"PROVIAMO A RAGIONARE SULLA GUERRA E LA PACE" di Paolo Bagnoli
26-06-2023 - IL SOCIALISMO NEL MONDO
La fine della guerra fredda aveva aperto alla speranza che il concetto stesso di guerra non tanto si fosse allontanato da noi perché ciò è impossibile, ma che il dato della pace fosse prevalente; che, caduto il comunismo, si fosse aperta una nuova stagione nella quale il rischio di conflitti, freddi o caldi che fossero, venisse relegato nel remoto di un passato oramai saldamente alle spalle. I fatti, con l'aggressione russa all'Ucraina, hanno smentito tutto e l'Europa, che segna i confini della Russia, si trova a fare i conti con una situazione nella quale il doveroso appoggio alla resistenza dell'Ucraina rischia di tramutarsi in un coinvolgimento bellico contro la Russia. Perché, ci domandiamo, l'Occidente, che dalla guerra fredda è uscito vincitore, non si è applicato a costruire la pace?
Nessuno certo avrebbe potuto immaginare che la situazione sarebbe arrivata a questo punto, ma è possibile che, dati i tanti centri strategici che ci sono, nessuno abbia mai posto attenzione che la persistenza della Russia nel sentirsi un Paese imperiale, come ai tempi dello zarismo prima e del comunismo poi, avrebbe potuto, in qualche modo, ripresentarsi? In ciò, a nostro avviso, risiedono le ragioni storico-culturali del putinismo: nel non arrendersi a essere una potenza depotenziata. E' un qualcosa che va ben al di là dei regimi e dei loro destini essendo, questo, un dato culturale genetico della Russia la quale, per esprimersi, deve naturalmente contrapporsi all'Europa e ai valori occidentali che rappresenta.
La fine del comunismo non aveva segnato la fine della storia, ma aperto una nuova storia che tornava sui suoi passi incontrando la vecchia storia. Ritenere che la storia fosse finita è' stato un errore politico-culturale dagli effetti devastanti; la Russia non ha mancato di esprimere il proprio spirito nazionale, la concezione orientale del potere che da sempre la caratterizza in quanto la fine del comunismo non ha generato l'avvento della democrazia. Anzi, l'ha rafforzata nell'alzare la testa a fronte di un'Europa sostanzialmente impotente e alleato subalterno degli Stati Uniti.
L'Occidente e quindi l'Europa in primis, doveva applicarsi a elaborare in termini concettuali il concetto stesso di pace che non significa mancanza di guerra. La pace è un'idea che appartiene alla politica e, quindi, richiede una politica che si ispiri all'incivilimento dei popoli, all'aiuto e alla solidarietà internazionale, alla salvaguardia dei diritti; insomma, alla costruzione di tutto quanto implica un nuovo umanesimo di cui tutti possano usufruire e al quale tutti sono chiamati a concorrere. La pace è una cultura fondata su una concezione dell'uomo non sul non uso delle armi.
Dalla guerra fredda l'Occidente era uscito restando in piedi e la Russia in ginocchio; così la pace, quale concetto politico, doveva implicare che il vincitore offriva la propria mano al vinto per rialzarsi e per concordare insieme le forme di una cooperante convivenza. Se ci ricordiamo bene, in fondo, era quanto Gorbaciov aveva chiesto quando tutto il suo mondo stava per crollare; qualche cosa arrivò, ma era insignificante e gli Stati Uniti preferirono fidarsi di Eltsin – espressione tipica e rozza della concezione orientale del potere – senza disegno strategico alcuno, ma Eltsin altro non era che il preputinismo. Il resto è sotto gli occhi di tutti.
Uno sbaglio di grosse dimensioni. Proviamo, invece, a immaginare come avrebbero potuto evolversi le cose se l'Europa e gli Stati Uniti avessero avuto coraggio e si fosse preso atto che, caduta l'URSS, l'alleanza militare atlantica come era stata concepita non aveva più senso e che, oramai, la questione, sicuramente fondamentale, della sicurezza andava reimpostata tenendo conto e pure coinvolgendo quanto era venuto dopo il regime comunista in Russia. Il coraggio non c'è stato; la guerra è venuta per colpa della Russia e uno strumento che sembrava arcaico come la Nato non solo ha ripreso vigore risucchiando la politica in una spirale bellicista per cui, facendosi scudo dell'aggressività di Putin, il problema dell'Europa sembra essere diventato quello della sua massima militarizzazione strategica. Si dirà che è solo realismo, ma il termine è equivoco e giustificatorio; anche Kissinger definiva realismo bombardare la Cambogia e il Laos nonché fare fuori Salvator Allende e la democrazia cilena.
La condanna di Putin e gli aiuti all'Ucraina sono fuori discussione. Non ci convince, tuttavia, l'affermazione che essa combatte anche per la nostra libertà: la verità è che tutti si combatte con l'Ucraina perché questa è la volontà dell'amministrazione americana che vuole dimostrare di essere una superpotenza e, a questo punto, la sconfitta di Putin diviene il fattore di controprova della propria forza. Volesse il cielo che Putin cadesse; quanto sta succedendo con la Wagner ci dice della sua debolezza, ma, Putin o non Putin, il problema della Russia e dei rapporti dell'Occidente con essa si riproporrebbe nei termini cui dicevamo sopra. Alla pace, intesa come termine delle ostilità, si arriverà ma sarà forse ancora con Putin che bisognerà fare i conti. Forse entro l'anno il conflitto si fermerà anche perché Biden non ha interesse alcuno a fare una campagna elettorale per la rielezione con la guerra in atto. Leviamoci di mente, tuttavia, che tutto ritornerà come prima e che l'Ucraina riavrà il territori perso; è più facile riabbia la Crimea che non il Donbass ove esiste una popolazione che russa è e russa vuole essere. Che poi, al di là dei discorsi – inevitabili peraltro –su una corsia speciale per l'entrata dell'Ucraina nell'Europa e nella Nato vediamo; se veramente si volesse lavorare alla pace secondo il concetto politico cui accennavamo prima, cambierebbe la qualità del discorso, ma che tutto avvenga di corsa non ci sembra realistico.
La situazione è difficile e i popoli europei che andranno alle urne l'anno prossimo per il rinnovo dell'Europarlamento questa volta si trovano di fronte a un voto non secondario rispetto a quello per il proprio Paese. Al momento non vediamo né forze culturali né politiche andare oltre le solite formule. Il rischio è che, in un clima più dettato dalla pancia che non dal cervello, la situazione si avviti ancora di più e così, ancora di più, l'Europa sarà meno autonoma nell'alleanza con gli Stati Uniti.
Nessuno certo avrebbe potuto immaginare che la situazione sarebbe arrivata a questo punto, ma è possibile che, dati i tanti centri strategici che ci sono, nessuno abbia mai posto attenzione che la persistenza della Russia nel sentirsi un Paese imperiale, come ai tempi dello zarismo prima e del comunismo poi, avrebbe potuto, in qualche modo, ripresentarsi? In ciò, a nostro avviso, risiedono le ragioni storico-culturali del putinismo: nel non arrendersi a essere una potenza depotenziata. E' un qualcosa che va ben al di là dei regimi e dei loro destini essendo, questo, un dato culturale genetico della Russia la quale, per esprimersi, deve naturalmente contrapporsi all'Europa e ai valori occidentali che rappresenta.
La fine del comunismo non aveva segnato la fine della storia, ma aperto una nuova storia che tornava sui suoi passi incontrando la vecchia storia. Ritenere che la storia fosse finita è' stato un errore politico-culturale dagli effetti devastanti; la Russia non ha mancato di esprimere il proprio spirito nazionale, la concezione orientale del potere che da sempre la caratterizza in quanto la fine del comunismo non ha generato l'avvento della democrazia. Anzi, l'ha rafforzata nell'alzare la testa a fronte di un'Europa sostanzialmente impotente e alleato subalterno degli Stati Uniti.
L'Occidente e quindi l'Europa in primis, doveva applicarsi a elaborare in termini concettuali il concetto stesso di pace che non significa mancanza di guerra. La pace è un'idea che appartiene alla politica e, quindi, richiede una politica che si ispiri all'incivilimento dei popoli, all'aiuto e alla solidarietà internazionale, alla salvaguardia dei diritti; insomma, alla costruzione di tutto quanto implica un nuovo umanesimo di cui tutti possano usufruire e al quale tutti sono chiamati a concorrere. La pace è una cultura fondata su una concezione dell'uomo non sul non uso delle armi.
Dalla guerra fredda l'Occidente era uscito restando in piedi e la Russia in ginocchio; così la pace, quale concetto politico, doveva implicare che il vincitore offriva la propria mano al vinto per rialzarsi e per concordare insieme le forme di una cooperante convivenza. Se ci ricordiamo bene, in fondo, era quanto Gorbaciov aveva chiesto quando tutto il suo mondo stava per crollare; qualche cosa arrivò, ma era insignificante e gli Stati Uniti preferirono fidarsi di Eltsin – espressione tipica e rozza della concezione orientale del potere – senza disegno strategico alcuno, ma Eltsin altro non era che il preputinismo. Il resto è sotto gli occhi di tutti.
Uno sbaglio di grosse dimensioni. Proviamo, invece, a immaginare come avrebbero potuto evolversi le cose se l'Europa e gli Stati Uniti avessero avuto coraggio e si fosse preso atto che, caduta l'URSS, l'alleanza militare atlantica come era stata concepita non aveva più senso e che, oramai, la questione, sicuramente fondamentale, della sicurezza andava reimpostata tenendo conto e pure coinvolgendo quanto era venuto dopo il regime comunista in Russia. Il coraggio non c'è stato; la guerra è venuta per colpa della Russia e uno strumento che sembrava arcaico come la Nato non solo ha ripreso vigore risucchiando la politica in una spirale bellicista per cui, facendosi scudo dell'aggressività di Putin, il problema dell'Europa sembra essere diventato quello della sua massima militarizzazione strategica. Si dirà che è solo realismo, ma il termine è equivoco e giustificatorio; anche Kissinger definiva realismo bombardare la Cambogia e il Laos nonché fare fuori Salvator Allende e la democrazia cilena.
La condanna di Putin e gli aiuti all'Ucraina sono fuori discussione. Non ci convince, tuttavia, l'affermazione che essa combatte anche per la nostra libertà: la verità è che tutti si combatte con l'Ucraina perché questa è la volontà dell'amministrazione americana che vuole dimostrare di essere una superpotenza e, a questo punto, la sconfitta di Putin diviene il fattore di controprova della propria forza. Volesse il cielo che Putin cadesse; quanto sta succedendo con la Wagner ci dice della sua debolezza, ma, Putin o non Putin, il problema della Russia e dei rapporti dell'Occidente con essa si riproporrebbe nei termini cui dicevamo sopra. Alla pace, intesa come termine delle ostilità, si arriverà ma sarà forse ancora con Putin che bisognerà fare i conti. Forse entro l'anno il conflitto si fermerà anche perché Biden non ha interesse alcuno a fare una campagna elettorale per la rielezione con la guerra in atto. Leviamoci di mente, tuttavia, che tutto ritornerà come prima e che l'Ucraina riavrà il territori perso; è più facile riabbia la Crimea che non il Donbass ove esiste una popolazione che russa è e russa vuole essere. Che poi, al di là dei discorsi – inevitabili peraltro –su una corsia speciale per l'entrata dell'Ucraina nell'Europa e nella Nato vediamo; se veramente si volesse lavorare alla pace secondo il concetto politico cui accennavamo prima, cambierebbe la qualità del discorso, ma che tutto avvenga di corsa non ci sembra realistico.
La situazione è difficile e i popoli europei che andranno alle urne l'anno prossimo per il rinnovo dell'Europarlamento questa volta si trovano di fronte a un voto non secondario rispetto a quello per il proprio Paese. Al momento non vediamo né forze culturali né politiche andare oltre le solite formule. Il rischio è che, in un clima più dettato dalla pancia che non dal cervello, la situazione si avviti ancora di più e così, ancora di più, l'Europa sarà meno autonoma nell'alleanza con gli Stati Uniti.