"TAIWAN: L'ISOLA CONTESA"
23-01-2024 - IL SOCIALISMO NEL MONDO
Il 2024 sarà ricordato come “l’anno delle più numerose di elezioni della storia”. 4 miliardi di persone, la metà della popolazione mondiale, saranno infatti chiamate alle urne. Le prime elezioni dell’anno, e una delle più cruciali per la sicurezza internazionale, si sono tenute a Taiwan il 13 gennaio: elezioni monitorate da tutto il mondo a causa della minaccia di annessione da parte della Cina. Minaccia di annessione cresciuta negli ultimi anni: le esercitazioni militari vicino all’isola sono diventate sempre più aggressive, il che ha intensificato le tensioni tra Washington, il principale partner militare di Taiwan, e Pechino. Un’invasione cinese di Taiwan sarebbe uno degli eventi più pericolosi del 21° secolo, perché coinvolgerebbe in rapida successione il Giappone, la Corea del Sud, gli Stati Uniti e gli altri Paesi della NATO. Il che potrebbe provocare un conflitto devastante. Più che l’invasione, i taiwanesi temono però l’embargo. La grande forza difensiva di Taiwan – la sua posizione geografica come isola separata dalla terraferma da uno stretto largo 100 miglia – è anche la sua debolezza. Interrompendo il traffico aereo e marittimo, l’embargo stringerebbe l’isola in una morsa soffocante con risultati catastrofici per l’economia.
Nel suo discorso di Capodanno, il leader cinese Xi Jinping ha ribadito che la “riunificazione” di Taiwan con la “madrepatria” è una “inevitabilità storica” sia che si realizzi con il dialogo o con la forza. Xi rivendica una sorta di diritto di proprietà dell’isola, ma la storia mostra una realtà diversa. Mentre oggi l’etnia cinese costituisce più del 95% della popolazione di Taiwan, per secoli i popoli austronesiani ne furono gli unici abitanti. All'inizio del XVII secolo, la Spagna stabilì una colonia nel nord dell'isola; la Compagnia olandese delle Indie Orientali, invece, colonizzò le pianure sud-occidentali e facilitò l’immigrazione cinese. Taiwan divenne una provincia cinese solo nel 1887, per essere ceduta, dieci anni dopo, al Giappone come riparazione di guerra. Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, nessuno dei politici cinesi sembrò considerare la possibilità di riprendere il controllo sull’isola. Alla fine della seconda guerra mondiale, con la resa del Giappone, Taiwan ritornò, su pressione degli alleati, alla Cina governata da Chiang Kai-shek. Fino al 1949, i comunisti – che ora definiscono Taiwan una “parte inalienabile” del Paese “sin dai tempi antichi” – hanno continuato a considerare il popolo taiwanese come “straniero”. Nel 1949 accaddero due fatti rilevanti: le forze nazionaliste sconfitte di Chiang Kai-shek fuggirono dalla Cina continentale verso l’isola. E il PCC dichiarò per la prima volta il suo obiettivo di “liberare Taiwan”. Pertanto è chiaro che anche se Pechino insiste sul fatto che Taiwan fa parte della Cina e che solo Pechino ha autorità sulla regione, Taiwan non ha mai fatto parte della Cina comunista.
Fin dal 1949, Taiwan ha avuto un proprio governo. Per 40 anni è stata una dittatura corrotta in cui i dissidenti venivano perseguitati e rinchiusi. Poco alla volta è riuscita a trasformarsi in una democrazia vigorosa e fiorente, che gode fra l’altro – in contrasto con quanto avviene in Cina – di libertà di voto.
Il 13 gennaio, in un momento di estrema tensione attraverso lo Stretto tra la Cina e Taiwan, 19 milioni di taiwanesi -il 72% degli aventi diritto- si sono recati alle urne per scegliere il loro prossimo presidente. Il favorito era Lai Ching-te del Partito Democratico Progressista (DPP) filo-sovranista; i suoi avversari: Hou You-yi del conservatore Kuomintang (KMT) e il populista Ko del Partito popolare di Taiwan (TPP). Per la terza volta consecutiva, ha vinto il DPP con oltre il 40% dei voti. A maggio, sarà quindi Lai a prendere il posto della presidente Tsai Ing-wen del DPP. Nonostante la vittoria alle elezioni presidenziali, il DPP ha però perduto il controllo del parlamento. In qualità di presidente, Lai non avrà un compito facile, con il parlamento dominato dai due partiti di opposizione. Non solo. Dovrà anche gestire i rapporti con la Cina, che ha fatto ricorso ad ogni mezzo per ostacolarlo, impegnandosi in livelli di interferenza senza precedenti. Oltre alla pressione politica, economica e militare, ha utilizzato disinformazione, falsi sondaggi, minacce e incentivi. Pechino avrebbe voluto vincesse il KMT, il quale, sebbene non voglia la riunificazione con la Cina, ha una posizione conciliante con il potente vicino. Lai invece, pur evitando qualsiasi dichiarazione esplicita di indipendenza, ha continuato a ribadire che tale dichiarazione non è necessaria perché Taiwan è, de facto, un Paese sovrano indipendente. Durante la campagna elettorale, ha promesso di portare avanti la politica estera filo-occidentale del suo predecessore Tsai, cercando di rafforzare le forze armate e costruire stretti rapporti con il Giappone e i Paesi della NATO per scoraggiare l’invasione cinese. E ha vinto. Ha vinto perché il numero di taiwanesi che rifiutano la possibilità di un'unificazione con la Cina è in costante crescita. Perché per gli elettori dell’isola c’è una cosa peggiore che provocare il presidente cinese Xi Jinping: arrendersi a lui e diventare la prossima Hong Kong. Non c’è dubbio che la sua vittoria abbia fatto infuriare il governo comunista del continente e aumenterà la tensione militare e diplomatica attraverso lo Stretto di Taiwan. Ma qualunque cosa accada dopo il suo insediamento a maggio, Lai ha realizzato qualcosa di straordinario. Lai Ching-te nacque nel nord di Taiwan nel 1959. Suo padre era un minatore morto in un incidente in una miniera quando lui aveva pochi mesi. A quei tempi, l’istruzione era un lusso che i figli dei minatori non si potevano permettere. Nonostante la povertà della famiglia, Lai, grazie ai sacrifici materni, riesce a frequentare l’università, a laurearsi in medicina e a qualificarsi come medico specializzato in lesioni del midollo spinale. Nel 1996, mentre il Paese sta effettuando la transizione dalla dittatura alla democrazia, entra in politica, è eletto membro dell'assemblea nazionale, poi sindaco della città di Tainan. Nel 2017 è nominato primo ministro dalla presidente Tsai Ing-wen, poi vicepresidente. Ora, 64 anni dopo la morte di suo padre, è stato eletto presidente.
Situata su una porta marittima chiave che collega il Mar Cinese Meridionale all’Oceano Pacifico, Taiwan gode di un’economia tra le più fiorenti in Asia: il 90% dei semiconduttori più potenti del mondo, che alimentano tutto, dall’intelligenza artificiale ai missili, sono prodotti sull’isola. Il suo handicap è quello di trovarsi in una regione strategicamente vitale contesa dalle due superpotenze.
Nel suo discorso di Capodanno, il leader cinese Xi Jinping ha ribadito che la “riunificazione” di Taiwan con la “madrepatria” è una “inevitabilità storica” sia che si realizzi con il dialogo o con la forza. Xi rivendica una sorta di diritto di proprietà dell’isola, ma la storia mostra una realtà diversa. Mentre oggi l’etnia cinese costituisce più del 95% della popolazione di Taiwan, per secoli i popoli austronesiani ne furono gli unici abitanti. All'inizio del XVII secolo, la Spagna stabilì una colonia nel nord dell'isola; la Compagnia olandese delle Indie Orientali, invece, colonizzò le pianure sud-occidentali e facilitò l’immigrazione cinese. Taiwan divenne una provincia cinese solo nel 1887, per essere ceduta, dieci anni dopo, al Giappone come riparazione di guerra. Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, nessuno dei politici cinesi sembrò considerare la possibilità di riprendere il controllo sull’isola. Alla fine della seconda guerra mondiale, con la resa del Giappone, Taiwan ritornò, su pressione degli alleati, alla Cina governata da Chiang Kai-shek. Fino al 1949, i comunisti – che ora definiscono Taiwan una “parte inalienabile” del Paese “sin dai tempi antichi” – hanno continuato a considerare il popolo taiwanese come “straniero”. Nel 1949 accaddero due fatti rilevanti: le forze nazionaliste sconfitte di Chiang Kai-shek fuggirono dalla Cina continentale verso l’isola. E il PCC dichiarò per la prima volta il suo obiettivo di “liberare Taiwan”. Pertanto è chiaro che anche se Pechino insiste sul fatto che Taiwan fa parte della Cina e che solo Pechino ha autorità sulla regione, Taiwan non ha mai fatto parte della Cina comunista.
Fin dal 1949, Taiwan ha avuto un proprio governo. Per 40 anni è stata una dittatura corrotta in cui i dissidenti venivano perseguitati e rinchiusi. Poco alla volta è riuscita a trasformarsi in una democrazia vigorosa e fiorente, che gode fra l’altro – in contrasto con quanto avviene in Cina – di libertà di voto.
Il 13 gennaio, in un momento di estrema tensione attraverso lo Stretto tra la Cina e Taiwan, 19 milioni di taiwanesi -il 72% degli aventi diritto- si sono recati alle urne per scegliere il loro prossimo presidente. Il favorito era Lai Ching-te del Partito Democratico Progressista (DPP) filo-sovranista; i suoi avversari: Hou You-yi del conservatore Kuomintang (KMT) e il populista Ko del Partito popolare di Taiwan (TPP). Per la terza volta consecutiva, ha vinto il DPP con oltre il 40% dei voti. A maggio, sarà quindi Lai a prendere il posto della presidente Tsai Ing-wen del DPP. Nonostante la vittoria alle elezioni presidenziali, il DPP ha però perduto il controllo del parlamento. In qualità di presidente, Lai non avrà un compito facile, con il parlamento dominato dai due partiti di opposizione. Non solo. Dovrà anche gestire i rapporti con la Cina, che ha fatto ricorso ad ogni mezzo per ostacolarlo, impegnandosi in livelli di interferenza senza precedenti. Oltre alla pressione politica, economica e militare, ha utilizzato disinformazione, falsi sondaggi, minacce e incentivi. Pechino avrebbe voluto vincesse il KMT, il quale, sebbene non voglia la riunificazione con la Cina, ha una posizione conciliante con il potente vicino. Lai invece, pur evitando qualsiasi dichiarazione esplicita di indipendenza, ha continuato a ribadire che tale dichiarazione non è necessaria perché Taiwan è, de facto, un Paese sovrano indipendente. Durante la campagna elettorale, ha promesso di portare avanti la politica estera filo-occidentale del suo predecessore Tsai, cercando di rafforzare le forze armate e costruire stretti rapporti con il Giappone e i Paesi della NATO per scoraggiare l’invasione cinese. E ha vinto. Ha vinto perché il numero di taiwanesi che rifiutano la possibilità di un'unificazione con la Cina è in costante crescita. Perché per gli elettori dell’isola c’è una cosa peggiore che provocare il presidente cinese Xi Jinping: arrendersi a lui e diventare la prossima Hong Kong. Non c’è dubbio che la sua vittoria abbia fatto infuriare il governo comunista del continente e aumenterà la tensione militare e diplomatica attraverso lo Stretto di Taiwan. Ma qualunque cosa accada dopo il suo insediamento a maggio, Lai ha realizzato qualcosa di straordinario. Lai Ching-te nacque nel nord di Taiwan nel 1959. Suo padre era un minatore morto in un incidente in una miniera quando lui aveva pochi mesi. A quei tempi, l’istruzione era un lusso che i figli dei minatori non si potevano permettere. Nonostante la povertà della famiglia, Lai, grazie ai sacrifici materni, riesce a frequentare l’università, a laurearsi in medicina e a qualificarsi come medico specializzato in lesioni del midollo spinale. Nel 1996, mentre il Paese sta effettuando la transizione dalla dittatura alla democrazia, entra in politica, è eletto membro dell'assemblea nazionale, poi sindaco della città di Tainan. Nel 2017 è nominato primo ministro dalla presidente Tsai Ing-wen, poi vicepresidente. Ora, 64 anni dopo la morte di suo padre, è stato eletto presidente.
Situata su una porta marittima chiave che collega il Mar Cinese Meridionale all’Oceano Pacifico, Taiwan gode di un’economia tra le più fiorenti in Asia: il 90% dei semiconduttori più potenti del mondo, che alimentano tutto, dall’intelligenza artificiale ai missili, sono prodotti sull’isola. Il suo handicap è quello di trovarsi in una regione strategicamente vitale contesa dalle due superpotenze.
Fonte: di Giulietta Rovera