiederebbe una reiscrittura della carta costituzionale che, così, cambierebbe le proprie ragioni storiche. Quella in vigore andrebbe in archivio. I vinti di allora sarebbero i vincitori di oggi e non tanto perché tornerebbe così il fascismo di un tempo, ma in quanto non avrebbe più ragione di essere l'antifascismo che costituisce il patrimonio della nostra libertà, della nostra democrazia, della nostra comunità nazionale; in altri termini, della nostra moderna civiltà. Tolto di mezzo l'antifascismo scomparirebbe anche la negatività del fascismo – parola che, lo sappiamo, la presidente del consiglio non usa – la cui ventennale dittatura rientrerebbe in un paradigma non negativo o delegittimato della storia nazionale se pur caratterizzato da qualche incidente di percorso. Lo vediamo nei giorni in cui l'Italia celebra il centenario dell'assassinio di Giacomo Matteotti; ogni commento ci pare superfluo. Caso mai c'è da notare come tale disegno culturale sia partito da tempo con mostre, programmi televisivi, convegni e tutto quanto contribuisca alla conquista del fine; alla conclusione che l'Italia, quella vera, si concepisce a destra e solo a destra lo può essere poiché è qui che risiedono i concetti e i valori di “nazione” e di “patria”.
Tutto quanto non è a destra viene definito di sinistra essendo antinazionale e antipatriottico portando con sé il torto della storia di cui, per la proprietà transitiva, anche la Costituzione è espressione essendo nata dalla lotta antifascista, dalla Resistenza e dalla Guerra di Liberazione Nazionale. Come andarono le cose è superfluo ricordare. Ora, se tutti questi passaggi sono valorialmente di sinistra, dal momento che ci hanno dato a prezzo carissimo la libertà e la democrazia, essere di sinistra è un motivo alto di vanto. Così, però, si fa un torto alle vicende storiche poiché di questi passaggi furono protagonisti italiani che non erano di “sinistra” in senso proprio, ne mai lo furono dopo e che, nella lotta democratica furono politicamente avversari anche feroci della “sinistra” vera. Anche sul piano delle scelte istituzionali in quanto pure i monarchici parteciparono alla lotta per liberare il Paese.
E' in gioco, con il premierato, una grande partita che ci sembra non ben messa a fuoco né dai politici dell'opposizione, né dai commentatori dei nostri media né da chi, per mestiere, analizza i processi politici. Le ragioni per cui ciò avviene non è dato sapere; certo che agli interessi di vario tipo che sempre sono in campo si aggiunge il confusionismo, spesso il nullismo culturale per cui, più che andare a fondo delle motivazioni strategiche, si preferisce fare la corsa sul posto sublimando il tatticismo poiché, alla fine, ciò che conta è che tutto rimanga nel recinto del governismo, ossia di una delle forme che il nostro trentennale populismo ci ha consegnato; quasi si trattasse di un problema “tecnico”; di un problema che non pone questioni supreme di principio, ma solo aggiustamenti e, quindi, ad essi tutto alla fine si riconduce. Così, nemmeno il popolano “o la va o spacca” suscita indignazione; in fondo è solo un episodio mediatico; una volta cambiato canale televisivo si passa ad altro.
Uno dei motivi che la maggioranza porta a sostegno del premierato è che con esso avremmo la stabilità nel governo del Paese. Questo è quanto garantisce la tenuta del sistema e, benché si abbia avuto un numero molto alto di governi nella nostra storia repubblicana, ciò non ha indebolito il sistema che ha superato, grazie ai fondamenti costituzionali su cui si basa, crisi durissime: dai tentativi di colpo di Stato, al terrorismo, allo stragismo mafioso.
I governi sono forti o deboli a seconda della forza o della debolezza della politica. Oggi che essa è scomparsa per lasciare il posto al politicantismo – e lo è da circa tre decenni – avendo smarrito la dimensione progettuale che era spettanza dei partiti e che questi non ci sono più, ecco che si registrano fattori favorevoli poiché una destra divisa e carente nella governabilità del Paese, con un colpo solo, da un lato, cambi la storia del Paese e, dall'altro, consegni a se stessa il comando del vapore spacciandolo per il volere del popolo.
Nessuno sa come andrà a finire. La sola cosa che tutti possono registrare è il regresso civile e culturale del Paese per il cui bene occorre mobilitarsi in primo luogo ricostruendo una politica che disegni un'altra Italia rispetto a quella attuale. Dal tanto storico e culturale che sta alle nostra spalle possiamo trarre utili ragioni, ammonimenti e, perché no?, anche lezioni.
La Costituzione prevede la propria modifica. Ciò è avvenuto, spesso con il presappochismo confuso de tatticismo quando, invece, sarebbe saggio e “repubblicano” intervenirci il meno possibile e solo con motivate ragioni strategiche di ammodernamento strategico del nostro impianto istituzionale. Le questioni istituzionali, infatti, non ammettono leggerezza, ma ponderatezza, responsabilità e concettualizzazione storico-politica. Per esempio, la riduzione dei parlamentari ha testimoniato come la nostra classe politica sia andata in senso del tutto opposto rispetto a quanto sopra.
Ora siamo al premierato: vale a dire, al tentativo della destra di cambiare la Costituzione introducendo l'elezione diretta del capo del governo. Su tale opzione la presidente del consiglio sta spendendo tutta se stessa, con tanta foga, visto che, se in Parlamento la proposta dovesse passare, il referendum sarebbe inevitabile e su quel voto è disposta a giocarsi il tutto per tutto, tanto da dire: ”o la va o spacca”.
Libera di dire quello che pensa – compreso il fatto che se il referendum dovesse essere bocciato non ci pensa nemmeno a lasciare il governo come fece ,a suo tempo, Matteo Renzi - liberi noi di dire ciò che pensiamo: in primo luogo la nostra preoccupazione per il modo con il quale affronta il problema. Sbaglieremmo, tuttavia, a ritenere che per la Meloni ciò non rappresenti un passaggio al pari dei tanti della propria presidenza perché se dovesse farcela non solo per lei sarebbe andata, ma avrebbe anche spaccato. Che cosa? Facile: la Repubblica e quanto storicamente e fattualmente la giustifica. La vittoria del premierato, infatti, richiederebbe una reiscrittura della carta costituzionale che, così, cambierebbe le proprie ragioni storiche. Quella in vigore andrebbe in archivio. I vinti di allora sarebbero i vincitori di oggi e non tanto perché tornerebbe così il fascismo di un tempo, ma in quanto non avrebbe più ragione di essere l'antifascismo che costituisce il patrimonio della nostra libertà, della nostra democrazia, della nostra comunità nazionale; in altri termini, della nostra moderna civiltà. Tolto di mezzo l'antifascismo scomparirebbe anche la negatività del fascismo – parola che, lo sappiamo, la presidente del consiglio non usa – la cui ventennale dittatura rientrerebbe in un paradigma non negativo o delegittimato della storia nazionale se pur caratterizzato da qualche incidente di percorso. Lo vediamo nei giorni in cui l'Italia celebra il centenario dell'assassinio di Giacomo Matteotti; ogni commento ci pare superfluo. Caso mai c'è da notare come tale disegno culturale sia partito da tempo con mostre, programmi televisivi, convegni e tutto quanto contribuisca alla conquista del fine; alla conclusione che l'Italia, quella vera, si concepisce a destra e solo a destra lo può essere poiché è qui che risiedono i concetti e i valori di “nazione” e di “patria”.
Tutto quanto non è a destra viene definito di sinistra essendo antinazionale e antipatriottico portando con sé il torto della storia di cui, per la proprietà transitiva, anche la Costituzione è espressione essendo nata dalla lotta antifascista, dalla Resistenza e dalla Guerra di Liberazione Nazionale. Come andarono le cose è superfluo ricordare. Ora, se tutti questi passaggi sono valorialmente di sinistra, dal momento che ci hanno dato a prezzo carissimo la libertà e la democrazia, essere di sinistra è un motivo alto di vanto. Così, però, si fa un torto alle vicende storiche poiché di questi passaggi furono protagonisti italiani che non erano di “sinistra” in senso proprio, ne mai lo furono dopo e che, nella lotta democratica furono politicamente avversari anche feroci della “sinistra” vera. Anche sul piano delle scelte istituzionali in quanto pure i monarchici parteciparono alla lotta per liberare il Paese.
E' in gioco, con il premierato, una grande partita che ci sembra non ben messa a fuoco né dai politici dell'opposizione, né dai commentatori dei nostri media né da chi, per mestiere, analizza i processi politici. Le ragioni per cui ciò avviene non è dato sapere; certo che agli interessi di vario tipo che sempre sono in campo si aggiunge il confusionismo, spesso il nullismo culturale per cui, più che andare a fondo delle motivazioni strategiche, si preferisce fare la corsa sul posto sublimando il tatticismo poiché, alla fine, ciò che conta è che tutto rimanga nel recinto del governismo, ossia di una delle forme che il nostro trentennale populismo ci ha consegnato; quasi si trattasse di un problema “tecnico”; di un problema che non pone questioni supreme di principio, ma solo aggiustamenti e, quindi, ad essi tutto alla fine si riconduce. Così, nemmeno il popolano “o la va o spacca” suscita indignazione; in fondo è solo un episodio mediatico; una volta cambiato canale televisivo si passa ad altro.
Uno dei motivi che la maggioranza porta a sostegno del premierato è che con esso avremmo la stabilità nel governo del Paese. Questo è quanto garantisce la tenuta del sistema e, benché si abbia avuto un numero molto alto di governi nella nostra storia repubblicana, ciò non ha indebolito il sistema che ha superato, grazie ai fondamenti costituzionali su cui si basa, crisi durissime: dai tentativi di colpo di Stato, al terrorismo, allo stragismo mafioso.
I governi sono forti o deboli a seconda della forza o della debolezza della politica. Oggi che essa è scomparsa per lasciare il posto al politicantismo – e lo è da circa tre decenni – avendo smarrito la dimensione progettuale che era spettanza dei partiti e che questi non ci sono più, ecco che si registrano fattori favorevoli poiché una destra divisa e carente nella governabilità del Paese, con un colpo solo, da un lato, cambi la storia del Paese e, dall'altro, consegni a se stessa il comando del vapore spacciandolo per il volere del popolo.
Nessuno sa come andrà a finire. La sola cosa che tutti possono registrare è il regresso civile e culturale del Paese per il cui bene occorre mobilitarsi in primo luogo ricostruendo una politica che disegni un'altra Italia rispetto a quella attuale. Dal tanto storico e culturale che sta alle nostra spalle possiamo trarre utili ragioni, ammonimenti e, perché no?, anche lezioni.