"REFERENDUM ED ELEZIONI"
20-06-2022 - DIARIO POLITICO di Giuseppe Butta'
La miseranda sorte subita dal Referendum sulla giustizia, affossato dal mancato raggiungimento del quorum (il numero dei votanti – 21% degli aventi diritto – è stato uno dei più bassi mai registrato), ha fatto gioire molti per tre motivi.
Il primo è che il sistema – impropriamente denominato ‘palamara’ perché infatti si dovrebbe definire un sistema di ‘egemonia’ in senso gramsciano – l’ha scampata bella; il secondo è che i ‘giustizialisti’ hanno potuto mantenere il possesso dell’arma che li ha resi potenti; il terzo è che la sconfitta del referendum sarebbe, per la proprietà transitiva, la sconfitta dei radicali e di Salvini (tanto che, su qualche ‘quotidiano’, sono state invocate, come giusta punizione, le pedate di Pannella per i radicali e quelle di Bossi per Salvini).
A mio avviso c’è poco da compiacersi per un tale risultato e non solo per il merito del referendum ma, soprattutto, perché questo strumento di democrazia pare ormai destinato alla scomparsa. Ma andiamo con ordine.
In primo luogo, il referendum abrogativo congegnato dalla Costituzione ha alcune tare genetiche, la prima delle quali è insita nella forma, linguistica, sintattica, letteraria delle leggi italiane che incide necessariamente sulla formulazione del quesito: sfido chiunque a destreggiarsi dentro un testo come quello di una legge italiana – che, di per sé, è un coacervo di visti, di omissis, di rinvii, oltre che di un linguaggio da adepti – per estrarre una parola, una frase, una preposizione, una virgola da proporre in un quesito referendario che, alla fine, non può che risultare del tutto avulso dal contesto della legge stessa.
Un esempio per tutti, tratto dai quesiti del 12 giugno: «Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 (Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 7, comma 1, lettere a)”; art.16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?».
Io non sono bravo a risolvere i ‘rebus’ ma credo che anche i più bravi non potrebbero districarsi facilmente in questa giungla di parentesi e virgolette.
Diciamo la verità, i costituenti, imponendo che i referendum non possano essere che abrogativi, non hanno tenuto conto di questa difficoltà né del fatto che, spesso, i quesiti articolati in un tal modo risultano in una vera e propria innovazione legislativa (tanto che la Corte Costituzionale – quando sulle proposte referendarie vuole esercitare un controllo politico piuttosto che di mera legittimità – vi trova questo carattere per non ammettere quesiti referendari scomodi, come per esempio quello sulla ‘responsabilità civile dei giudici’).
Tanto varrebbe abolire il referendum.
La seconda tara è quella del quorum di partecipazione alla consultazione (50% + 1 degli aventi diritto al voto), il cui mancato raggiungimento rende nulla la consultazione: una tara che, congiurando con la diffidenza/indifferenza di molti verso questo strumento di ‘democrazia diretta’ – spesso fomentata da chi invita a disertare le urne – serve alla conservazione dello ‘status quo’ piuttosto che a garantire un processo decisionale sicuro.
Non c’è che da invidiare la Svizzera o molti degli Stati che compongono la federazione americana (che dispongono oltre che del referendum abrogativo, anche di quello propositivo e del ‘recall’, cioè la revoca degli eletti) dove si fa grande uso di questa forma di democrazia diretta e dove non è previsto alcun quorum per la validità del referendum.
Le precauzioni di cui in Italia circondiamo i nostri referendum non vengono usate per quelle assunte dal Parlamento: raramente le leggi vengono approvate con maggioranza qualificata. È troppo dire che abbiamo più fiducia nei ‘rappresentanti’ del popolo anziché nel popolo stesso?
In secondo luogo, il mancato raggiungimento del quorum non significa che gli astensionisti equivalgano a fautori del ‘no’; significa soltanto che la questione sottoposta al giudizio del popolo è rimasta irrisolta: ancora oggi, il problema della giustizia – cioè inefficienze, distorsioni, deviazioni, abusi, incapacità insiti nel sistema giudiziario attuale – rimane come un supplizio di Tantalo cui è condannato il nostro Paese. Comunque, la maggioranza preponderante dei votanti è stata favorevole ai quesiti proposti e ciò dovrebbe essere tenuto nel dovuto conto dal legislatore. Ma so che questa è solo un’illusione.
Infatti, chi sembrava un deciso sostenitore del referendum, ha votato l’evanescente ‘riforma Cartabia’ senza nemmeno votare in aula gli emendamenti votati il giorno prima in commissione. Come direbbe il Papa, qualcuno si è limitato ad ‘abbaiare’.
Se il referendum è così bistrattato, il diritto del popolo di eleggere i propri rappresentanti viene spesso interpretato secondo le necessità di chi ha in mano le leve che ne controllano l’esercizio. La scadenza dell’attuale legislatura sarebbe il 4 marzo 2023 ma pare che alcune forze politiche premano per un rinvio delle elezioni di almeno un paio di mesi.
Due, tre mesi: che cosa sono per i distratti elettori?
Un nulla, un battito d’ali di una farfalla, un apostrofo roseo tra due elezioni. Ma è quanto basta a fare qualche manovra per aggiustare le modalità di svolgimento delle elezioni ai propri interessi.
Forse è il tempo necessario a confezionare, in extremis, qualche altro ‘porcellum’ di legge elettorale.
Non so se si cercherà di motivare il rinvio accampando situazioni d’emergenza simili a quelle che hanno indotto il ‘saggio’ Presidente della Repubblica, attualmente in carica bis, a non anticiparle quando, negli anni scorsi, si sono avute crisi che sarebbe stato ‘più saggio’ tentare di risolvere con nuove elezioni (i governi trasformistici – giallo/verde o giallo/rosso che siano) – sono un danno per la democrazia e quelli di unità nazionale non nascono da pastrocchi come quello dell’attuale governo bensì da una maggioranza cui si unisca a una minoranza che ne condivida la direzione politica nella gestione di una crisi).
Ma, se l’anticipazione delle elezioni è una decisione che ha qualche contorno di discrezionalità, certo il rinvio non ne ha alcuno: la Costituzione è tassativa – anche se, sotto sotto, perché non ‘si sa mai’, ha infilato l’eccezione: «la durata di ciascuna Camera non può essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra».
Da quando la Repubblica si è formata sotto la protezione della Costituzione ‘più bella del mondo’, non ci sono precedenti di un tale rinvio. E siccome il Presidente, oltre al dovere della saggezza, ha pure quello di tutelare la Costituzione, possiamo stare certi che mai ne avallerà un tale sfregio.
A meno che …
Il primo è che il sistema – impropriamente denominato ‘palamara’ perché infatti si dovrebbe definire un sistema di ‘egemonia’ in senso gramsciano – l’ha scampata bella; il secondo è che i ‘giustizialisti’ hanno potuto mantenere il possesso dell’arma che li ha resi potenti; il terzo è che la sconfitta del referendum sarebbe, per la proprietà transitiva, la sconfitta dei radicali e di Salvini (tanto che, su qualche ‘quotidiano’, sono state invocate, come giusta punizione, le pedate di Pannella per i radicali e quelle di Bossi per Salvini).
A mio avviso c’è poco da compiacersi per un tale risultato e non solo per il merito del referendum ma, soprattutto, perché questo strumento di democrazia pare ormai destinato alla scomparsa. Ma andiamo con ordine.
In primo luogo, il referendum abrogativo congegnato dalla Costituzione ha alcune tare genetiche, la prima delle quali è insita nella forma, linguistica, sintattica, letteraria delle leggi italiane che incide necessariamente sulla formulazione del quesito: sfido chiunque a destreggiarsi dentro un testo come quello di una legge italiana – che, di per sé, è un coacervo di visti, di omissis, di rinvii, oltre che di un linguaggio da adepti – per estrarre una parola, una frase, una preposizione, una virgola da proporre in un quesito referendario che, alla fine, non può che risultare del tutto avulso dal contesto della legge stessa.
Un esempio per tutti, tratto dai quesiti del 12 giugno: «Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 (Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 7, comma 1, lettere a)”; art.16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?».
Io non sono bravo a risolvere i ‘rebus’ ma credo che anche i più bravi non potrebbero districarsi facilmente in questa giungla di parentesi e virgolette.
Diciamo la verità, i costituenti, imponendo che i referendum non possano essere che abrogativi, non hanno tenuto conto di questa difficoltà né del fatto che, spesso, i quesiti articolati in un tal modo risultano in una vera e propria innovazione legislativa (tanto che la Corte Costituzionale – quando sulle proposte referendarie vuole esercitare un controllo politico piuttosto che di mera legittimità – vi trova questo carattere per non ammettere quesiti referendari scomodi, come per esempio quello sulla ‘responsabilità civile dei giudici’).
Tanto varrebbe abolire il referendum.
La seconda tara è quella del quorum di partecipazione alla consultazione (50% + 1 degli aventi diritto al voto), il cui mancato raggiungimento rende nulla la consultazione: una tara che, congiurando con la diffidenza/indifferenza di molti verso questo strumento di ‘democrazia diretta’ – spesso fomentata da chi invita a disertare le urne – serve alla conservazione dello ‘status quo’ piuttosto che a garantire un processo decisionale sicuro.
Non c’è che da invidiare la Svizzera o molti degli Stati che compongono la federazione americana (che dispongono oltre che del referendum abrogativo, anche di quello propositivo e del ‘recall’, cioè la revoca degli eletti) dove si fa grande uso di questa forma di democrazia diretta e dove non è previsto alcun quorum per la validità del referendum.
Le precauzioni di cui in Italia circondiamo i nostri referendum non vengono usate per quelle assunte dal Parlamento: raramente le leggi vengono approvate con maggioranza qualificata. È troppo dire che abbiamo più fiducia nei ‘rappresentanti’ del popolo anziché nel popolo stesso?
In secondo luogo, il mancato raggiungimento del quorum non significa che gli astensionisti equivalgano a fautori del ‘no’; significa soltanto che la questione sottoposta al giudizio del popolo è rimasta irrisolta: ancora oggi, il problema della giustizia – cioè inefficienze, distorsioni, deviazioni, abusi, incapacità insiti nel sistema giudiziario attuale – rimane come un supplizio di Tantalo cui è condannato il nostro Paese. Comunque, la maggioranza preponderante dei votanti è stata favorevole ai quesiti proposti e ciò dovrebbe essere tenuto nel dovuto conto dal legislatore. Ma so che questa è solo un’illusione.
Infatti, chi sembrava un deciso sostenitore del referendum, ha votato l’evanescente ‘riforma Cartabia’ senza nemmeno votare in aula gli emendamenti votati il giorno prima in commissione. Come direbbe il Papa, qualcuno si è limitato ad ‘abbaiare’.
Se il referendum è così bistrattato, il diritto del popolo di eleggere i propri rappresentanti viene spesso interpretato secondo le necessità di chi ha in mano le leve che ne controllano l’esercizio. La scadenza dell’attuale legislatura sarebbe il 4 marzo 2023 ma pare che alcune forze politiche premano per un rinvio delle elezioni di almeno un paio di mesi.
Due, tre mesi: che cosa sono per i distratti elettori?
Un nulla, un battito d’ali di una farfalla, un apostrofo roseo tra due elezioni. Ma è quanto basta a fare qualche manovra per aggiustare le modalità di svolgimento delle elezioni ai propri interessi.
Forse è il tempo necessario a confezionare, in extremis, qualche altro ‘porcellum’ di legge elettorale.
Non so se si cercherà di motivare il rinvio accampando situazioni d’emergenza simili a quelle che hanno indotto il ‘saggio’ Presidente della Repubblica, attualmente in carica bis, a non anticiparle quando, negli anni scorsi, si sono avute crisi che sarebbe stato ‘più saggio’ tentare di risolvere con nuove elezioni (i governi trasformistici – giallo/verde o giallo/rosso che siano) – sono un danno per la democrazia e quelli di unità nazionale non nascono da pastrocchi come quello dell’attuale governo bensì da una maggioranza cui si unisca a una minoranza che ne condivida la direzione politica nella gestione di una crisi).
Ma, se l’anticipazione delle elezioni è una decisione che ha qualche contorno di discrezionalità, certo il rinvio non ne ha alcuno: la Costituzione è tassativa – anche se, sotto sotto, perché non ‘si sa mai’, ha infilato l’eccezione: «la durata di ciascuna Camera non può essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra».
Da quando la Repubblica si è formata sotto la protezione della Costituzione ‘più bella del mondo’, non ci sono precedenti di un tale rinvio. E siccome il Presidente, oltre al dovere della saggezza, ha pure quello di tutelare la Costituzione, possiamo stare certi che mai ne avallerà un tale sfregio.
A meno che …
Fonte: di Giuseppe Butta'