LA SCUOLA CHE CI ASPETTA di Luciana Bellatalla
di Luciana Bellatalla
27-01-2025 - A PROPOSITO DI ISTRUZIONE di Luciana Bellatalla
Dicono gli psicologi che l’abitudine a riversare la colpa di quanto accade sugli altri – e mai facendo riferimento alle proprie, personali responsabilità – è un comportamento tipico di persone egoiste, ossia centrate su se stesse e pronte a vedere sempre i torti altrui, ma mai i propri sbagli, in atto o pregressi. Da qui all’egocentrismo il passo è breve e porta a costruire un mondo a propria immagine e somiglianza, che si muove secondo le proprie aspirazioni ed i propri punti di vista, gli unici ammissibili perché gli unici veri.
Così dall’egoismo si approda all’egocentrismo, da questo al dogmatismo e, puta caso, se si governa, ad atteggiamenti totalitari.
Un mondo così strutturato si regge, al fondo, su una menzogna: non l’uomo è misura di tutte le cose, come voleva quel buon filosofo antico, che con questa affermazione proiettò al centro del pensiero una visione antropologica e morale, giacché misura di tutto diventa un “io” singolo, spesso insignificante, ma che racconta il mondo secondo se stesso ed eleva il suo racconto a modello universale. E purtroppo trova – come avrebbe detto Rousseau – tanti creduloni che ne fanno un “IO” con le lettere maiuscole. Guardarsi intorno, un po’ ovunque, può bastare per averne una riprova
A questo penso spesso quando mi soffermo sugli annunci dell’esecutivo in carica attualmente e sui provvedimenti che di volta in volta approva. Ma in particolare – dato che del mondo della scuola ho per esperienza e per studio qualche notizia non troppo vaga – questo mi viene in mente ogni volta che si muove il ministro Valditara, ad oggi certamente il peggior gestore della Minerva in una lista ultracentenaria, peraltro non esaltante, di personaggi, tutti, in qualche modo, con pochissime eccezioni, privi di competenze e di idee circa il sistema scolastico, che avrebbero dovuto amministrare.
Valditara debutta sulla scena del suo ministero, innanzitutto, cambiandone l’intitolazione ed introducendo quel riferimento al “merito”, che piace tanto ai suoi sponsor, come Ricolfi e Mastrocola, ma che – sul piano logico e concettuale – è simile all’araba fenice: infatti, è impossibile definirne confini e caratteri in maniera chiara e distinta. Così non è per il ministro e i suoi sponsor: per loro, infatti, il merito di fatto e senza ombra di dubbio coincide con quanto la natura ha regalato ai vari individui, come se le doti intellettuali e l’impegno scolastico non dipendessero, in larga misura, dall’ambiente, dalle occasioni di crescita offerte fin dalla nascita (e addirittura prima, visto che il periodo prenatale è ormai considerato già un periodo di formazione) e, in ultima analisi, dal grado di scolarità dei genitori (e di tutti i componenti della famiglia in senso lato) e, quindi, dallo stato socio-economico di partenza. Dunque, la scuola a cui Valditara aspira è quella per i più fortunati e che gli altri si arrangino… Ci sono sempre le scuole professionali. Dovrebbero bastare. Un nuovo Gentile? Direi decisamente ancora peggio: Gentile difendeva, pur con molte ambiguità ed una buona dose di ingenuità, l’aristocrazia della mente sfociando, giocoforza, nel classismo; Valditara non si pone neppure il problema della differenza tra aristocraticismo intellettuale ed elitismo, perché una scuola che non sia di classe, secondo lui ed i suoi ispiratori, non è una scuola.
In secondo luogo, la strada che sceglie è quella della semplificazione: tornare indietro, alla scuola del passato, incontaminata dall’ideologia della Sinistra. Va ripristinata la scuola dove si studiava sodo, vigeva l’autorità dell’insegnante e la selezione era severa. Ancora una volta sono i fragili, a farne le spese. Per loro si spalancano le porte della scuola, ma perché escano.
E, del resto, le statistiche annuali che segnalano gli abbandoni scolastici sia in corso d’anno sia alla fine di ogni anno scolastico segnalano sempre che il drop out è più alto tra gli immigrati ed i figli di famiglie con profilo culturale basso. Oggi si parla di dispersione esplicita, ma, purtroppo, siamo ancora al livello di una vera e propria mortalità scolastica con quanto ne consegue a livello individuale e sociale. E, se pensiamo al destino di un Paese costruito su queste basi, lo scenario non può che essere disastroso. Forse addirittura apocalittico.
A fronte di questa dispersione incentivata e addirittura auspicata seppure in forme mascherate, il ministro propone un ampio ventaglio di strade professionali. Siamo, di nuovo al doppio o triplo canale, eredità dell’Ottocento liberale, di cui nessun ministro del lontano e recente passato ha voluto disfarsi. E mi permetto di ricordare a Valditara che di incentivazione del percorso professionalizzante si sono fatti carico tutti i ministri recenti: Luigi Berlinguer, ahilui! – tanto per citare una Sinistra DOC – addirittura ha introdotto una equiparazione tra obbligo scolastico ed obbligo formativo, ripresa da Moratti (Destra liberale), da Gelmini (FI) e dal popolare Fioroni. E dopo di loro nessuno ha osato mettere in discussione questa equiparazione. Siamo così arrivati fino a Patrizio Bianchi (indipendente di area PD), che l’ha teorizzata addirittura in un saggetto (Nello specchio della scuola. Quale sviluppo per l’Italia, Bologna, il Mulino, 2020) in cui difende il ruolo delle esigenze del sistema economico nel tracciare le linee guida della scuola, e che l’ha esportata nel PNRR.
Mi pare, dunque, di poter trarre due conclusioni: 1. Destra e Sinistra, almeno negli anni recenti, sul classismo della scuola non divergono poi troppo e sono, in qualche misura, entrambe eredi di una idea almeno ambigua di Berlinguer; 2. Destra e Sinistra sono concordi anche nel pensare che il sistema scolastico possa tornare a funzionare solo producendo diplomati meno “asini” di quelli di oggi, che sono analfabeti di ritorno già al momento della licenza o addirittura della laurea, con qualche ritocco, e non riavviando quell’ascensore sociale che da anni si è fermato. Qui, invece, bisogna rimboccarsi le maniche e cominciare a ricostruire ab imis fundamentis, come dirò meglio alla conclusione di questa nota.
In terzo luogo, oggi come non mai, la prospettiva con cui si tende e si tenta di riorganizzare il nostro sistema scolastico è ideologica: nel ripristino del voto numerico e del 5 in condotta, nelle nuove indicazioni per l’insegnamento dell’Educazione Civica – disciplina su cui ci sarebbe molto da dire – non meno che nella proposta dell’inutile Liceo del Made in Italy ed ora, finalmente, nelle nuove indicazioni programmatiche il tema dominante è un sottile, ma evidente sovranismo destinato a coniugarsi con uno spirito restauratore insopportabile. E insopportabile non perché questa posizione può non piacere a qualcuno, ma perché la cultura non è mai e non può mai essere restauratrice: conserva per tramandare e tramanda per rivedere, ossia per ricostruire di continuo su basi certe, ma andando al di là del dato, dell’usato e di quanto appare. Compito della cultura – e quindi, della scuola che ne garantisce la condivisione con le giovani generazioni – è istituire un circolo virtuoso tra passato presente e futuro. La cultura non guarda à rebours, ma sempre necessariamente avanti. In caso contrario non potrà mai trasformarsi in civiltà, ossia in pulsante e significativa vita etica, politica, scientifica ed artistica. E inoltre la cultura non è sorda a posizioni apparentemente dissonanti da quella di riferimento: essa è inclusiva, perché si costruisce sul dialogo e sulla dialettica tra parti diverse.
Le nuove indicazioni nazionali di Valditara non vanno scartate a priori e nel loro complesso; piuttosto vanno scartate per lo spirito che le ha dettate e che tentano di veicolare alle giovani generazioni. Non è questione di Latino sì/Latino no o di ripristino della Geografia o apprendimento a memoria di poesie più o meno importanti: tutto questo è folclore, ossia è indifferente rispetto alla mission della scuola, che si manifesta nei princìpi su cui viene organizzata. Certamente, la Geografia è una materia importante; forse qualche rudimento di Latino non farà male, ne sono certa; imparare a memoria può favorire attenzione, ma serve a poco se quanto si deve apprendere non coinvolge. Se mi si permette un cenno autobiografico, dirò che ho pressoché dimenticato tutte le poesie che mi sono state imposte, ma conosco a memoria un numero altissimo ed imprecisato di libretti di opere liriche (anche straniere ed in lingua originale), che ho imparato per il mio puro piacere, essendo una melomane e, più in generale, una cultrice della musica. Anche a questo proposito, dunque, si semplifica, come ho già notato: la motivazione è e resta una perfetta sconosciuta, anche se ha un ruolo non indifferente nell’efficacia degli apprendimenti. L’alunno sembra tornare ad essere quel vaso da riempire, idea che già Plutarco molti secoli fa contestava, e senza tenere in nessun conto la tesi di Morin, secondo cui è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena.
Quanto va discusso e rifiutato, dunque, è l’implicito delle nuove indicazioni: la volontà, cioè, di fare della scuola il luogo di trasmissione del sovranismo, del culto dell’Occidente, del principio dell’identità culturale. Invidio il ministro che sa quali siano le radici dell’Italia e dell’Europa, ma lo sfiderei volentieri a declinarle: intanto per cominciare, come mettono in luce le lingue occidentali, il comune ceppo indoeuropeo riconduce la prima radice all’oriente; in secondo luogo, la Grecia e Roma antiche sono il frutto di un incontro ed un incrocio di culture, come attestano sia i vari dialetti greci che parlano di migrazioni e di stratificazioni sia il progressivo allargamento della cittadinanza romana alle varie colonie fino ai confini dell’impero (si veda la Constitutio Antoniniana del 212 d.C.); quanto all’Italia, il melting pot che l’ha culturalmente “generata” è ben noto. Si va dai popoli dell’Asia minore ai Greci, dai Normanni agli Arabi, dai Francesi agli Spagnoli: terra di conquista, l’Italia porta in sé le tracce feconde di queste dominazioni. Si può dimenticare che le cifre con cui contiamo sono dette numeri arabi? Quanto poi al cristianesimo, che a detta di Meloni & Co. è la nostra unica radice, bisogna ricordare che in Oriente ci sono stati culti – ad esempio lo Zoroastrismo o il Mitraismo, senza pensare all’egizio Akhenaton – con tematiche ricorrenti anche nel Cristianesimo. Del resto, nei Vangeli, noi conosciamo il Cristo bambino e lo ritroviamo a trent’anni, quando comincia la sua predicazione. Dove ha trascorso gli anni intermedi? A bottega con Giuseppe? Pare improbabile, vista la sua capacità retorica e la sua conoscenza dei testi sacri. Lo scambio tra Oriente ed Occidente, del resto, data da secoli prima dell’avvento di Cristo, come è attestato anche da figure quali Pitagora.
Dunque, per comprendere da dove veniamo, ossia il nodo complesso della nostra cultura, bisogna rivolgersi alla Storia universale e non solo occidentale, alla Storia della Filosofia e della Scienza. Si può leggere certo la Bibbia – ha pagine bellissime –, ma perché non anche il Corano o il Mahabharata (chi non ne ricorda la straordinaria messa in scena di Peter Brook?). Leggiamo Iliade e Odissea – nessuno ha fatto sapere al ministro che sono tuttora argomento dei programmi scolastici? –, ma permettiamo anche agli insegnanti di organizzare vagabondaggi culturali nel panorama letterario disponibile. Vagabondare non significa perdere tempo o disperdersi, ma imparare a scegliere, a interpretare ed a vivere tante vite diverse.
Ma forse per il ministro questo è pericoloso: mentre scrivo questa nota, apprendo che è stato tolto dal commercio un libro di testo di Inglese, nel quale l’autore ha criticato alcuni decreti di Salvini. La casa editrice addirittura si è scusata. E Valditara annuncia un’indagine visto che il libro era stato adottato in una scuola di Carpi (e forse anche altrove, mentre si fa notare che l’autore non è stato imparziale, come ogni insegnante deve essere.
Il ministro ed io parliamo, evidentemente, due lingue diverse per due mondi diversi: imparzialità non vuol dire neutralità, ma dare a ciascuno il suo. Anche se ciò può dispiacere o mettere in discussione l’autorità. Ritirare un libro di testo dal commercio perché non risponde alle prospettive del governo in carica si chiama censura e voglia di pensiero unico. Per questa strada si potrebbe addirittura approdare – absit iniura verbis – al libro di Stato.
Ma torniamo alle indicazioni nazionali: Storia, Geografia, Bibbia e via discorrendo, ma le materie scientifiche? Le possiamo ignorare? Va bene quanto si sta facendo? Non parrebbe, data la vistosa ignoranza degli italiani al riguardo. E poi, sarebbe forse utile un approccio più problematico ai mezzi tecnologici disponibili, dal momento che ci sono allarmi non di poco conto sull’IA e su certe sue strumentalizzazioni, accanto ai rilievi sulle sue potenzialità. Non possiamo immettere le giovani generazioni in un mondo dominato dalla tecnologia senza una rete di protezione.
Purtroppo, questi per il ministro non sono problemi. Bisogna togliere dalla scuola tutti i guai fatti dalla Sinistra: questo è il refrain, che si ascolta ogni giorno.
Ahimè, signor ministro, la sua memoria è corta. Molto corta. Vediamo qualche dato
Innanzitutto dal 1945 al 1996, la PI fu governata sempre dalla DC, con le sole eccezioni di Valitutti, uomo liberale e Spadolini, repubblicano e perciò uomo di centro. Se alcune riforme vennero con il cosiddetto Centro-sinistra, sempre la scuola fu di competenza della DC: fu Gui che varò la riforma della scuola media unica nel 1962, fu Malfatti a far approvare i Decreti Delegati, due leggi significative, ma rimaste in mezzo al guado, come attestano l’attuale vita stentata della scuola secondaria di primo grado e il fallimento della cogestione; si devono a Misasi (DC) le leggi palliative del dopo Sessantotto. E ancora alla ministra Iervolino si devono i primi tagli alle scuola ed i primi accorpamenti di istituti per risparmiare, visto che le casse dello Stato erano già allora sull’orlo del collasso.
Fino a questo momento la pedagogia della Sinistra si è fatta conoscere grazie al Movimento di Cooperazione Educativa, che tuttavia, sebbene importante e con rappresentanti del calibro di Mario Lodi e Bruno Ciari, è stato minoritario nel panorama scolastico italiano e grazie a Don Milani, di cui la Sinistra ha fatto un’icona, ma che si sentiva ed era principalmente un uomo di Chiesa, anche se poco “allineato”: suo merito è essersi opposto ad una scuola di classe, già da anni contestata da sociologi sia in Francia sia negli Stati Uniti. Ma la scuola di Barbiana è stata un unicum, morto con lui.
Se nella scuola italiana, gli insegnanti sono vilipesi da famiglie e studenti; se abbiamo inutili promozioni del 99% degli studenti; se il Tar viene ad accontentare i desiderata delle famiglie, la colpa non è di una Sinistra falsamente democratica, come si afferma da parte ministeriale, ma di chi ha governato il sistema scolastico negli ultimi quarant’anni, senza nessuna idea di scuola e di cultura.
Dal 1994 ad oggi, con la parentesi 1996-2001 e 2006-2008, la Destra è stata sempre al governo, o da sola con la guida di Berlusconi o in coalizione.
Berlinguer, uomo della Sinistra, apre una voragine, varando una riforma, piena di buone intenzioni, ma tarata alla base: l’autonomia che egli concede alle scuole è, sì, didattica, come da anni si invocava, ma è prima di tutto economica e gestionale; per la prima volta le scuole private ottengono finanziamenti e, come ho già ricordato, l’obbligo formativo viene equiparato a quello scolastico. Renzi, sempre dal PD, varò la Buona scuola, in cui, con il crowdfunding, la scuola pubblica diventava praticamente privata.
Trasformando le scuole in centri di spesa, riducendo il fondo statale di finanziamento, esse sono di fatto diventate simili a imprese, che devono “vendere” servizi per garantirsi la sopravvivenza. Le famiglie sono diventate i committenti e gli alunni i clienti.
Non a caso la Destra non ha scardinato minimamente l’autonomia berlingueriana, semmai incentivando l’aziendalizzazione degli istituti e la loro burocratizzazione e rimuovendo definitivamente l’aggettivo “pubblico” dalla titolazione del Ministero di riferimento. E, come accade da decenni, ogni esecutivo ha pensato bene di ridurre le risorse (economiche ed umane) delle scuole.
Quanto alle prassi facilitative, ricordo che fu il ministro D’Onofrio (ex DC allora FI) a cancellare gli esami di riparazione, sostituendoli non, come sarebbe stato auspicabile, con adeguate misure attivate per tutta la durata dell’anno scolastico, ma con risibili corsi di recupero, del tutto inutili, quando addirittura non garantiti dalle scuole per mancanza di denaro; fu la ministra Moratti (FI) a rendere biennali le valutazioni degli studenti; fu la ministra Gelmini (FI) a chiudere la SSIS per la preparazione degli insegnanti, che Berlinguer aveva aperto attenendosi alla precedente legge Ruberti.
Quanto all’autorevolezza degli insegnanti, ricordo che fu Umberto Bossi (Lega) a dire che era legittimo che ogni famiglia si potesse scegliere gli insegnanti per i propri figli in modo da non avere docenti con idee non consone a quelle familiari.
Fra Destra e Sinistra, insomma, complice anche la convivenza in strane ed improbabili coalizioni, abbiamo assistito ad un degrado progressivo: insegnanti in burn out, scuole allo stremo che non possono pagare i supplenti, precariato debordante, concorsi a raffica per mascherare un reale stato di stallo, tagli agli organici ripetuti, classi-pollaio e crescente burocratizzazione, che trasforma gli insegnanti in impiegati di concetto.
Se colpe ci sono, e ci sono davvero, il ministro Valditara deve rassegarsi a condividerle: hanno mancato tutti al loro dovere, Destra e Sinistra. Questa ha tradito i suoi princìpi, dettati da ideali come inclusione, democrazia, condivisione e quella perché ha imboccato in maniera convinta la via preparata, forse inintenzionalmente, da Berlinguer.
Gli ideali pedagogici della Sinistra sono democratici, ma pretendono serietà e severità: ossia quel rigore metodologico e quella disciplina, di cui parlava Gramsci nei suoi Quaderni, guardando con una certa perplessità alle esperienze di educazione nuova di cui aveva informazione. Maestri come Lodi e Ciari hanno insegnato che rigore, disciplina e educazione nuova possono coniugarsi. Per il bene dei singoli, ma anche della comunità.
Non basta, dunque, restaurare, ma bisogna cambiare direzione e ripensare la scuola, caro signor ministro. Vale a dire che bisogna affrontare aspetti ormai non più procrastinabili perché con essi ci scontriamo già dal 1945 e in maniera più evidente dal 1968, quando si è scoperchiata una voragine di cui – contrariamente a quanto Valditara ed i suoi accoliti pensano – non abbiamo mai tenuto davvero conto o che è stata tamponata con provvedimenti alla lunga inefficaci. Mi permetto di elencare questi aspetti a cui bisognerebbe porre mano e con urgenza.
Si va dagli stipendi degli insegnanti alla loro preparazione iniziale ed in servizio; dai problemi materiali degli istituti scolastici (edilizia, arredi, attrezzature, palestre, ecc.) agli organici ed alle composizioni delle classi; dalle questioni dei finanziamenti alla possibilità di fare della scuola un centro del sistema formativo integrato pubblico.
Bisognerebbe ripensare la struttura dell’intero sistema scolastico, rendendolo un percorso obbligatorio ed unitario, ma con possibilità di opzioni nell’ultimo triennio, almeno dai 5 ai 18 anni, se non addirittura dalla scuola dell’infanzia, rimandando al percorso post-scolastico la scelta tra formazione professionale (o direttamente nelle aziende o in corsi regionali) e formazione universitaria.
Al di fuori di questa prospettiva, tutto o si rivela pericoloso (perché solo ideologico) o inutile (perché inefficace).
Così dall’egoismo si approda all’egocentrismo, da questo al dogmatismo e, puta caso, se si governa, ad atteggiamenti totalitari.
Un mondo così strutturato si regge, al fondo, su una menzogna: non l’uomo è misura di tutte le cose, come voleva quel buon filosofo antico, che con questa affermazione proiettò al centro del pensiero una visione antropologica e morale, giacché misura di tutto diventa un “io” singolo, spesso insignificante, ma che racconta il mondo secondo se stesso ed eleva il suo racconto a modello universale. E purtroppo trova – come avrebbe detto Rousseau – tanti creduloni che ne fanno un “IO” con le lettere maiuscole. Guardarsi intorno, un po’ ovunque, può bastare per averne una riprova
A questo penso spesso quando mi soffermo sugli annunci dell’esecutivo in carica attualmente e sui provvedimenti che di volta in volta approva. Ma in particolare – dato che del mondo della scuola ho per esperienza e per studio qualche notizia non troppo vaga – questo mi viene in mente ogni volta che si muove il ministro Valditara, ad oggi certamente il peggior gestore della Minerva in una lista ultracentenaria, peraltro non esaltante, di personaggi, tutti, in qualche modo, con pochissime eccezioni, privi di competenze e di idee circa il sistema scolastico, che avrebbero dovuto amministrare.
Valditara debutta sulla scena del suo ministero, innanzitutto, cambiandone l’intitolazione ed introducendo quel riferimento al “merito”, che piace tanto ai suoi sponsor, come Ricolfi e Mastrocola, ma che – sul piano logico e concettuale – è simile all’araba fenice: infatti, è impossibile definirne confini e caratteri in maniera chiara e distinta. Così non è per il ministro e i suoi sponsor: per loro, infatti, il merito di fatto e senza ombra di dubbio coincide con quanto la natura ha regalato ai vari individui, come se le doti intellettuali e l’impegno scolastico non dipendessero, in larga misura, dall’ambiente, dalle occasioni di crescita offerte fin dalla nascita (e addirittura prima, visto che il periodo prenatale è ormai considerato già un periodo di formazione) e, in ultima analisi, dal grado di scolarità dei genitori (e di tutti i componenti della famiglia in senso lato) e, quindi, dallo stato socio-economico di partenza. Dunque, la scuola a cui Valditara aspira è quella per i più fortunati e che gli altri si arrangino… Ci sono sempre le scuole professionali. Dovrebbero bastare. Un nuovo Gentile? Direi decisamente ancora peggio: Gentile difendeva, pur con molte ambiguità ed una buona dose di ingenuità, l’aristocrazia della mente sfociando, giocoforza, nel classismo; Valditara non si pone neppure il problema della differenza tra aristocraticismo intellettuale ed elitismo, perché una scuola che non sia di classe, secondo lui ed i suoi ispiratori, non è una scuola.
In secondo luogo, la strada che sceglie è quella della semplificazione: tornare indietro, alla scuola del passato, incontaminata dall’ideologia della Sinistra. Va ripristinata la scuola dove si studiava sodo, vigeva l’autorità dell’insegnante e la selezione era severa. Ancora una volta sono i fragili, a farne le spese. Per loro si spalancano le porte della scuola, ma perché escano.
E, del resto, le statistiche annuali che segnalano gli abbandoni scolastici sia in corso d’anno sia alla fine di ogni anno scolastico segnalano sempre che il drop out è più alto tra gli immigrati ed i figli di famiglie con profilo culturale basso. Oggi si parla di dispersione esplicita, ma, purtroppo, siamo ancora al livello di una vera e propria mortalità scolastica con quanto ne consegue a livello individuale e sociale. E, se pensiamo al destino di un Paese costruito su queste basi, lo scenario non può che essere disastroso. Forse addirittura apocalittico.
A fronte di questa dispersione incentivata e addirittura auspicata seppure in forme mascherate, il ministro propone un ampio ventaglio di strade professionali. Siamo, di nuovo al doppio o triplo canale, eredità dell’Ottocento liberale, di cui nessun ministro del lontano e recente passato ha voluto disfarsi. E mi permetto di ricordare a Valditara che di incentivazione del percorso professionalizzante si sono fatti carico tutti i ministri recenti: Luigi Berlinguer, ahilui! – tanto per citare una Sinistra DOC – addirittura ha introdotto una equiparazione tra obbligo scolastico ed obbligo formativo, ripresa da Moratti (Destra liberale), da Gelmini (FI) e dal popolare Fioroni. E dopo di loro nessuno ha osato mettere in discussione questa equiparazione. Siamo così arrivati fino a Patrizio Bianchi (indipendente di area PD), che l’ha teorizzata addirittura in un saggetto (Nello specchio della scuola. Quale sviluppo per l’Italia, Bologna, il Mulino, 2020) in cui difende il ruolo delle esigenze del sistema economico nel tracciare le linee guida della scuola, e che l’ha esportata nel PNRR.
Mi pare, dunque, di poter trarre due conclusioni: 1. Destra e Sinistra, almeno negli anni recenti, sul classismo della scuola non divergono poi troppo e sono, in qualche misura, entrambe eredi di una idea almeno ambigua di Berlinguer; 2. Destra e Sinistra sono concordi anche nel pensare che il sistema scolastico possa tornare a funzionare solo producendo diplomati meno “asini” di quelli di oggi, che sono analfabeti di ritorno già al momento della licenza o addirittura della laurea, con qualche ritocco, e non riavviando quell’ascensore sociale che da anni si è fermato. Qui, invece, bisogna rimboccarsi le maniche e cominciare a ricostruire ab imis fundamentis, come dirò meglio alla conclusione di questa nota.
In terzo luogo, oggi come non mai, la prospettiva con cui si tende e si tenta di riorganizzare il nostro sistema scolastico è ideologica: nel ripristino del voto numerico e del 5 in condotta, nelle nuove indicazioni per l’insegnamento dell’Educazione Civica – disciplina su cui ci sarebbe molto da dire – non meno che nella proposta dell’inutile Liceo del Made in Italy ed ora, finalmente, nelle nuove indicazioni programmatiche il tema dominante è un sottile, ma evidente sovranismo destinato a coniugarsi con uno spirito restauratore insopportabile. E insopportabile non perché questa posizione può non piacere a qualcuno, ma perché la cultura non è mai e non può mai essere restauratrice: conserva per tramandare e tramanda per rivedere, ossia per ricostruire di continuo su basi certe, ma andando al di là del dato, dell’usato e di quanto appare. Compito della cultura – e quindi, della scuola che ne garantisce la condivisione con le giovani generazioni – è istituire un circolo virtuoso tra passato presente e futuro. La cultura non guarda à rebours, ma sempre necessariamente avanti. In caso contrario non potrà mai trasformarsi in civiltà, ossia in pulsante e significativa vita etica, politica, scientifica ed artistica. E inoltre la cultura non è sorda a posizioni apparentemente dissonanti da quella di riferimento: essa è inclusiva, perché si costruisce sul dialogo e sulla dialettica tra parti diverse.
Le nuove indicazioni nazionali di Valditara non vanno scartate a priori e nel loro complesso; piuttosto vanno scartate per lo spirito che le ha dettate e che tentano di veicolare alle giovani generazioni. Non è questione di Latino sì/Latino no o di ripristino della Geografia o apprendimento a memoria di poesie più o meno importanti: tutto questo è folclore, ossia è indifferente rispetto alla mission della scuola, che si manifesta nei princìpi su cui viene organizzata. Certamente, la Geografia è una materia importante; forse qualche rudimento di Latino non farà male, ne sono certa; imparare a memoria può favorire attenzione, ma serve a poco se quanto si deve apprendere non coinvolge. Se mi si permette un cenno autobiografico, dirò che ho pressoché dimenticato tutte le poesie che mi sono state imposte, ma conosco a memoria un numero altissimo ed imprecisato di libretti di opere liriche (anche straniere ed in lingua originale), che ho imparato per il mio puro piacere, essendo una melomane e, più in generale, una cultrice della musica. Anche a questo proposito, dunque, si semplifica, come ho già notato: la motivazione è e resta una perfetta sconosciuta, anche se ha un ruolo non indifferente nell’efficacia degli apprendimenti. L’alunno sembra tornare ad essere quel vaso da riempire, idea che già Plutarco molti secoli fa contestava, e senza tenere in nessun conto la tesi di Morin, secondo cui è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena.
Quanto va discusso e rifiutato, dunque, è l’implicito delle nuove indicazioni: la volontà, cioè, di fare della scuola il luogo di trasmissione del sovranismo, del culto dell’Occidente, del principio dell’identità culturale. Invidio il ministro che sa quali siano le radici dell’Italia e dell’Europa, ma lo sfiderei volentieri a declinarle: intanto per cominciare, come mettono in luce le lingue occidentali, il comune ceppo indoeuropeo riconduce la prima radice all’oriente; in secondo luogo, la Grecia e Roma antiche sono il frutto di un incontro ed un incrocio di culture, come attestano sia i vari dialetti greci che parlano di migrazioni e di stratificazioni sia il progressivo allargamento della cittadinanza romana alle varie colonie fino ai confini dell’impero (si veda la Constitutio Antoniniana del 212 d.C.); quanto all’Italia, il melting pot che l’ha culturalmente “generata” è ben noto. Si va dai popoli dell’Asia minore ai Greci, dai Normanni agli Arabi, dai Francesi agli Spagnoli: terra di conquista, l’Italia porta in sé le tracce feconde di queste dominazioni. Si può dimenticare che le cifre con cui contiamo sono dette numeri arabi? Quanto poi al cristianesimo, che a detta di Meloni & Co. è la nostra unica radice, bisogna ricordare che in Oriente ci sono stati culti – ad esempio lo Zoroastrismo o il Mitraismo, senza pensare all’egizio Akhenaton – con tematiche ricorrenti anche nel Cristianesimo. Del resto, nei Vangeli, noi conosciamo il Cristo bambino e lo ritroviamo a trent’anni, quando comincia la sua predicazione. Dove ha trascorso gli anni intermedi? A bottega con Giuseppe? Pare improbabile, vista la sua capacità retorica e la sua conoscenza dei testi sacri. Lo scambio tra Oriente ed Occidente, del resto, data da secoli prima dell’avvento di Cristo, come è attestato anche da figure quali Pitagora.
Dunque, per comprendere da dove veniamo, ossia il nodo complesso della nostra cultura, bisogna rivolgersi alla Storia universale e non solo occidentale, alla Storia della Filosofia e della Scienza. Si può leggere certo la Bibbia – ha pagine bellissime –, ma perché non anche il Corano o il Mahabharata (chi non ne ricorda la straordinaria messa in scena di Peter Brook?). Leggiamo Iliade e Odissea – nessuno ha fatto sapere al ministro che sono tuttora argomento dei programmi scolastici? –, ma permettiamo anche agli insegnanti di organizzare vagabondaggi culturali nel panorama letterario disponibile. Vagabondare non significa perdere tempo o disperdersi, ma imparare a scegliere, a interpretare ed a vivere tante vite diverse.
Ma forse per il ministro questo è pericoloso: mentre scrivo questa nota, apprendo che è stato tolto dal commercio un libro di testo di Inglese, nel quale l’autore ha criticato alcuni decreti di Salvini. La casa editrice addirittura si è scusata. E Valditara annuncia un’indagine visto che il libro era stato adottato in una scuola di Carpi (e forse anche altrove, mentre si fa notare che l’autore non è stato imparziale, come ogni insegnante deve essere.
Il ministro ed io parliamo, evidentemente, due lingue diverse per due mondi diversi: imparzialità non vuol dire neutralità, ma dare a ciascuno il suo. Anche se ciò può dispiacere o mettere in discussione l’autorità. Ritirare un libro di testo dal commercio perché non risponde alle prospettive del governo in carica si chiama censura e voglia di pensiero unico. Per questa strada si potrebbe addirittura approdare – absit iniura verbis – al libro di Stato.
Ma torniamo alle indicazioni nazionali: Storia, Geografia, Bibbia e via discorrendo, ma le materie scientifiche? Le possiamo ignorare? Va bene quanto si sta facendo? Non parrebbe, data la vistosa ignoranza degli italiani al riguardo. E poi, sarebbe forse utile un approccio più problematico ai mezzi tecnologici disponibili, dal momento che ci sono allarmi non di poco conto sull’IA e su certe sue strumentalizzazioni, accanto ai rilievi sulle sue potenzialità. Non possiamo immettere le giovani generazioni in un mondo dominato dalla tecnologia senza una rete di protezione.
Purtroppo, questi per il ministro non sono problemi. Bisogna togliere dalla scuola tutti i guai fatti dalla Sinistra: questo è il refrain, che si ascolta ogni giorno.
Ahimè, signor ministro, la sua memoria è corta. Molto corta. Vediamo qualche dato
Innanzitutto dal 1945 al 1996, la PI fu governata sempre dalla DC, con le sole eccezioni di Valitutti, uomo liberale e Spadolini, repubblicano e perciò uomo di centro. Se alcune riforme vennero con il cosiddetto Centro-sinistra, sempre la scuola fu di competenza della DC: fu Gui che varò la riforma della scuola media unica nel 1962, fu Malfatti a far approvare i Decreti Delegati, due leggi significative, ma rimaste in mezzo al guado, come attestano l’attuale vita stentata della scuola secondaria di primo grado e il fallimento della cogestione; si devono a Misasi (DC) le leggi palliative del dopo Sessantotto. E ancora alla ministra Iervolino si devono i primi tagli alle scuola ed i primi accorpamenti di istituti per risparmiare, visto che le casse dello Stato erano già allora sull’orlo del collasso.
Fino a questo momento la pedagogia della Sinistra si è fatta conoscere grazie al Movimento di Cooperazione Educativa, che tuttavia, sebbene importante e con rappresentanti del calibro di Mario Lodi e Bruno Ciari, è stato minoritario nel panorama scolastico italiano e grazie a Don Milani, di cui la Sinistra ha fatto un’icona, ma che si sentiva ed era principalmente un uomo di Chiesa, anche se poco “allineato”: suo merito è essersi opposto ad una scuola di classe, già da anni contestata da sociologi sia in Francia sia negli Stati Uniti. Ma la scuola di Barbiana è stata un unicum, morto con lui.
Se nella scuola italiana, gli insegnanti sono vilipesi da famiglie e studenti; se abbiamo inutili promozioni del 99% degli studenti; se il Tar viene ad accontentare i desiderata delle famiglie, la colpa non è di una Sinistra falsamente democratica, come si afferma da parte ministeriale, ma di chi ha governato il sistema scolastico negli ultimi quarant’anni, senza nessuna idea di scuola e di cultura.
Dal 1994 ad oggi, con la parentesi 1996-2001 e 2006-2008, la Destra è stata sempre al governo, o da sola con la guida di Berlusconi o in coalizione.
Berlinguer, uomo della Sinistra, apre una voragine, varando una riforma, piena di buone intenzioni, ma tarata alla base: l’autonomia che egli concede alle scuole è, sì, didattica, come da anni si invocava, ma è prima di tutto economica e gestionale; per la prima volta le scuole private ottengono finanziamenti e, come ho già ricordato, l’obbligo formativo viene equiparato a quello scolastico. Renzi, sempre dal PD, varò la Buona scuola, in cui, con il crowdfunding, la scuola pubblica diventava praticamente privata.
Trasformando le scuole in centri di spesa, riducendo il fondo statale di finanziamento, esse sono di fatto diventate simili a imprese, che devono “vendere” servizi per garantirsi la sopravvivenza. Le famiglie sono diventate i committenti e gli alunni i clienti.
Non a caso la Destra non ha scardinato minimamente l’autonomia berlingueriana, semmai incentivando l’aziendalizzazione degli istituti e la loro burocratizzazione e rimuovendo definitivamente l’aggettivo “pubblico” dalla titolazione del Ministero di riferimento. E, come accade da decenni, ogni esecutivo ha pensato bene di ridurre le risorse (economiche ed umane) delle scuole.
Quanto alle prassi facilitative, ricordo che fu il ministro D’Onofrio (ex DC allora FI) a cancellare gli esami di riparazione, sostituendoli non, come sarebbe stato auspicabile, con adeguate misure attivate per tutta la durata dell’anno scolastico, ma con risibili corsi di recupero, del tutto inutili, quando addirittura non garantiti dalle scuole per mancanza di denaro; fu la ministra Moratti (FI) a rendere biennali le valutazioni degli studenti; fu la ministra Gelmini (FI) a chiudere la SSIS per la preparazione degli insegnanti, che Berlinguer aveva aperto attenendosi alla precedente legge Ruberti.
Quanto all’autorevolezza degli insegnanti, ricordo che fu Umberto Bossi (Lega) a dire che era legittimo che ogni famiglia si potesse scegliere gli insegnanti per i propri figli in modo da non avere docenti con idee non consone a quelle familiari.
Fra Destra e Sinistra, insomma, complice anche la convivenza in strane ed improbabili coalizioni, abbiamo assistito ad un degrado progressivo: insegnanti in burn out, scuole allo stremo che non possono pagare i supplenti, precariato debordante, concorsi a raffica per mascherare un reale stato di stallo, tagli agli organici ripetuti, classi-pollaio e crescente burocratizzazione, che trasforma gli insegnanti in impiegati di concetto.
Se colpe ci sono, e ci sono davvero, il ministro Valditara deve rassegarsi a condividerle: hanno mancato tutti al loro dovere, Destra e Sinistra. Questa ha tradito i suoi princìpi, dettati da ideali come inclusione, democrazia, condivisione e quella perché ha imboccato in maniera convinta la via preparata, forse inintenzionalmente, da Berlinguer.
Gli ideali pedagogici della Sinistra sono democratici, ma pretendono serietà e severità: ossia quel rigore metodologico e quella disciplina, di cui parlava Gramsci nei suoi Quaderni, guardando con una certa perplessità alle esperienze di educazione nuova di cui aveva informazione. Maestri come Lodi e Ciari hanno insegnato che rigore, disciplina e educazione nuova possono coniugarsi. Per il bene dei singoli, ma anche della comunità.
Non basta, dunque, restaurare, ma bisogna cambiare direzione e ripensare la scuola, caro signor ministro. Vale a dire che bisogna affrontare aspetti ormai non più procrastinabili perché con essi ci scontriamo già dal 1945 e in maniera più evidente dal 1968, quando si è scoperchiata una voragine di cui – contrariamente a quanto Valditara ed i suoi accoliti pensano – non abbiamo mai tenuto davvero conto o che è stata tamponata con provvedimenti alla lunga inefficaci. Mi permetto di elencare questi aspetti a cui bisognerebbe porre mano e con urgenza.
Si va dagli stipendi degli insegnanti alla loro preparazione iniziale ed in servizio; dai problemi materiali degli istituti scolastici (edilizia, arredi, attrezzature, palestre, ecc.) agli organici ed alle composizioni delle classi; dalle questioni dei finanziamenti alla possibilità di fare della scuola un centro del sistema formativo integrato pubblico.
Bisognerebbe ripensare la struttura dell’intero sistema scolastico, rendendolo un percorso obbligatorio ed unitario, ma con possibilità di opzioni nell’ultimo triennio, almeno dai 5 ai 18 anni, se non addirittura dalla scuola dell’infanzia, rimandando al percorso post-scolastico la scelta tra formazione professionale (o direttamente nelle aziende o in corsi regionali) e formazione universitaria.
Al di fuori di questa prospettiva, tutto o si rivela pericoloso (perché solo ideologico) o inutile (perché inefficace).
Fonte: di Luciana Bellatalla