03 Febbraio 2025

IL REGIONALISMO: ‘MONADE ISOLATA’ O PRINCIPIO DEMOCRATICO?
di Giuseppe Butta'

Abraham Lincoln sentì e professò per tutta la vita lo stesso profondo rispetto per la Corte Suprema degli Stati Uniti che io sento per la nostra Corte Costituzionale, – spero che mi si perdoni questo presuntuoso accostamento. Ma Lincoln non esitò un solo momento, quando la Corte Suprema decise il caso Dredd Scott rifiutando allo schiavo la protezione della Costituzione americana, a criticare una tale decisione: «penso che questa decisione sia errata e farò tutto ciò che posso per farla cambiare».

La possibilità di criticare liberamente e pubblicamente l'azione giudiziaria è, per il corpo politico, ancora più importante della stessa indipendenza dei tribunali e dei giudici. Perché infatti niente potrebbe rendere i giudici più attenti nelle loro decisioni che la coscienza che ogni loro atto sia sottoposto all’esame e alla critica sincera dei cittadini. Nel caso dei giudici che tengono un mandato a vita anzi la loro stessa indipendenza rende necessario che il diritto di critica venga esercitato liberamente perché è l'unico strumento possibile e disponibile nelle mani di un popolo libero per mantenere i giudici sensibili e attenti alla regola del ‘self-restraint’, spesso abbondantemente ignorata. Il mandato dei nostri giudici costituzionali non è a vita e spesso apre la via a ulteriori sviluppi verso più alte carriere politiche: questo stesso fatto rende ancora più necessaria la libertà di critica soprattutto quando la loro interpretazione dei principi costituzionali dà l’impressione di parzialità in questioni che implicano scontri politici significativi.

La recente sentenza della Corte Costituzionale n. 192/2024 riguardante la legge sulla cosiddetta autonomia differenziata (Legge n. 86 del 26/06/2024) merita di essere attentamente valutata per fugare una tale impressione.

Bisogna ammettere, per onestà, che gli art. 116 e117 della Costituzione così come modificati sono di per sé farraginosi e si prestano a voli pindarici in alta quota.

Tuttavia – leggendo la premessa storico-giuridica su cui si fonda, nella sentenza, la successiva sfilza di dichiarazioni di incostituzionalità (‘Carthago delenda est’) – non si può fare a meno di notare la sua funzione faustiana di prologo in cielo, fumogena e fumosa.

Fatto il doveroso riconoscimento che «la riforma costituzionale del 2001 … consente di superare l’uniformità nell’allocazione delle competenze al fine di valorizzare appieno le potenzialità insite nel regionalismo italiano», l’illuminata Corte precisa, ad abundantiam e per ricordarlo a chi non lo sapesse, che «tale disposizione… non può essere considerata come una monade isolata, ma deve essere collocata nel quadro complessivo della forma di Stato italiana, con cui va armonizzata … [il regionalismo] non porta all’evaporazione della nozione unitaria di popolo. La nostra democrazia costituzionale si basa sulla compresenza e sulla dialettica di pluralismo e unità».

Da questa alata premessa discende infatti un’interpretazione a dir poco fantasiosa che, vestita da ‘armonizzazione’, sferra un attacco preventivo su molti punti della legge ipotizzando futuri possibili atti incostituzionali: insomma la Corte mette le mani avanti. La domanda è se e fino a che punto la legge in oggetto minacci un tale sfracello e se la Corte abbia il potere per intervenire su previsioni da Frate Indovino.

Essa, facendo proprie molte delle argomentazioni dei ricorrenti, rileva che il regionalismo italiano «non è un “regionalismo duale” in cui tra una regione e l’altra esistono delle paratie stagne a dividerle. Piuttosto, è un regionalismo cooperativo (sentenza n. 121 del 2010, punto 18.2. del Considerato in diritto), che dà ampio risalto al principio di leale collaborazione tra lo Stato e le regioni (ex multis, sentenze n. 87 del 2024 e n. 40 del 2022) e che deve concorrere alla attuazione dei principi costituzionali e dei diritti che su di essi si radicano. A tale logica costituzionale va ricondotta la differenziazione contemplata dall’art. 116, terzo comma, Cost., che può essere non già un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale, ma uno strumento al servizio del bene comune della società e della tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali».

Nulla da eccepire se non il dato storico inconfutabile che finora – pur in assenza di questa anti-unitaria ‘autonomia differenziata’ – questo «strumento al servizio del bene comune della società e della tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali» ha funzionato poco e male e ha persino prodotto la mai risolta ‘questione meridionale’: nessuno mai, però, si è preoccupato di accertare e dichiarare i profili di incostituzionalità del ‘centralismo’.

Ma è vero che il principio di autonomia sia di per sé un principio di disgregazione dell’unità nazionale o della coesione sociale? O, piuttosto, è vero che esso è il principio più naturale della democrazia?

Non v’è dubbio che il funzionamento di un tale principio non si possa trovare in regimi autocratico/totalitari di varia natura né possa essere apprezzato dai loro stretti eredi ideologici.

Per rispondere a tali interrogativi bisogna guardare altrove e valersi di un dato storico di cui disponiamo e che conferma come, anche nelle forme di federalismo più articolato sulla base di una netta divisione e distribuzione delle competenze rispettivamente degli Stati e del Governo centrale, quest’ultimo abbia potuto, quando ha voluto o dovuto, dispiegare un’azione perequativa come per esempio negli Stati Uniti in forza della cosiddetta ‘clausola del benessere’.

Tornando alla sentenza, mi sembra che l’illuminata Corte voglia ridurre l’autonomia al principio di sussidiarietà – di cui ci dà pure una precisa definizione: «Tale principio esclude un modello astratto di attribuzione delle funzioni, ma richiede invece che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione. La preferenza va al livello più prossimo ai cittadini e alle loro formazioni sociali, ma il principio può spingere anche verso il livello più alto di governo. Ai fini dell’attribuzione della funzione, contano le sue caratteristiche e il contesto in cui la stessa si svolge. La sussidiarietà funziona, per così dire, come un ascensore, perché può portare ad allocare la funzione, a seconda delle specifiche circostanze, ora verso il basso ora verso l’alto» – il che non sarebbe sbagliato se però il fondamento stesso di quel principio non venisse poi usato come un muro per recludere l’autonomia nello stretto spazio delle funzioni e non delle materie rispetto alle quali si definiscono le competenze rispettivamente dello Stato e delle regioni. Tra le tante dichiarazioni di incostituzionalità di norme della legge in questione, mi è sembrata un po' sui generis quella riguardante l’art. 1, comma 2, così formulata dalla Corte: l’art. 1 è illegittimo «nella parte in cui prevede «l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia …, anziché «l’attribuzione di specifiche funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia».

Basta la parola, diceva un noto comico! La parola specifiche è diventata una discriminante costituzionale – «Poiché il principio di sussidiarietà opera attraverso un giudizio di adeguatezza, esso non può che riferirsi a specifiche e ben determinate funzioni e non può riguardare intere materie» – e ha segnato la sorte di vari altri articoli (2, 3, 4) della legge in questione mandati al macero perché mancanti di una tale specifica parola: forse la Corte non ha tenuto conto del fatto che è l’art. 116 c. 3 della Costituzione a prevedere che “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia concernenti le materie [e non le funzioni, come pretende la Corte] di cui al terzo comma dell’art. 117 … possono essere attribuite alle Regioni con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata».

A parere della Corte tutto ciò porterebbe a un «regime privilegiato per una determinata regione». È vero?

A me sembra che una tale domanda andrebbe posta al ‘costituente’ che ha dettato l’art. 116: non è infatti la Corte costituzionale a poter dare la risposta perché essa non è il legislatore né, tanto meno, il ‘costituente’. Questa considerazione circa l’ambizione ‘costituente’ della Corte mi è stata suggerita dalla lettura del punto 4.4 di quello che ho chiamato ‘prologo in cielo’, nel quale si afferma: «Questa Corte non può esimersi dal rilevare che vi sono delle materie, cui pure si riferisce l’art. 116, terzo comma, Cost., alle quali afferiscono funzioni il cui trasferimento è, in linea di massima, difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà. Vi sono, infatti, motivi di ordine sia giuridico che tecnico o economico, che ne precludono il trasferimento. Con riguardo a tali funzioni, l’onere di giustificare la devoluzione alla luce del principio di sussidiarietà diventa, perciò, particolarmente gravoso e complesso. Pertanto, le leggi di differenziazione che contemplassero funzioni concernenti le suddette materie potranno essere sottoposte ad uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale».

In questo senso, la famosa questione dei LEP è al centro delle scelte interpretative della Corte. Essa ha confermato, pleonasticamente perché ciò è previsto dalla legge 86/24, art. 1, c.2, che la determinazione dei LEP, con legge, è condizione preliminare per la concessione dell’autonomia differenziata alle regioni richiedenti. L’averlo ribadito è forse utile ma gli oppositori della legge hanno interpretato questa indicazione come una sorta di grimaldello che potrebbe fare saltare tutto il processo di attuazione dell’autonomia.

Se ne potrebbe dedurre, quindi, che in forza di questa disposizione costituzionale, il criterio della cosiddetta ‘par condicio’, invocato dalla Corte per assicurare alle Regioni una posizione di eguaglianza, risulterebbe in una violazione della Costituzione stessa in quanto negherebbe a una Regione di richiedere legittimamente la competenza su una materia che altre Regioni, altrettanto legittimamente e autonomamente, non intendono chiedere.

Ora non v’è dubbio – e l’avevamo rilevato in altre occasioni – che la riforma del Titolo V, fatta a suo tempo per corteggiare la costola della sinistra, abbia straripato prevedendo tra le materie differenziabili addirittura il commercio con l’estero; ma ormai la frittata è fatta: quelle materie sono nella Costituzione e chi le vuole se le può prendere. Oppure si cambi la disposizione nella Costituzione. Mai ci saremmo aspettati che la Corte potesse pretendere di sottoporre «le leggi di differenziazione che contemplassero funzioni concernenti le suddette materie ad uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale». Una tale prospettiva è stata invece accolta con favore da alcuni, vedi per esempio la Nota 9 dicembre 2024 del segretario confederale della Cgil di Genova.

È evidente che la Corte si attarda ancora sulla idea di decentramento amministrativo che poco ha a che fare con il principio dell’autonomia che, piaccia o no, è al centro degli art. 116 e 117 della Costituzione, riformati nel 2001 anche per rispondere alla domanda di autonomia che le regioni a statuto ordinario avevano avanzato per essere almeno equiparate alle 5 regioni a statuto speciale.

È da questo punto di vista che la Corte ha fatto ogni sforzo di immaginazione per affossare la legge in questione con ben 14 dichiarazioni di incostituzionalità di numerosissimi articoli e commi della legge attuativa.

Essa, nella sua foga demolitiva/additiva e pur lasciando in piedi alcuni pilastri fondamentali della legge, non si è accorta addirittura della contraddittorietà della sua argomentazione: infatti – pur avendo ricordato che «il principio di sussidiarietà, è dotato di una intrinseca flessibilità ... riconosciuta dalla Costituzione quando prevede, in via straordinaria, l’esercizio del potere sostitutivo statale (art. 120, secondo comma, Cost.) ed è stata particolarmente valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale con l’istituto della “chiamata in sussidiarietà”, che permette di attrarre verso l’alto insieme alla funzione amministrativa anche quella legislativa, nel rispetto del principio di leale collaborazione» – azzera il principio di autonomia.

La Corte – che, nelle motivazioni della sentenza, ha dovuto barcamenarsi tra l’autonomia prescritta dalla ‘sinistra’ con la modifica degli art. 116 e 117 Cost. e l’autonomia abiurata dalla ‘sinistra’ stessa – ha poi provveduto a stendere un’ulteriore cortina fumogena intorno alle dichiarazioni di incostituzionalità con un altrettanto sterminata serie di dichiarazioni di inammissibilità riguardanti le eccezioni – per lo più speciose – di legittimità costituzionale sollevate dalle cinque regioni ricorrenti, che qui sarebbe troppo lungo ricordare una per una ma che, simbolicamente, si possono sintetizzare in quella più comica. Tale è infatti l’eccezione sollevata dalla Regione Puglia che, in nome dell’unità nazionale, nega allo Stato la legittimazione «ad approvare una legge quadro attuativa dell’art. 116, terzo comma, Cost., perché tale disposizione non la prevede e, anzi, contiene ‘indicazioni precise’ quanto al procedimento di attribuzione delle ulteriori forme di autonomia. Il testo costituzionale, dunque, sarebbe ‘autosufficiente’».

In questa elucubrazione non è difficile scorgere lo zampino geniale del grande giurista che presiede quella Regione.

Il 20 gennaio, poi, la Corte ha dovuto rimboccarsi le maniche per trovare la motivazione per dichiarare l’inammissibilità del referendum abrogativo proposto dai difensori del centralismo ‘democratico’ nelle sue varie declinazioni. La Corte ha rilevato che «l'oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari … pregiudica la possibilità di una scelta consapevole da parte dell'elettore … il referendum verrebbe ad avere una portata che ne altera la funzione, risolvendosi in una scelta sull'autonomia differenziata, come tale, e in definitiva sull'articolo 116, terzo comma, della Costituzione; il che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo eventualmente di una revisione costituzionale».

La motivazione è senza dubbio pertinente soprattutto perché la corte aveva già provveduto a svuotare la legge dei suoi contenuti e, quindi, il referendum, abrogando il fantasma di quella legge, avrebbe abrogato la Costituzione.

Ci meraviglia però come, contestualmente, la Corte abbia dichiarato ammissibile il referendum riguardante l’articolo 9 dell'attuale legge sulla cittadinanza, la numero 91/1992 che si basa sul cosiddetto ius sanguinis (il diritto di sangue) perché «la richiesta non rientra in alcuna delle ipotesi per le quali l'ordinamento costituzionale esclude il ricorso all'istituto referendario».

Si, va bene; ma la Corte non si è accorta che si tratta di un referendum manipolativo e non abrogativo, tipologia mai ammessa in passato dalla Corte stessa?

Obiettivo dei promotori è infatti quello di dimezzare da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda di cittadinanza (che, una volta ottenuta, sarebbe trasmessa ai propri figli minori: in tutto circa 2,5 milioni di persone).

Per rendersi conto della finalità manipolatrice – e, quindi, ‘fuorviante’ per i votanti – dei promotori del referendum, basta leggere il quesito referendario: «Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza”?».

Per capire e interpretare un tale testo non basterebbe il genio di Ulpiano: a quando una sentenza, ‘additiva’, della Corte Costituzionale che imponga che i quesiti referendari vengano formulati con un linguaggio comprensibile a tutti?





Fonte: di Giuseppe Butta'
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