"DA UN LIBRO DI KUNDERA UNA LEZIONE PER L'OGGI"
22-05-2023 - STORIE&STORIE
L'editore Adelphi ha da poco pubblicato un aureo libretto dello scrittore e drammaturgo ceco Milan Kundera intitolato Occidente prigioniero composto da due testi: il primo, La letteratura e le piccole nazioni ripropone l'intervento dello scrittore al Congresso degli scrittori cecoslovacchi del 1967 e il secondo, un articolo, Un occidente prigioniero o la tragedia dell'Europa centrale apparso nel 1983 in Francia – dove Kundera si era trasferito – sulla rivista “Débat”.
Entrambi gli scritti hanno per tema l'importanza della cultura. Il primo dei due ci riporta indietro nel tempo, agli anni in cui stava maturando quella che sarà poi conosciuta come la ‘Primavera di Praga'. Dalla tribuna del Congresso, Kundera lancia la sua provocazione: la fioritura della cultura ceca è avvenuta sotto il segno dell'Europa, nella fattispecie nel segno della traduzione letteraria fino al periodo del XX secolo tra le due guerre che ha visto, finalmente, la cultura ceca pienamente inserita in quella europea ma ancora in una fase aurorale, bruscamente interrotta dal ‘gelo' staliniano. Scrive lo scrittore: «sono tuttavia convinto che la cultura serva più di un tempo a giustificare e preservare l'identità nazionale» e per questa ragione ritiene essenziale che la comunità nazionale avesse ben chiaro il compito della cultura e della letteratura. Allo stesso tempo, però, teme che il carattere fondamentalmente ‘plebeo' della letteratura ceca rischi di rinchiudere la cultura del paese in una visione pericolosamente provinciale e sganciata dalle correnti più profonde del pensiero europeo. Alla fine del suo intervento, Kundera sferra il suo attacco alla censura del regime: «è incontestabile: se oggi da noi le arti prosperano, è solo grazie ai progressi della libertà di pensiero. E dall'ampiezza di questa libertà dipende strettamente il destino della letteratura ceca». Kundera rifiuta lo stalinismo ma non rinnega il comunismo la cui esperienza, per lo scrittore, consente di rispondere ai quesiti più profondi che riguardano l'esistenza dell'uomo in una maniera totalmente nuova. La speranza per un socialismo ‘dal volto umano' non era ancora del tutto scomparsa dal suo orizzonte.
Completamente diverso è, invece, il panorama nel quale si va ad inserire il secondo testo del libro. Siamo nel 1983, dal 1975 Kundera vive in Francia. Nel 1979 gli è stata revocata la cittadinanza cecoslovacca ed è ormai uno degli esponenti di punta del dissenso contro il regime. L'articolo Un occidente prigioniero rappresenta un veemente atto d'accusa contro l'Europa occidentale che ha smarrito il senso di solidarietà nei confronti dei paesi dell'Europa centrale ormai abbandonati al loro destino. Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia fra il 1956 e il 1970 si sono rese protagoniste di rivolte sostenute da tutto il popolo che, per lo scrittore, non hanno riguardato l'Europa dell'est ma l'Europa centrale che per lui costituisce qualcosa di ben diverso dall'Europa dell'est. Per Kundera nel dopoguerra si erano venuti a formare tra blocchi distinti, l'Europa occidentale, quella orientale e una zona cuscinetto – l'Europa centrale – formata da Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia. Queste tre realtà nazionali si erano trovate, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, inopinatamente legate all'Europa orientale alla quale non erano mai appartenute né linguisticamente né culturalmente. Questa situazione aveva fatto sì che, nell'arco di un quindicennio, in quei tre paesi avessero avuto luogo altrettante sollevazioni popolari.
Quando la sopravvivenza di una determinata realtà nazionale è messa in discussione, invariabilmente «la cultura diventa il valore vivo intorno al quale tutto il popolo si stringe». Kundera ricorda quando, nell'Ottocento, si pensava che l'Europa centrale avrebbe potuto essere ‘l'Europa dell'Europa', ossia il massimo di diversità nel minimo spazio.
Lo scrittore riflette su come si avverta in maniera speciale ai confini orientali dell'Occidente la diversità russa, un popolo che ai polacchi appare storicamente come composto di barbari. Di fronte all'estraneità che suscita nei paesi dell'Europa centrale la cultura russa, questi paesi si sono resi conti di come, dopo il 1945, venisse messa in discussione la loro ‘occidentalità'. Il dramma di questi paesi era quello di essere diventati invisibili agli occhi dell'Europa occidentale; queste nazioni sfibrate dalla lotta per la loro sopravvivenza rischiavano l'estinzione. Sfruttando, poi, equivoco del ‘mondo slavo' cui furono assimilati – malgrado le loro lingue non siano affatto slave – anche romeni e ungheresi, si finì per rendere normalizzata la situazione post-1945. Eppure questa ‘piccola nazione' come la definisce Kundera, rappresentata dall'Europa centrale ha originato una cultura, molto spesso fecondata dall'ebraismo che ha lasciato un segno potente sulla cultura europea. I paesi dell'Europa centrale diffidano della Storia perché il loro posto è fra i vinti e di quella Storia si fanno beffe.
Con un'ardita metafora, Kundera riconduce il destino di questi paesi a un'anticipazione di quello che sarà per tutti gli altri paesi europei. In questo senso, il sismografo più sensibile è la letteratura: da Broch a Musil, da Hasek a Kafka.
Dunque, perché l'Europa si è mostrata così indifferente nei confronti del destino dell'Europa centrale? Ancora una volta la risposta ha a che fare con la cultura che per secoli ha rappresentato quell'insieme di valori condivisi che ha plasmato lo spirito europeo. Se nel Medioevo la religione ha lasciato il posto alla cultura e la cultura stava battendo in ritirata cosa avrebbe potuto forgiare di nuovo quel nucleo condiviso di valori? Kundera non dà una risposta a questo interrogativo ma indica con chiarezza che anche l'Europa occidentale stava regredendo sotto il profilo culturale comune intravedendo in questo un pericolo mortale per la sua sopravvivenza come entità spirituale.
A quarant'anni di distanza da quelle parole possiamo onestamente riconoscere che Kundera si sbagliava?
Entrambi gli scritti hanno per tema l'importanza della cultura. Il primo dei due ci riporta indietro nel tempo, agli anni in cui stava maturando quella che sarà poi conosciuta come la ‘Primavera di Praga'. Dalla tribuna del Congresso, Kundera lancia la sua provocazione: la fioritura della cultura ceca è avvenuta sotto il segno dell'Europa, nella fattispecie nel segno della traduzione letteraria fino al periodo del XX secolo tra le due guerre che ha visto, finalmente, la cultura ceca pienamente inserita in quella europea ma ancora in una fase aurorale, bruscamente interrotta dal ‘gelo' staliniano. Scrive lo scrittore: «sono tuttavia convinto che la cultura serva più di un tempo a giustificare e preservare l'identità nazionale» e per questa ragione ritiene essenziale che la comunità nazionale avesse ben chiaro il compito della cultura e della letteratura. Allo stesso tempo, però, teme che il carattere fondamentalmente ‘plebeo' della letteratura ceca rischi di rinchiudere la cultura del paese in una visione pericolosamente provinciale e sganciata dalle correnti più profonde del pensiero europeo. Alla fine del suo intervento, Kundera sferra il suo attacco alla censura del regime: «è incontestabile: se oggi da noi le arti prosperano, è solo grazie ai progressi della libertà di pensiero. E dall'ampiezza di questa libertà dipende strettamente il destino della letteratura ceca». Kundera rifiuta lo stalinismo ma non rinnega il comunismo la cui esperienza, per lo scrittore, consente di rispondere ai quesiti più profondi che riguardano l'esistenza dell'uomo in una maniera totalmente nuova. La speranza per un socialismo ‘dal volto umano' non era ancora del tutto scomparsa dal suo orizzonte.
Completamente diverso è, invece, il panorama nel quale si va ad inserire il secondo testo del libro. Siamo nel 1983, dal 1975 Kundera vive in Francia. Nel 1979 gli è stata revocata la cittadinanza cecoslovacca ed è ormai uno degli esponenti di punta del dissenso contro il regime. L'articolo Un occidente prigioniero rappresenta un veemente atto d'accusa contro l'Europa occidentale che ha smarrito il senso di solidarietà nei confronti dei paesi dell'Europa centrale ormai abbandonati al loro destino. Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia fra il 1956 e il 1970 si sono rese protagoniste di rivolte sostenute da tutto il popolo che, per lo scrittore, non hanno riguardato l'Europa dell'est ma l'Europa centrale che per lui costituisce qualcosa di ben diverso dall'Europa dell'est. Per Kundera nel dopoguerra si erano venuti a formare tra blocchi distinti, l'Europa occidentale, quella orientale e una zona cuscinetto – l'Europa centrale – formata da Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia. Queste tre realtà nazionali si erano trovate, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, inopinatamente legate all'Europa orientale alla quale non erano mai appartenute né linguisticamente né culturalmente. Questa situazione aveva fatto sì che, nell'arco di un quindicennio, in quei tre paesi avessero avuto luogo altrettante sollevazioni popolari.
Quando la sopravvivenza di una determinata realtà nazionale è messa in discussione, invariabilmente «la cultura diventa il valore vivo intorno al quale tutto il popolo si stringe». Kundera ricorda quando, nell'Ottocento, si pensava che l'Europa centrale avrebbe potuto essere ‘l'Europa dell'Europa', ossia il massimo di diversità nel minimo spazio.
Lo scrittore riflette su come si avverta in maniera speciale ai confini orientali dell'Occidente la diversità russa, un popolo che ai polacchi appare storicamente come composto di barbari. Di fronte all'estraneità che suscita nei paesi dell'Europa centrale la cultura russa, questi paesi si sono resi conti di come, dopo il 1945, venisse messa in discussione la loro ‘occidentalità'. Il dramma di questi paesi era quello di essere diventati invisibili agli occhi dell'Europa occidentale; queste nazioni sfibrate dalla lotta per la loro sopravvivenza rischiavano l'estinzione. Sfruttando, poi, equivoco del ‘mondo slavo' cui furono assimilati – malgrado le loro lingue non siano affatto slave – anche romeni e ungheresi, si finì per rendere normalizzata la situazione post-1945. Eppure questa ‘piccola nazione' come la definisce Kundera, rappresentata dall'Europa centrale ha originato una cultura, molto spesso fecondata dall'ebraismo che ha lasciato un segno potente sulla cultura europea. I paesi dell'Europa centrale diffidano della Storia perché il loro posto è fra i vinti e di quella Storia si fanno beffe.
Con un'ardita metafora, Kundera riconduce il destino di questi paesi a un'anticipazione di quello che sarà per tutti gli altri paesi europei. In questo senso, il sismografo più sensibile è la letteratura: da Broch a Musil, da Hasek a Kafka.
Dunque, perché l'Europa si è mostrata così indifferente nei confronti del destino dell'Europa centrale? Ancora una volta la risposta ha a che fare con la cultura che per secoli ha rappresentato quell'insieme di valori condivisi che ha plasmato lo spirito europeo. Se nel Medioevo la religione ha lasciato il posto alla cultura e la cultura stava battendo in ritirata cosa avrebbe potuto forgiare di nuovo quel nucleo condiviso di valori? Kundera non dà una risposta a questo interrogativo ma indica con chiarezza che anche l'Europa occidentale stava regredendo sotto il profilo culturale comune intravedendo in questo un pericolo mortale per la sua sopravvivenza come entità spirituale.
A quarant'anni di distanza da quelle parole possiamo onestamente riconoscere che Kundera si sbagliava?
Fonte: di Andrea Becherucci