"QUANDO L'IDEOLOGIA ANNEBBIA..."
25-01-2022 - STORIE&STORIE
L’anno scorso è uscito un libro dal titolo attraente: Piero Bini, Scienza economica e potere. Gli economisti e la politica economica dall’unità d’Italia alla crisi dell’euro, Soveria Mannelli, 2021. Libro scritto molto bene, che si legge di getto, a mio avviso ha un peccato originale che inficia tutta la narrazione. L’autore, senza mai dichiararlo apertamente (perlomeno non lo abbiamo trovato), ci presenta la sua analisi solo di una parte del pensiero economico: quello degli economisti liberisti, cioè di quegli economisti che considerano il libero mercato senza regole, come l’unico parametro per valutare o meno la validità di una politica economica. Il libero mercato, nella realtà, come ci ricorda Paul Bairoch (Economia e Storia mondiale. Miti e paradossi) è durato poco tempo, nel corso del XIX° secolo, ed è servito all’Inghilterra, paese first comer, a mantenere, grazie al suo vantaggio tecnologico, il dominio sul mondo. Tant’è che perfino gli USA alzano le barriere protettive per tutelare le loro imprese “bambine”. Soprattutto Paul Bairoch ci ricorda come durante gli anni in cui vige il protezionismo l’economia progredisce, mentre durante il periodo in cui si applica il liberismo si ha la crisi.
Per esigenze di spazio si prendono in esame due periodi: quello fascista e quello più recente che arriva fino al 2014, ma queste considerazioni si potrebbero applicare anche alle altre parti. Insomma, cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia.
Il libro inizia con “doveroso” inchino a Camillo Benso conte di Cavour e al padre dei liberisti italiani Francesco Ferrara. In realtà però la grande industria in Italia nasce con il contributo determinante dello Stato che garantisce l’acquisto dei prodotti metallurgici ad un prezzo superiore a quello di mercato e non per germinazione spontanea.
Si pone eccessiva enfasi sul ruolo degli economisti italiani abbagliati dalla politica economica liberista del fascista Ministro delle Finanze e del Tesoro Alberto De’ Stefani che riporta in carreggiata un’economia uscita fortemente compromessa dagli eventi bellici. In realtà, come sostiene lo stesso autore del libro in un passaggio quasi clandestino che meriterebbe ben altro approfondimento, ci sono altri fattori esogeni che hanno reso possibile questa ripresa. Gli economisti liberisti sono tutti fascisti, solo pochi, fra cui Luigi Einaudi (1924) e Umberto Ricci (1926), rompono con il fascismo. Anzi “Italy lost the prince of her economists”, come lo definisce Piero Sraffa nel necrologico pubblicato nel The Economic Journal (Vol. 34, No. 136, dec., 1924, pp. 648-653), Maffeo Pantaleoni difende in Senato Mussolini dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti. Quello che più colpisce è cercare di far risaltare un ruolo degli economisti superiore alla realtà. La valutazione sostenuta dall’autore è contraddetta da Riccardo Faucci (La cultura economica in Il regime fascista storia e storiografia) che considera addirittura deleterio il ruolo degli economisti liberisti durante il fascismo in merito allo sviluppo della ricerca teoretica dell’economia in Italia (p. 509). Lo stesso J. A. Schumpeter (Storia dell’analisi economica p. 1052) fissa il 1914 come l’anno da cui gli economisti liberali italiani cessano di portare dei contributi significativi alla ricerca teorica.
Nel secondo dopoguerra la narrazione della evoluzione della ricerca economica appare squilibrata fra i liberisti e gli altri a favore dei primi. La sufficienza con la quale descrive il ruolo di alcuni economisti che non si riconoscono nel pensiero mainstream ne è la riprova. Non solo i marxisti di varia gradazione, con in testa Piero Sraffa la cui “distruzione” della teoria marginalista mette a repentaglio tutte le certezze dell’autore ma anche tutti quegli economisti che ritengono errata la proposta marginalista come Paolo Sylos Labini. Così come non appare abbastanza approfondita la valutazione dell’importanza del pensiero di John Maynard Keynes e del ruolo che le sue opere hanno avuto sulla politica economica dei primi trent’anni del secondo dopoguerra. Sarebbe facile ricordare come il più convinto fautore del liberismo economico il Premio Nobel per l’economia Friedrich von Hayek sia anche tra i più ferventi sostenitori del dittatore cileno Augusto Pinochet (Personalmente preferisco un dittatore liberale [liberista] a un governo democratico che manca di liberalismo. El Mercurio 12 aprile 1981). Non è da meno l’altro economista liberista Milton Friedman, altro premio Nobel (1976), che oltre essere l’economista della destra americana (Barry Goldwater)), nel 1975 offre gratis i suoi servigi al dittatore golpista cileno. Sarà un caso che tutti i maggiori economisti liberisti sostengano i dittatori o che il problema sia che odiano la democrazia e tutti coloro che vogliono migliorare le condizioni economiche delle classi meno abbienti?
Quando gli economisti classici (Smith, Ricardo, Marx i più significativi) parlano di mercato intendono un luogo dove si scambiano merci in condizioni di parità fra i soggetti che vi operano. I neoliberisti intendono invece il mercato di concorrenza, cioè competitivo dove c’è un vincitore ed un perdente, cioè lo scambio avviene in condizioni di disuguaglianza fra i diversi soggetti e l’atto stesso crea disuguaglianza.
Poiché non si può fare a meno di notare una “certa” discrepanza fra le politiche messe in atto (liberalizzazioni) e i risultati ottenuti occorre motivare questa discrepanza con valutazioni aggiuntive. L’autore attribuisce questo evento al fatto che le retribuzioni salariali sono cresciute più della produttività e le politiche sindacali e di welfare hanno disturbato il compiersi di quanto previsto dai “sacri testi” dell’economia.
Non solo dovrebbe leggersi un power point del Prof. Riccardo Gallo della Sapienza, che non mi sembra un pericoloso marxista, dal titolo L’Italia cresce se l’industria investe (si può reperire in rete) dove si forniscono dati alquanto diversi. In questo studio si dimostra che fra il 1993 e il 2007 la produttività del lavoro è aumentata, la disponibilità del credito è stata in linea con quella degli anni precedenti, soltanto si sono utilizzati gli utili per ridurre i debiti finanziari e aumentare i dividendi e non si sono incrementati gli investimenti. La riprova si ha dalla durata del periodo d’ammortamento degli impianti, nel 2003 si ammortizzano in 16,4 anni, nel 2010 in 26,4).
Veniamo ad un'altra leggenda metropolitana quella del debito pubblico.
Il debito pubblico italiano che nel 1980 assomma circa al 57,7% del PIL, nel 1994, al 123,4%, non è dovuto ad un aumento della spesa pubblica che in quegli anni è sempre inferiore alla media UE ed inferiore alla Germania, ma alla decisione assunta dall’On. Beniamino Andreatta Ministro del Tesoro (Governo Spadolini I) di sollevare la Banca d’Italia dall’obbligo di acquistare i titoli del debito pubblico. Questo ricorso al mercato fa elevare la spesa per il debito pubblico ai livelli prima ricordati. Perché questa scelta? Ce lo spiega l’On. Beniamino Andreatta che in un articolo rievocativo nel decennale del “divorzio” fra la Banca d’Italia e il Tesoro pubblicato da Il Sole 24 ore (26 luglio 1991) spiega che una delle ragioni della scelta è quella di abbattere i salari reali che ovviamente sono sempre la causa di tutti i mali.
Il problema dei salari è un argomento che all’epoca del Governo guidato dal dottor Matteo Renzi ha tenuto banco. Le autorità monetarie internazionali assicurano che due sono i problemi che impediscono il dispiegarsi di una ripresa economica, la flessibilità dei salari e la riduzione delle tasse. Dopo che è stata massacrata la Grecia, dal punto di vista sociale ed economico, il Prof. Olivier Blanchard, già economista capo del Fondo Monetario Internazionale, ha modificato la sua impostazione verso questi due aspetti. Ha spiegato che è più importante, ai fini della crescita, che lo Stato spenda un euro che togliere un euro di tasse. Detto in altre parole il moltiplicatore della spesa pubblica è maggiore di uno, mentre quello di una diminuzione di un euro di tasse è inferiore ad uno. Per quanto riguarda il salario la flessibilità del medesimo non ha portato ad aumentare i posti di lavoro e quindi, sotto questo aspetto, le proposte sono inutili.
Un altro punto riguarda l’euro. Decisione a mio avviso giusta, ma monca. Se non si creano le condizioni perché ci sia una unica gestione del Tesoro a livello europeo presto assisteremo ad ulteriori turbolenze. Lo dimostra quello che è accaduto in America. Nel giro di pochi anni lo Stato della California (territorio che ha il settimo o ottavo pil del mondo) è fallito due volte. Niente è accaduto sui mercati finanziari perché è stato “coperto” dalla solidarietà degli altri Stati attraverso il Ministero del Tesoro Federale.
Quindi questi pochi esempi dimostrano come l’interpretazione dei fatti economici non è univoca: in economia, come in tutte le scienze sociali, non esiste una scienza esatta. Dipende sempre dallo scontro sociale in atto come ha detto Warren Buffet. “È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”. (New York Times 26 novembre 2006).
Mi pare che questi esempi siano più che sufficienti, si potrebbe parlare anche della struttura della nostra industria, per dimostrare che la parzialità e la ideologizzazione non servono ad affrontare i problemi di una società e nella fattispecie dell’economia.
Forse ha ragione Carlo Rosselli quando afferma: “La crisi dell’economia teoretica è a mio parere una crisi di premesse. Noi ci troviamo infatti a lavorare sulle basi dei classici (neoclassici), cioè su basi che non è difficile dimostrare o false o superate o parzialmente esatte o eccessivamente semplicistiche, tali cioè da viziare il nostro ragionamento e da allontanarci inutilmente troppo dalla realtà nelle nostre pur necessarie astrazioni.” (C. Rosselli, Scritti inediti di economia (1924-1927), p. 312)
Per esigenze di spazio si prendono in esame due periodi: quello fascista e quello più recente che arriva fino al 2014, ma queste considerazioni si potrebbero applicare anche alle altre parti. Insomma, cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia.
Il libro inizia con “doveroso” inchino a Camillo Benso conte di Cavour e al padre dei liberisti italiani Francesco Ferrara. In realtà però la grande industria in Italia nasce con il contributo determinante dello Stato che garantisce l’acquisto dei prodotti metallurgici ad un prezzo superiore a quello di mercato e non per germinazione spontanea.
Si pone eccessiva enfasi sul ruolo degli economisti italiani abbagliati dalla politica economica liberista del fascista Ministro delle Finanze e del Tesoro Alberto De’ Stefani che riporta in carreggiata un’economia uscita fortemente compromessa dagli eventi bellici. In realtà, come sostiene lo stesso autore del libro in un passaggio quasi clandestino che meriterebbe ben altro approfondimento, ci sono altri fattori esogeni che hanno reso possibile questa ripresa. Gli economisti liberisti sono tutti fascisti, solo pochi, fra cui Luigi Einaudi (1924) e Umberto Ricci (1926), rompono con il fascismo. Anzi “Italy lost the prince of her economists”, come lo definisce Piero Sraffa nel necrologico pubblicato nel The Economic Journal (Vol. 34, No. 136, dec., 1924, pp. 648-653), Maffeo Pantaleoni difende in Senato Mussolini dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti. Quello che più colpisce è cercare di far risaltare un ruolo degli economisti superiore alla realtà. La valutazione sostenuta dall’autore è contraddetta da Riccardo Faucci (La cultura economica in Il regime fascista storia e storiografia) che considera addirittura deleterio il ruolo degli economisti liberisti durante il fascismo in merito allo sviluppo della ricerca teoretica dell’economia in Italia (p. 509). Lo stesso J. A. Schumpeter (Storia dell’analisi economica p. 1052) fissa il 1914 come l’anno da cui gli economisti liberali italiani cessano di portare dei contributi significativi alla ricerca teorica.
Nel secondo dopoguerra la narrazione della evoluzione della ricerca economica appare squilibrata fra i liberisti e gli altri a favore dei primi. La sufficienza con la quale descrive il ruolo di alcuni economisti che non si riconoscono nel pensiero mainstream ne è la riprova. Non solo i marxisti di varia gradazione, con in testa Piero Sraffa la cui “distruzione” della teoria marginalista mette a repentaglio tutte le certezze dell’autore ma anche tutti quegli economisti che ritengono errata la proposta marginalista come Paolo Sylos Labini. Così come non appare abbastanza approfondita la valutazione dell’importanza del pensiero di John Maynard Keynes e del ruolo che le sue opere hanno avuto sulla politica economica dei primi trent’anni del secondo dopoguerra. Sarebbe facile ricordare come il più convinto fautore del liberismo economico il Premio Nobel per l’economia Friedrich von Hayek sia anche tra i più ferventi sostenitori del dittatore cileno Augusto Pinochet (Personalmente preferisco un dittatore liberale [liberista] a un governo democratico che manca di liberalismo. El Mercurio 12 aprile 1981). Non è da meno l’altro economista liberista Milton Friedman, altro premio Nobel (1976), che oltre essere l’economista della destra americana (Barry Goldwater)), nel 1975 offre gratis i suoi servigi al dittatore golpista cileno. Sarà un caso che tutti i maggiori economisti liberisti sostengano i dittatori o che il problema sia che odiano la democrazia e tutti coloro che vogliono migliorare le condizioni economiche delle classi meno abbienti?
Quando gli economisti classici (Smith, Ricardo, Marx i più significativi) parlano di mercato intendono un luogo dove si scambiano merci in condizioni di parità fra i soggetti che vi operano. I neoliberisti intendono invece il mercato di concorrenza, cioè competitivo dove c’è un vincitore ed un perdente, cioè lo scambio avviene in condizioni di disuguaglianza fra i diversi soggetti e l’atto stesso crea disuguaglianza.
Poiché non si può fare a meno di notare una “certa” discrepanza fra le politiche messe in atto (liberalizzazioni) e i risultati ottenuti occorre motivare questa discrepanza con valutazioni aggiuntive. L’autore attribuisce questo evento al fatto che le retribuzioni salariali sono cresciute più della produttività e le politiche sindacali e di welfare hanno disturbato il compiersi di quanto previsto dai “sacri testi” dell’economia.
Non solo dovrebbe leggersi un power point del Prof. Riccardo Gallo della Sapienza, che non mi sembra un pericoloso marxista, dal titolo L’Italia cresce se l’industria investe (si può reperire in rete) dove si forniscono dati alquanto diversi. In questo studio si dimostra che fra il 1993 e il 2007 la produttività del lavoro è aumentata, la disponibilità del credito è stata in linea con quella degli anni precedenti, soltanto si sono utilizzati gli utili per ridurre i debiti finanziari e aumentare i dividendi e non si sono incrementati gli investimenti. La riprova si ha dalla durata del periodo d’ammortamento degli impianti, nel 2003 si ammortizzano in 16,4 anni, nel 2010 in 26,4).
Veniamo ad un'altra leggenda metropolitana quella del debito pubblico.
Il debito pubblico italiano che nel 1980 assomma circa al 57,7% del PIL, nel 1994, al 123,4%, non è dovuto ad un aumento della spesa pubblica che in quegli anni è sempre inferiore alla media UE ed inferiore alla Germania, ma alla decisione assunta dall’On. Beniamino Andreatta Ministro del Tesoro (Governo Spadolini I) di sollevare la Banca d’Italia dall’obbligo di acquistare i titoli del debito pubblico. Questo ricorso al mercato fa elevare la spesa per il debito pubblico ai livelli prima ricordati. Perché questa scelta? Ce lo spiega l’On. Beniamino Andreatta che in un articolo rievocativo nel decennale del “divorzio” fra la Banca d’Italia e il Tesoro pubblicato da Il Sole 24 ore (26 luglio 1991) spiega che una delle ragioni della scelta è quella di abbattere i salari reali che ovviamente sono sempre la causa di tutti i mali.
Il problema dei salari è un argomento che all’epoca del Governo guidato dal dottor Matteo Renzi ha tenuto banco. Le autorità monetarie internazionali assicurano che due sono i problemi che impediscono il dispiegarsi di una ripresa economica, la flessibilità dei salari e la riduzione delle tasse. Dopo che è stata massacrata la Grecia, dal punto di vista sociale ed economico, il Prof. Olivier Blanchard, già economista capo del Fondo Monetario Internazionale, ha modificato la sua impostazione verso questi due aspetti. Ha spiegato che è più importante, ai fini della crescita, che lo Stato spenda un euro che togliere un euro di tasse. Detto in altre parole il moltiplicatore della spesa pubblica è maggiore di uno, mentre quello di una diminuzione di un euro di tasse è inferiore ad uno. Per quanto riguarda il salario la flessibilità del medesimo non ha portato ad aumentare i posti di lavoro e quindi, sotto questo aspetto, le proposte sono inutili.
Un altro punto riguarda l’euro. Decisione a mio avviso giusta, ma monca. Se non si creano le condizioni perché ci sia una unica gestione del Tesoro a livello europeo presto assisteremo ad ulteriori turbolenze. Lo dimostra quello che è accaduto in America. Nel giro di pochi anni lo Stato della California (territorio che ha il settimo o ottavo pil del mondo) è fallito due volte. Niente è accaduto sui mercati finanziari perché è stato “coperto” dalla solidarietà degli altri Stati attraverso il Ministero del Tesoro Federale.
Quindi questi pochi esempi dimostrano come l’interpretazione dei fatti economici non è univoca: in economia, come in tutte le scienze sociali, non esiste una scienza esatta. Dipende sempre dallo scontro sociale in atto come ha detto Warren Buffet. “È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”. (New York Times 26 novembre 2006).
Mi pare che questi esempi siano più che sufficienti, si potrebbe parlare anche della struttura della nostra industria, per dimostrare che la parzialità e la ideologizzazione non servono ad affrontare i problemi di una società e nella fattispecie dell’economia.
Forse ha ragione Carlo Rosselli quando afferma: “La crisi dell’economia teoretica è a mio parere una crisi di premesse. Noi ci troviamo infatti a lavorare sulle basi dei classici (neoclassici), cioè su basi che non è difficile dimostrare o false o superate o parzialmente esatte o eccessivamente semplicistiche, tali cioè da viziare il nostro ragionamento e da allontanarci inutilmente troppo dalla realtà nelle nostre pur necessarie astrazioni.” (C. Rosselli, Scritti inediti di economia (1924-1927), p. 312)
Fonte: di ENNO GHIANDELLI