"I RAGAZZI DI ALMIRANTE" di Marco Cianca
23-01-2023 - EDITORIALE
Isabella Rauti commemora: “Voglio ricordare il 26 dicembre del 1946 quando a Roma nasceva il Movimento sociale italiano. Onore ai fondatori e ai militanti missini. Le radici profonde non gelano”. Ignazio La Russa condivide: “Nel ricordo di mio padre, che fu tra i fondatori in Sicilia e che scelse con il Msi, per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione”. Giorgia Meloni dà l'imprimatur: “Ha traghettato verso la democrazia milioni di italiani sconfitti dalla guerra. È stato il partito della destra repubblicana, pienamente presente nelle dinamiche democratiche di questa nazione. Ha contribuito ad eleggere capi dello Stato, ha avuto un ruolo nella battaglia contro la violenza politica e il terrorismo, sempre chiarissimo sul tema della lotta all'antisemitismo”.
Queste le dichiarazioni che hanno chiuso il 2022, centenario della marcia su Roma e primo anno della nuova era con la fiamma tricolore a Palazzo Chigi. Le reazioni sono state di maniera, le polemiche subito oscurate dalla morte di Benedetto XI, dalla guerra in Ucraina, dal caro benzina, dall'autonomia differenziata, dalla cattura di Messina Denaro. Il ministro dell'Istruzione ha anche trovato il tempo e la sfacciataggine per dire che Dante, a sua insaputa, era di destra. I valori dell'antifascismo sono un fastidioso ritornello, zittito dall'imperioso procedere del governo.
E così la questione del Msi è rimasta sospesa nell'aria, data per acquisita, accettata. D'altro canto, ha chiosato la stessa Meloni, il successo ottenuto alle elezioni dimostrerebbe che la maggioranza degli italiani “non considera quella storia impresentabile”.
E allora vale la pena di rileggere un lungo articolo che Oriana Fallaci scrisse sul settimanale l'Europeo, nel giugno del 1973, dopo aver conosciuto Giulio Salierno. “La sua storia- spiegava la giornalista- è la storia che ascoltai per due giorni, col registratore dinanzi, rabbrividendo, e in cuor mio ringraziandolo per tutti coloro che vogliono essere liberi e non permettono, non permetteranno a nessuno di uccidere la libertà”.
Nel 1953 Salierno, allora giovane missino, venne arrestato per un omicidio compiuto durante una rapina. Dopo 16 anni di prigione fu graziato da Giuseppe Saragat. In carcere studiò, divenne un altro, e una volta libero si dedicò alla sociologia. Scrisse vari testi sul sottoproletariato e sulla repressione nei penitenziari ma il suo libro più famoso resta “Autobiografia di un picchiatore”. Era lui l'uomo scelto da alcuni dirigenti del “democratico” Msi per ammazzare Walter Audisio e vendicare così la morte di Benito Mussolini.
La Fallaci adottò uno stile particolare per riportare la lunga testimonianza: “Ho dato al racconto la forma di un monologo, usando le parole e le frasi di Salierno, il suo modo di esprimersi, soprattutto quando descrive il Msi che conobbe. Un partito cioè dove chi crede al sistema parlamentare è considerato un eunuco, l'avversario politico è visto come un oggetto da picchiare, gli attivisti si definiscono picchiatori, l'onorevole Giorgio Almirante li chiama i miei ragazzi, la violenza è metodologia, la provocazione è strategia, la guerra civile è scopo”. E aggiungeva: “A rendere più allucinante questo racconto manca solo la voce di Salierno, a momenti così amara, così dolorosa”.
Proviamo a riascoltarla, quella voce. Partendo dall'arrivo nella sede missina di Colle Oppio, a Roma.
“La sezione era situata in una specie di scantinato cui si accedeva attraverso un corridoio buio come una cripta. In fondo a questa specie di cripta stava un sacrario ai caduti della Repubblica sociale italiana, con la croce illuminata e l'aquila sopra la croce. Da qui si passava a un salone con un immenso ritratto di Mussolini nell'uniforme della milizia, e sotto il ritratto di Mussolini sedevano due dirigenti che ti ricevevano scattando in piedi e alzando il braccio nel saluto fascista. Uno si presentava come un ex maresciallo del battaglione San Marco, l'altro come un ex capitano della Folgore. L'ex maresciallo ci spiegò che entrare nella sezione giovanile comportava automaticamente l'appartenenza al partito, ci consegnò un pacco di manifesti da attaccare e poi ci mise nelle mani degli attivisti perché ci iniziassero subito alla tecnica della provocazione.
Gli attivisti appartenevano all'ala dei duri che si definivano i picchiatori. I picchiatori venivano quasi sempre dalla Repubblica sociale: gente sui trent'anni, ex paracadutisti della Folgore, della Nembo, dei battaglioni Mussolini. Stavano in sezione ventiquattr'ore su ventiquattro, dandosi il cambio. Non avevano un mestiere, un lavoro e non ho mai capito chi li campasse. Eran tanti. In quella piccola sede del Msi ne contavi almeno settanta, e la loro presenza era così costante che al minimo incidente nella zona potevi chiamarli in aiuto. Armati di catene e bastoni, saltavano sul camioncino, piombavano sui tuoi avversari, ne facevano polpette. Grazie ad essi, il mio battesimo della violenza avvenne nel giro di poche settimane.
La “tecnica della provocazione” era anche detta “metodologia del comportamento” o “strategia dello scontro frontale”. Per impararla non dovevi chiedere troppe spiegazioni, bastava seguire i picchiatori, imitarli. I duri ci spiegano che esistono due sistemi per picchiare. Uno è picchiare a casaccio, l'altro è picchiare in modo che la vittima non vada subito per terra. Cioè in modo metodico, calmo, affinché il disgraziato si illuda di restare in piedi e continui a battersi e così riceva più colpi. Questo sistema si chiama “tecnica del pestaggio” e, insistevano i duri, è il migliore, in quanto causa lesioni interne che possono portare alla morte. Capito? Invece di mettere il disgraziato k.o. al primo colpo o al secondo, gli sferri un pugno a una costola. Poi a un'altra costola. Poi allo stomaco. Poi al naso. Poi lo sorreggi mentre sta per cadere e gli tiri un altro pugno alla costola, graduando la forza, ritardando il colpo definitivo, e di questo passo puoi appioppargli una trentina di colpi e mandarlo k.o. in piedi.
Ci definivamo i figli del Sole, e, poiché eravamo i figli del Sole, ogni nostro capriccio era lecito. Io ero grosso e robusto, accecato dalla voglia di sentirmi un uomo, il partito era per me uno strumento di virilità. In ogni sede del Msi l'incultura predominava, il solo concetto cui ci rifacessimo era quello dei figli del Sole. I dirigenti non tentavano nemmeno di indottrinarci scientificamente attraverso libri. Non ci dicevano nemmeno di leggere i discorsi di Mussolini. Se uno li leggeva, insieme agli scritti di Nietzsche e di Sorel, era per una sua curiosità personale. L'unica volta che vidi un libro, nella sezione di Colle Oppio, fu quando il piazzista venne a venderci la storia della Repubblica sociale scritta da un ex repubblichino.
A 18 anni ero stato scelto per ammazzare Walter Audisio. Naturalmente ero pieno di armi. Oltre a cinque pistole, un fucile, numerose bombe a mano, avevo un Thompson calibro 45 che sparava 40 colpi. Me l'aveva dato un altro attivista. Già allora tutti gli attivisti missini avevano armi. Con le bombe… si faceva ai balocchi. Andavamo in campagna e ce le tiravamo addosso per scansarsi un attimo prima che ci colpissero. Era un gioco insegnato dai reduci della Repubblica sociale che ai tempi si divertivano a farsele scoppiare sotto l'elmetto. Imparavamo a usare le armi in campagna, soprattutto durante la stagione di caccia. Altri si addestravano nei campeggi organizzati dal partito. Oltre allo spirito guerresco, nei campeggi si assorbiva l'attitudine a usare il mitra, il fucile, la rivoltella. Non ci vedevamo nulla di male. Perché avremmo dovuto vederci qualcosa di male? Se consideri la violenza come tecnica politica, come ideologia politica, addirittura come filosofia, sparare ha lo stesso valore che fare a pugni. Insomma, una bomba non è più una bomba, un attentato non è più un attentato, una strage non è più una strage.
Almirante non era l'uomo bonario che appare in tv quando dice di accettare la linea parlamentare eccetera. In televisione sembra bonario, io non lo vidi mai tale. Quando veniva nelle sezioni, e ci chiamava i suoi ragazzi, parlava sempre di scontro fisico. Diceva sempre di sostenere un partito di tipo autoritario. Ripeteva: l'avversario va contrastato anche e soprattutto sul piano fisico. Ciò significa una cosa sola: fare attentati, picchiare…. Bravissimo nel dire e non dire, nel parlarti con voce bassa, educata, aveva una grinta che non aveva nessuno…. Noi picchiatori lo ammiravamo moltissimo.
Quando sono stato graziato dal presidente della Repubblica, nel 1968, i fascisti mi hanno cercato. Mi hanno mandato a chiamare. Non gli ho neanche risposto. Non mi andava di rivederli. Mica che li odiassi, no. Io non odio più nessuno. Non ci riesco più. Quando ci si ribella fino in fondo alla violenza, come ho fatto io, non si riesce più a odiare…. Però ho provato una tale delusione a scoprire che esistevano ancora, che facevano ancora le stesse cose, moltiplicate per cento. E ho provato un tale fastidio a vedere Almirante in tv, trattato come un signore che sta al gioco democratico e si permette atteggiamenti da vittima. E mi sono detto: possibile che la gente non capisca, possibile che opponga una simile indifferenza? Sì, l'indifferenza e ciò che mi ha ferito di più”.
Giorgia Meloni ha promesso che parteciperà alle celebrazioni del 25 Aprile. Staremo a vedere.
La Russa non ha remore; “Me ne frego delle liturgie”.
Edith Bruck, dopo l'assoluzione della donna che a Predappio indossava una maglietta inneggiante ad Auschwitz, ha commentato: “Viene tollerato tutto. Siamo di fronte ad un disfacimento morale totale”.
A che serve il Giorno della Memoria se il Msi può essere ricordato come un pilastro della democrazia?
Ancora Salierno alla Fallaci: “Da noi non c'erano dibattitti, discussioni. Si apriva bocca solo per esaminare la strategia più adatta a mettere le redini alla gente, a riconquistare il potere perduto con la morte di Mussolini. Sì, l'unico discorso era su come riconquistare il potere”.
Alla fine, ci sono riusciti.
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Queste le dichiarazioni che hanno chiuso il 2022, centenario della marcia su Roma e primo anno della nuova era con la fiamma tricolore a Palazzo Chigi. Le reazioni sono state di maniera, le polemiche subito oscurate dalla morte di Benedetto XI, dalla guerra in Ucraina, dal caro benzina, dall'autonomia differenziata, dalla cattura di Messina Denaro. Il ministro dell'Istruzione ha anche trovato il tempo e la sfacciataggine per dire che Dante, a sua insaputa, era di destra. I valori dell'antifascismo sono un fastidioso ritornello, zittito dall'imperioso procedere del governo.
E così la questione del Msi è rimasta sospesa nell'aria, data per acquisita, accettata. D'altro canto, ha chiosato la stessa Meloni, il successo ottenuto alle elezioni dimostrerebbe che la maggioranza degli italiani “non considera quella storia impresentabile”.
E allora vale la pena di rileggere un lungo articolo che Oriana Fallaci scrisse sul settimanale l'Europeo, nel giugno del 1973, dopo aver conosciuto Giulio Salierno. “La sua storia- spiegava la giornalista- è la storia che ascoltai per due giorni, col registratore dinanzi, rabbrividendo, e in cuor mio ringraziandolo per tutti coloro che vogliono essere liberi e non permettono, non permetteranno a nessuno di uccidere la libertà”.
Nel 1953 Salierno, allora giovane missino, venne arrestato per un omicidio compiuto durante una rapina. Dopo 16 anni di prigione fu graziato da Giuseppe Saragat. In carcere studiò, divenne un altro, e una volta libero si dedicò alla sociologia. Scrisse vari testi sul sottoproletariato e sulla repressione nei penitenziari ma il suo libro più famoso resta “Autobiografia di un picchiatore”. Era lui l'uomo scelto da alcuni dirigenti del “democratico” Msi per ammazzare Walter Audisio e vendicare così la morte di Benito Mussolini.
La Fallaci adottò uno stile particolare per riportare la lunga testimonianza: “Ho dato al racconto la forma di un monologo, usando le parole e le frasi di Salierno, il suo modo di esprimersi, soprattutto quando descrive il Msi che conobbe. Un partito cioè dove chi crede al sistema parlamentare è considerato un eunuco, l'avversario politico è visto come un oggetto da picchiare, gli attivisti si definiscono picchiatori, l'onorevole Giorgio Almirante li chiama i miei ragazzi, la violenza è metodologia, la provocazione è strategia, la guerra civile è scopo”. E aggiungeva: “A rendere più allucinante questo racconto manca solo la voce di Salierno, a momenti così amara, così dolorosa”.
Proviamo a riascoltarla, quella voce. Partendo dall'arrivo nella sede missina di Colle Oppio, a Roma.
“La sezione era situata in una specie di scantinato cui si accedeva attraverso un corridoio buio come una cripta. In fondo a questa specie di cripta stava un sacrario ai caduti della Repubblica sociale italiana, con la croce illuminata e l'aquila sopra la croce. Da qui si passava a un salone con un immenso ritratto di Mussolini nell'uniforme della milizia, e sotto il ritratto di Mussolini sedevano due dirigenti che ti ricevevano scattando in piedi e alzando il braccio nel saluto fascista. Uno si presentava come un ex maresciallo del battaglione San Marco, l'altro come un ex capitano della Folgore. L'ex maresciallo ci spiegò che entrare nella sezione giovanile comportava automaticamente l'appartenenza al partito, ci consegnò un pacco di manifesti da attaccare e poi ci mise nelle mani degli attivisti perché ci iniziassero subito alla tecnica della provocazione.
Gli attivisti appartenevano all'ala dei duri che si definivano i picchiatori. I picchiatori venivano quasi sempre dalla Repubblica sociale: gente sui trent'anni, ex paracadutisti della Folgore, della Nembo, dei battaglioni Mussolini. Stavano in sezione ventiquattr'ore su ventiquattro, dandosi il cambio. Non avevano un mestiere, un lavoro e non ho mai capito chi li campasse. Eran tanti. In quella piccola sede del Msi ne contavi almeno settanta, e la loro presenza era così costante che al minimo incidente nella zona potevi chiamarli in aiuto. Armati di catene e bastoni, saltavano sul camioncino, piombavano sui tuoi avversari, ne facevano polpette. Grazie ad essi, il mio battesimo della violenza avvenne nel giro di poche settimane.
La “tecnica della provocazione” era anche detta “metodologia del comportamento” o “strategia dello scontro frontale”. Per impararla non dovevi chiedere troppe spiegazioni, bastava seguire i picchiatori, imitarli. I duri ci spiegano che esistono due sistemi per picchiare. Uno è picchiare a casaccio, l'altro è picchiare in modo che la vittima non vada subito per terra. Cioè in modo metodico, calmo, affinché il disgraziato si illuda di restare in piedi e continui a battersi e così riceva più colpi. Questo sistema si chiama “tecnica del pestaggio” e, insistevano i duri, è il migliore, in quanto causa lesioni interne che possono portare alla morte. Capito? Invece di mettere il disgraziato k.o. al primo colpo o al secondo, gli sferri un pugno a una costola. Poi a un'altra costola. Poi allo stomaco. Poi al naso. Poi lo sorreggi mentre sta per cadere e gli tiri un altro pugno alla costola, graduando la forza, ritardando il colpo definitivo, e di questo passo puoi appioppargli una trentina di colpi e mandarlo k.o. in piedi.
Ci definivamo i figli del Sole, e, poiché eravamo i figli del Sole, ogni nostro capriccio era lecito. Io ero grosso e robusto, accecato dalla voglia di sentirmi un uomo, il partito era per me uno strumento di virilità. In ogni sede del Msi l'incultura predominava, il solo concetto cui ci rifacessimo era quello dei figli del Sole. I dirigenti non tentavano nemmeno di indottrinarci scientificamente attraverso libri. Non ci dicevano nemmeno di leggere i discorsi di Mussolini. Se uno li leggeva, insieme agli scritti di Nietzsche e di Sorel, era per una sua curiosità personale. L'unica volta che vidi un libro, nella sezione di Colle Oppio, fu quando il piazzista venne a venderci la storia della Repubblica sociale scritta da un ex repubblichino.
A 18 anni ero stato scelto per ammazzare Walter Audisio. Naturalmente ero pieno di armi. Oltre a cinque pistole, un fucile, numerose bombe a mano, avevo un Thompson calibro 45 che sparava 40 colpi. Me l'aveva dato un altro attivista. Già allora tutti gli attivisti missini avevano armi. Con le bombe… si faceva ai balocchi. Andavamo in campagna e ce le tiravamo addosso per scansarsi un attimo prima che ci colpissero. Era un gioco insegnato dai reduci della Repubblica sociale che ai tempi si divertivano a farsele scoppiare sotto l'elmetto. Imparavamo a usare le armi in campagna, soprattutto durante la stagione di caccia. Altri si addestravano nei campeggi organizzati dal partito. Oltre allo spirito guerresco, nei campeggi si assorbiva l'attitudine a usare il mitra, il fucile, la rivoltella. Non ci vedevamo nulla di male. Perché avremmo dovuto vederci qualcosa di male? Se consideri la violenza come tecnica politica, come ideologia politica, addirittura come filosofia, sparare ha lo stesso valore che fare a pugni. Insomma, una bomba non è più una bomba, un attentato non è più un attentato, una strage non è più una strage.
Almirante non era l'uomo bonario che appare in tv quando dice di accettare la linea parlamentare eccetera. In televisione sembra bonario, io non lo vidi mai tale. Quando veniva nelle sezioni, e ci chiamava i suoi ragazzi, parlava sempre di scontro fisico. Diceva sempre di sostenere un partito di tipo autoritario. Ripeteva: l'avversario va contrastato anche e soprattutto sul piano fisico. Ciò significa una cosa sola: fare attentati, picchiare…. Bravissimo nel dire e non dire, nel parlarti con voce bassa, educata, aveva una grinta che non aveva nessuno…. Noi picchiatori lo ammiravamo moltissimo.
Quando sono stato graziato dal presidente della Repubblica, nel 1968, i fascisti mi hanno cercato. Mi hanno mandato a chiamare. Non gli ho neanche risposto. Non mi andava di rivederli. Mica che li odiassi, no. Io non odio più nessuno. Non ci riesco più. Quando ci si ribella fino in fondo alla violenza, come ho fatto io, non si riesce più a odiare…. Però ho provato una tale delusione a scoprire che esistevano ancora, che facevano ancora le stesse cose, moltiplicate per cento. E ho provato un tale fastidio a vedere Almirante in tv, trattato come un signore che sta al gioco democratico e si permette atteggiamenti da vittima. E mi sono detto: possibile che la gente non capisca, possibile che opponga una simile indifferenza? Sì, l'indifferenza e ciò che mi ha ferito di più”.
Giorgia Meloni ha promesso che parteciperà alle celebrazioni del 25 Aprile. Staremo a vedere.
La Russa non ha remore; “Me ne frego delle liturgie”.
Edith Bruck, dopo l'assoluzione della donna che a Predappio indossava una maglietta inneggiante ad Auschwitz, ha commentato: “Viene tollerato tutto. Siamo di fronte ad un disfacimento morale totale”.
A che serve il Giorno della Memoria se il Msi può essere ricordato come un pilastro della democrazia?
Ancora Salierno alla Fallaci: “Da noi non c'erano dibattitti, discussioni. Si apriva bocca solo per esaminare la strategia più adatta a mettere le redini alla gente, a riconquistare il potere perduto con la morte di Mussolini. Sì, l'unico discorso era su come riconquistare il potere”.
Alla fine, ci sono riusciti.
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Immagine: 16 marzo 1968. Assalto fascista all'università della Sapienza per liberarla dagli occupanti. Alla guida Giorgio Almirante.