"RIFARE L’ ITALIA" di Paolo Bagnoli
28-10-2020 - EDITORIALE
Alle prese con la recrudescenza pandemica – cosa peraltro prevista dopo la prima tragica fase – l'Italia si mostra preoccupata e smarrita. La preoccupazione è più che giustificata perché la paura è reale e prende tutti; lo smarrimento, più che un dato psicologico, è invece politico considerata l'insufficienza complessiva di governo del fenomeno. Il sistema non funziona come tale e le quotidiane concioni del presidente del consiglio e di una classe politica ridondante di limiti sono oramai giunte al capolinea della loro credibilità. Dinamiche autonome hanno preso il sopravvento sull'insieme; l'aver lasciato trascorrere i mesi che ci separano dalla prima ondata confidando nello stellone italiano sta rimettendo il suo tragico conto.
Il Paese procede a tentoni; solo i sacrifici e la dedizione dei tanti operatori del settore sanitario permettono di fronteggiare al meglio la nuova emergenza. Basta vedere l'ultimo decreto del Presidente del Consiglio – quello della chiusura alle 18.00 – per rendersi conto che non c'è bussola; manca una politica orientata e consapevole, una capacità di governo che, pur nel rispetto dei ruoli istituzionali, tenga insieme il Paese. Le rivolte violente di piazza che si sono manifestate in alcune città è sbagliato ritenerle solo una questione di ordine pubblico; esse ci dicono di un problema politico che investe il cuore dello Stato e rendono sempre più evidente la fragilità di un Paese sbandato, carente di forze politiche adeguate nonché del senso della responsabilità nazionale che, in frangenti drammatici, quali quelli che stiamo vivendo, dovrebbe esservi in uno sforzo comune coinvolgente sia la maggioranza che la minoranza.
L'Italia non è certo un Paese disciplinato; la cosa è ben nota. Ma proprio per tale motivo sarebbe necessario, invece di ricorrere alle parole, far parlare i fatti; consorziare le energie in un grande impegno nazionale coscienti che, in questa crisi, si gioca, un qualcosa di più della sconfitta dell'attacco virale - naturalmente ifine primario - ma anche la sorte futura del Paese; non la fortuna di questo o quel particolarismo.
Al massimo impegno nell'immediato occorrerebbe aggiungere l'ambizione di sguardi lunghi sul futuro; ma se il primo aspetto è confuso, il secondo è del tutto assente.
Gravando ancor più il populismo insediatosi nella nostra realtà nazionale, la pandemia ha evidenziato tutta la debolezza della nostrana politica democratica, la sua impreparazione e insufficienza, la sua limitata, praticamente inesistente, capacità di senso storico e di cultura politica. La storia dell'ultimo quarto di secolo sta rimettendo ancora una volta i suoi conti. L'esigenza di ridare senso alla politica italiana e, quindi, nel segno dei valori costituzionali, “rifondare” lo Stato, era l'imperativo che si imponeva a seguito della crisi dei primi anni '90. Il Paese, invece di dedicarvici, scelse il politicismo e il governismo nonché l'inanellare una lunga trafila di trasformismi e pasticciate soluzioni adatte ai vari momenti; tutto ciò, unitamente all'archiviamento delle culture della prima repubblica, radicò la crisi di un Paese che ha sempre sofferto della mancanza di essere nazione. Nella stagione terribile del terrorismo l'Italia si ritrovò unita, il senso dell'appartenenza nazionale prevalse su ogni opportunismo politico e i risultati si videro; oggi l'Italia risulta scollata, ripetitiva in formulette di uso comune, in attesa messianica dei soldi europei di cui, al momento, non si riesce a capire cosa voglia realmente fare.
Spesso si è sentito dire che tutta quella massa di denari servirà a rifare il Paese; meglio sarebbe dire: a rifare certe cose del Paese, non certo a fare dell'Italia una nazione, a ricreare lo spirito repubblicano dell'appartenenza, a dotarci di un sistema politico degno di questo nome. Dei soldi abbiamo bisogno, ma non è che bastino i soli soldi per rifare un Paese che è un pensiero storico-culturale compiuto. La questione, però, nessuno nemmeno la sfiora.