"IRAN: JIN, JIYAN, AZADI"
18-12-2022 - IL SOCIALISMO NEL MONDO
Teheran, 13 settembre. Mahsa Amini, una giovane ventiduenne di etnia curda che vive con la famiglia a Saqez, quel giorno decide di fare una gita nella capitale in compagnia del fratello prima di iniziare il corso universitario di microbiologia. Sta passeggiando per strada, quando passa una pattuglia della polizia morale, la ferma, la carica su un furgone e la porta nel famigerato carcere di Vozara Street, dove la “educheranno alla modestia”. Mahsa non è una dissidente o una manifestante. Non è nemmeno a capo scoperto. E’il modo in cui indossa il hijab, con la frangia che fa capolino, a far infuriare gli inflessibili tutori della morale. Il giorno seguente Mahsa cade in coma e viene ricoverata in ospedale. A dar notizia dell’arresto della giovane per “abbigliamento improprio” e del suo ricovero è la giornalista Nilufar Hamedi, che nel giro di 24ore è arrestata, trascinata nella prigione di Evin, la sua casa saccheggiata, confiscati laptop e cellulari. Il 16 settembre Mahsa è dichiarata morta per sospetti danni cerebrali. Mahsa Amini muore e nel Paese si scatenano le proteste, le manifestazioni, gli scontri nelle università e nelle scuole superiori femminili, dove le donne si fanno filmare mentre agitano il velo in aria come atto di sfida. Dalla richiesta di porre fine al hijab obbligatorio (74 frustate o 60 giorni di prigione a chi viola la regola), la rivolta si trasforma in appelli per il rovesciamento della teocrazia islamica iraniana. Per la prima volta dalla rivoluzione del 1979 che ha portato i religiosi al potere, il regime si sente seriamente in pericolo. La reazione è feroce: le organizzazioni per i diritti umani con sede all'estero stimano in più di 500 i manifestanti uccisi, in18.000 le persone arrestate. Le condanne a morte si susseguono implacabili. Le impiccagioni vengono eseguite nelle pubbliche piazze. Ma le proteste continuano: fomentate dai nemici dell'Iran all'estero - Israele, Regno Unito, America e Arabia Saudita - afferma il regime.
Ogni tentativo di rivolta in Iran - 2009, 2019 - è finito in lacrime, celle di prigione affollate e funerali attentamente monitorati. Al contrario delle precedenti, però, le attuali proteste hanno la possibilità di trasformarsi in rivoluzione. Perché questa volta, in tutto l'Iran, c'è la sensazione che sia stato raggiunto un punto di svolta. Attrici, registi, giornalisti, critici, alpinisti, atleti e medici pubblicano le loro proteste sui social media. Non si tratta solo di rivendicare il diritto per le donne di vestirsi come scelgono, di portare i capelli al vento e di andare in bicicletta. I lavoratori manifatturieri chiedono aumenti salariali. I negozianti scendono in sciopero. Gravi disordini si scatenano tra le minoranze etniche, in particolare i curdi - Mahsa Amini era curda. La rivolta attuale non è causata solo dal pestaggio di una giovane donna, ma dall'elezione truccata di Ebrahim Raisi a presidente. Per la prima volta, Raisi si trova di fronte a una verità sgradevole che limiterà la sopravvivenza stessa della repubblica islamica: la crescente secolarizzazione. Stando al sondaggio del Tony Blair Institute, in Iran il 71% degli uomini e il 74% delle donne si oppongono all'uso obbligatorio del hijab. E l'84% di chi si oppone al hijab obbligatorio vuole un cambio di regime. Non solo: il 76% che vuole un cambio di regime considera la religione poco importante per la propria vita: solo il 26% degli iraniani urbani prega cinque volte al giorno, mentre nell'Iran rurale si arriva a stento al 33% . Non solo. Diversamente dalle manifestazioni precedenti, i manifestanti provengono da ogni ceto sociale e da ogni parte del paese. E sono guidati da donne. Sono state le donne a guidare le richieste di libertà religiosa, diritti civili e riforme democratiche. Queste donne coraggiose, e gli uomini che manifestano con loro, stanno subendo proiettili, percosse, torture, imprigionamento, condanne senza processo. Il regime non si è mai scontrato con un dissenso così diffuso, ampio e unito. Tutte le classi, i livelli socioeconomici e le etnie hanno unito le forze. Le proteste hanno unificato l'Iran, colmando le divisioni sociali, etniche e religiose e rappresentano la più grande minaccia per il regime islamico da anni. Perché non vogliono solo una riforma economica e politica. Chiedono libertà e cambio di regime. Il fatto che le proteste siano guidate principalmente da giovani donne e studentesse è segno di un profondo cambiamento sociale negli atteggiamenti tra le giovani generazioni che non sarà facilmente soppresso da minacce e violenza. Inoltre, nonostante gli sforzi per controllare Internet, queste proteste sono alimentate dai social media, che hanno consentito alle donne nuovi modi per esprimere solidarietà con altre donne in Iran e nel resto del mondo. Questi cambiamenti sociali, germogliati silenziosamente sotto il controllo del regime, non scompariranno. Non solo. A differenza delle proteste passate, in questa rivolta non ci sono leader da mettere a tacere, nessun gruppo politico da reprimere, nessuna promessa di riforma economica per pacificarli. Con la rivoluzione del 1979, quando l'Ayatollah Ruhollah Khomeini è salito al potere, le donne hanno perduto il diritto al divorzio, all'affidamento dei figli, a viaggiare senza il permesso del marito. Più simbolicamente, sono state costrette a indossare il velo indipendentemente dalle loro convinzioni e ideologie. Da allora il hijab è diventato non solo il segno più visibile di lealtà al regime, ma un metodo di controllo sociale. Dice Masih Alinejad, la giornalista iraniana che otto anni fa ha iniziato il movimento online My Stealthy Freedom, dove le donne iraniane si fotografavano audacemente senza velo: “Questo non è un pezzo di stoffa – è il muro di Berlino”. Il controllo dell'abbigliamento femminile non è un sottoprodotto del dominio islamico, ma il suo fondamento: se cade il hijab, cade anche il regime. Ogni donna ribelle, quindi, è un altro mattone sciolto. Siamo ormai entrati nel terzo mese di proteste. E nonostante gli arresti, le torture, gli omicidi, le manifestazioni continuano, scandite ossessivamente dallo slogan “Donne, vita, libertà”, Jin, Jiyan, Azadi.
Ogni tentativo di rivolta in Iran - 2009, 2019 - è finito in lacrime, celle di prigione affollate e funerali attentamente monitorati. Al contrario delle precedenti, però, le attuali proteste hanno la possibilità di trasformarsi in rivoluzione. Perché questa volta, in tutto l'Iran, c'è la sensazione che sia stato raggiunto un punto di svolta. Attrici, registi, giornalisti, critici, alpinisti, atleti e medici pubblicano le loro proteste sui social media. Non si tratta solo di rivendicare il diritto per le donne di vestirsi come scelgono, di portare i capelli al vento e di andare in bicicletta. I lavoratori manifatturieri chiedono aumenti salariali. I negozianti scendono in sciopero. Gravi disordini si scatenano tra le minoranze etniche, in particolare i curdi - Mahsa Amini era curda. La rivolta attuale non è causata solo dal pestaggio di una giovane donna, ma dall'elezione truccata di Ebrahim Raisi a presidente. Per la prima volta, Raisi si trova di fronte a una verità sgradevole che limiterà la sopravvivenza stessa della repubblica islamica: la crescente secolarizzazione. Stando al sondaggio del Tony Blair Institute, in Iran il 71% degli uomini e il 74% delle donne si oppongono all'uso obbligatorio del hijab. E l'84% di chi si oppone al hijab obbligatorio vuole un cambio di regime. Non solo: il 76% che vuole un cambio di regime considera la religione poco importante per la propria vita: solo il 26% degli iraniani urbani prega cinque volte al giorno, mentre nell'Iran rurale si arriva a stento al 33% . Non solo. Diversamente dalle manifestazioni precedenti, i manifestanti provengono da ogni ceto sociale e da ogni parte del paese. E sono guidati da donne. Sono state le donne a guidare le richieste di libertà religiosa, diritti civili e riforme democratiche. Queste donne coraggiose, e gli uomini che manifestano con loro, stanno subendo proiettili, percosse, torture, imprigionamento, condanne senza processo. Il regime non si è mai scontrato con un dissenso così diffuso, ampio e unito. Tutte le classi, i livelli socioeconomici e le etnie hanno unito le forze. Le proteste hanno unificato l'Iran, colmando le divisioni sociali, etniche e religiose e rappresentano la più grande minaccia per il regime islamico da anni. Perché non vogliono solo una riforma economica e politica. Chiedono libertà e cambio di regime. Il fatto che le proteste siano guidate principalmente da giovani donne e studentesse è segno di un profondo cambiamento sociale negli atteggiamenti tra le giovani generazioni che non sarà facilmente soppresso da minacce e violenza. Inoltre, nonostante gli sforzi per controllare Internet, queste proteste sono alimentate dai social media, che hanno consentito alle donne nuovi modi per esprimere solidarietà con altre donne in Iran e nel resto del mondo. Questi cambiamenti sociali, germogliati silenziosamente sotto il controllo del regime, non scompariranno. Non solo. A differenza delle proteste passate, in questa rivolta non ci sono leader da mettere a tacere, nessun gruppo politico da reprimere, nessuna promessa di riforma economica per pacificarli. Con la rivoluzione del 1979, quando l'Ayatollah Ruhollah Khomeini è salito al potere, le donne hanno perduto il diritto al divorzio, all'affidamento dei figli, a viaggiare senza il permesso del marito. Più simbolicamente, sono state costrette a indossare il velo indipendentemente dalle loro convinzioni e ideologie. Da allora il hijab è diventato non solo il segno più visibile di lealtà al regime, ma un metodo di controllo sociale. Dice Masih Alinejad, la giornalista iraniana che otto anni fa ha iniziato il movimento online My Stealthy Freedom, dove le donne iraniane si fotografavano audacemente senza velo: “Questo non è un pezzo di stoffa – è il muro di Berlino”. Il controllo dell'abbigliamento femminile non è un sottoprodotto del dominio islamico, ma il suo fondamento: se cade il hijab, cade anche il regime. Ogni donna ribelle, quindi, è un altro mattone sciolto. Siamo ormai entrati nel terzo mese di proteste. E nonostante gli arresti, le torture, gli omicidi, le manifestazioni continuano, scandite ossessivamente dallo slogan “Donne, vita, libertà”, Jin, Jiyan, Azadi.
Fonte: di Giulietta Rovera